Fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum (Ep. 10. 1) evita la folla, evita la compagnia di pochi, evita anche il singolo.
A mano a mano che i rapporti umani si inferociscono la solitudine, che può essere penosa nel tempo della cordialità e della solidarietà diffuse, diventa un rifugio prezioso, privilegiato.
Nel Filottete di Sofocle il protagonista abbandonato nella desolata isola di Lemno sentendo dire parole greche da uomini sopraggiunti chiede pietà e un aiuto, pesentandosi con queste parle “ a[ndra duvsthnon, movnon,-e[rhmon w|de ka[filon" (Sofocle, Filottete, vv. 227-228), uomo infelice, solo, abbandonato, così e senza amici.
Questo lamento ritorna più volte nelle descrizioni pietose che quest’uomo costretto a rimanere solo fa di sé:"mh; livph/" m j ou[tw movnon,-e[rhmon" (vv. 470-471), non lasciarmi così solo, abbandonato, dice a Odisseo; e, poco più avanti, lo prega:"ajlla; mhv m j ajfh'/"-e[rhmon ou{tw cwri;" ajnqrwvpwn stivbou" (vv. 486-487), non lasciarmi nella desolazione così escluso da ogni traccia di uomini.
Per l'uomo greco che viveva nella povli" la solitudine è una condizione innaturale :"benché si muovesse liberamente, l'individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello Stato, nella famiglia, nel fato "[1].
La solitudine di Filottete dunque è tipicamemte penosa , come ha notato bene Kierkegaard: La riflessione di Filottete non si sprofonda in se stessa , ed è tipicamente greco che egli si dolga che nessuno è a conoscenza del suo dolore" (Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, in Enten Eller, tomo II, pp.33-34).
Questo vale per il greco dell’Atene del tempo di Sofocle.
Nell’epoca ellenistica la solitudine viceversa è spesso ricercata come un rifugio dal peso dell’umana compagnia, mentre cresce viceversa il rapporto con la natura: fortunate senex, ergo tua rura manebunt” (Virgilio , Egloga I, 46) dice Melibeo espropriato a Titiro che, raccomandato, potrà restare nei propri campi a fruire delle sacre fonti e della fresco dell’ombra tra i fiumi conosciuti (vv. 51-52)
Torniamo a Seneca. Eppure lo stolto può danneggiarsi da con la propria stupidità.
Dobbiamo guardarci non solo dagli altri ma anche ciascuno da sé: “ipse se prodit!” (I, 2) si tradisce da solo.
Dobbiamo dunque essere attenti e selettivi nella scelta della compagnia
Possiamo ammettere solo chi ci fa pensare:”Iste homo non est unus e populo, ad salutem spectat” (10, 3) quest’uomo non è uno dei molti, mira alla salute dell’anima prima che a quella del corpo. Seneca suggerisce a Lucilio: “roga bonam mentem, bonam valetudinem animi, deinde tunc corporis” (10, 4), chiedi la buona capacità mentale, la buona salute dell’anima quindi quella del corpo.
Audacter cum deo roga: nihil illum de alieno rogaturus es, chiedi alla divinità senza timore, non intendi chiederle nessuna delle cose altrui.
Personalmente ho imparato a non chiedere niente: mostro quello che so fare e quanto posso dare, quindi aspetto che altri chiedano a me.
Sic vive cum hominibus tamquam deus videat, sic loquere cum deo tamquam homines audiant, Vale (10, 5), vivi con gli uomini come se dio di vedesse, parla con dio come se gli uomini ti ascoltassero. Stai bene.
Bologna 23 maggio 2025 ore 18, 07 giovanni ghiselli
p. s.
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