sabato 24 maggio 2025

Ifigenia CXXIII “Bricconaccia, malandrina/fosti ognor la mia ruina”. Il contrappasso.


 

Lunedì 30 luglio 1979 fu una giornata dura assai, tuttavia si concluse con l’accettazione del destino. Ricordo tale  amor fati, a me stesso e a voi lettori per significare che  non dobbiamo dimenticare la via smarrita se vogliamo ritrovarla una volta che ci siamo ravveduti dopo che fuorviati, abbiamo percorso un pezzo di strada coperto da un tappeto rosso imbevuto  di sangue. Un avvertimento di morte.

 Exinde quid agi oporteat bonis successibus instruendi[1]:  dobbiamo farci insegnare dai buoni successi  quello che s’ha da fare, e viceversa imparare  dagli insuccessi a non ripeterli.

 

Quel giorno imparai una volta per tutte a redimere il dolore con l’intelligenza dello stesso dolore. Ne avrei avuto una conferma molto autorevole dalla parodo dell’Agamennone di Eschilo:  tw'/ pavqei mavqo" (v. 177), attraverso la sofferenza, la comprensione.

Quel giorno dopo le ore di lingua ungherese ascoltate distracta mente, salii sul tram numero uno per cercare un altro contatto almeno telefonico con Ifigenia. La sua posta non era arrivata ovviamente. Volevo sapere se l’avesse spedita o almeno pensata. Stava diventando una manìa. Nemmeno una cartolina avevo ricevuto. Da bambino, quando ero  Moena con la zia Giulia, nelle estati dei primi anni Cinquanta, aspettavo parole scritte dalla mamma, invano, e ogni giorno cresceva il desiderio doloroso di pur poche parole della madre mia amatissima che a Pesaro stava.

La sento meno lontana ora che sta nel cielo.

A Debrecen avevo bisogno di sentire la voce di Ifigenia per trarne qualche conforto più o meno valido, oppure   un’indubbia disperazione che mi consentisse di cercarmi un altro amore mensile lì, nell’Università estiva dove Eros riuniva  ragazze e ragazzi di educazione accademica proprio perché si conoscessero.  La conoscenza approfondita di Silvia sarebbe stata un progresso sicuro se non mi avesse punto a sangue in ogni momento quel fastidioso tafano della fedeltà. Una virtù risibile se riferita alla donna che non manteneva nemmeno la promessa di una telefonata.  

Entrai nella posta centrale, piena come sempre, di gente non bella né lieta e chiesi la linea. Tra una cosa e l’altra si era fatta l’ora di pranzo, il tocco, quando Ifigenia probabilmente era in casa a desinare con altre persone, a me ignote.

 Rispose la padrona della casetta affittata.

Mi chiese di aspettare un momento, e invece tornò dopo un tempo non breve.

Disse che Ifigenia non era in casa.

“E’ sicura?-domandai.

“Certo che sono sicura-rispose- qui non c’è più nessuno, sono andati via tutti”.

Uscii con la testa che mi girava.

Pensavo: “la tenutaria è andata a chiedere della ragazza; costei  probabilmente era  tenuta impegnata da qualche piacere e si era fatta negare. “Per essere bella è  bella pensai. Ma lo sono anche  gatti et pavones[2],  e non danno tanto fastidio.

Dopo tale batosta non mi sentii di andare nella mensa fragorosa delle risate dei giovani. Camminavo per il centro di Debrecen in balia di emozioni violente e di pensieri confusi.

La odiavo e amavo come mi succedeva da piccolo con alcune delle donne di casa. Dai sentimenti confusi  cercavo di ricavare pensieri nuovi e chiari.

 Dai fatti dolorosi dovevo risalire alle cause anche antiche, come ero riuscito a passare dalla congerie di nozioni grammaticali del greco e del latino al pensiero degli autori, ed ero arrivato a sentire e gustare la bellezza, la carne sempre viva dei loro testi. 

“Sai quanto potresti crescere meglio se avessi una compagna che ti infondesse stati d’animo buoni e coerenti! Ifigenia che cosa è? Una ragazza geniale e pura, un angelo venuto a elevarmi beandomi e beatificandomi, oppure una donna corrotta da vizi turpi che la faranno precipitare nell’abisso del caos traendo con sé la mia povera persona avvinghiata a quel corpo infernale?

O perfino l’una e l’altra cosa?

Mi venne in mente che pochi giorni prima della partenza per Debrecen mi aveva detto di essere stata corteggiata e fatta oggetto di proposte poco belle  da un cavaliere del lavoro con tanto di Ferrari e yacht, un uomo attempato cui aveva replicato ridendo sonoramente. Lì per lì avevo rimosso questo evento doloroso.

“Una risata- pensavo lì a Debrecen - può significare anche consenso o almeno un prendere tempo, soprattutto se è seguita da un sorriso. Insomma non è un rifiuto deciso”.

Mi vennero in mente alcune parole di Masetto a Zerlina del Don Giovanni di Da Ponte musicato da Mozart:

“Bricconaccia, malandrina,

Fosti ognor la mia ruina"

(…)

Resta, resta!

E’ una cosa molto onesta;

 faccia il nostro cavaliere

 cavaliera ancora te” (I, 9).

 

Poi  però  mi venne in mente che sette anni prima, nel tempo di Kaisa, la figura del seduttore di donne altrui, di tutte le donne, era il mio ideale e il mio modello. Probabulmente la conversione all’amore serio e monogamico non mi si confaceva. E dopo tutto mi meritavo le corna secondo la legge del contrappasso: "rimane saldo, finché Zeus rimane nel trono/ che chi ha fatto subisca: infatti è legge divina"[3], ricordai e accettai la mia sorte.

Avvertenza: il blog contiene 3 note e il greco non traslitterato

 

Bologna 25 maggio ore 19, 03  giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Parole di Giuliano Augusto nelle Storie di Ammiano Marcellino (XXI, 5, 6)

57 Cfr. Seneca, Ep. 76, 9 Formonsus est: et pavones

[3] Eschilo, Agamennone, 1563-1565. Se lo volete in greco: “ mivnmnei, de; mivmnonto" ejn qrovnw/ Dio;"- paqei'n to;n e[rxanta: qesmion gavr”.

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