giovedì 29 maggio 2025

Ifigenia CXXXVII . La corsa, poi la gita nella puszta. Da solo.


 

Salito in camera rimuginavo: “Aspetta il mio espresso”, aveva telegrafato. Poi qualcuno le ha fatto cambiare roposito. Chissà quale rozzo bagnino l’ha stuzzicata , o quale borghesuccio l’ha manipolata dopo essersi spacciato da gran signore”.

“Faccia il tuo grande signore, gran signora pure te”, canticchiavo simulando noncuranza. Invero era il lugubre qrh`no", il canto funebre dell’amore morto male.

Poi tornavo a fare ipotesi più o meno balorde: “Oppure, perversa com’è, magari si è data da fare con il curiale cui  sfacciatamente esibiva le mutande celesti tra le coscione sudate durante la gita sul lago di Garda, a Sirmione. Salve o venusta, le aveva detto il domine non so quanto turbato, ma forse era un sant’uomo e probabilmente più che a lei si rivolgeva alla venusta Sirmio”, memore di Catullo.

Tali erano gli arzigogoli del mio cervello arido e inconcludente mentre calzavo le scarpe di gomma, rosse e non poco fetide, le stesse che avrei usato due anni più tardi quando andammo sull’ombelico del mondo a pregare Apollo, il signore di Delfi, perché ci concedesse felices in cetera cursus, percorsi ricchi di successi in quanto restava da fare a me e a lei. Allora i nostri cammini erano già volti in direzioni diverse. Eravamo contenti del discidium avvenuto. Si poteva fare ancora l’amore e non avere più il problema datato e stonato della fedeltà tra noi. Avevo finalmente capito che non potevo imporla chi non ne voleva sapere. Quel 9 agosto invece mi allacciavo le scarpe puzzolenti per correre e liberarmi dalle tossine dell’odio. Feci un tempo mediocre: superiore ai venti minuti. La pena mi appesantiva l’anima e il corpo.

 

Più tardi  andai a Hortobágy da solo. Partìi  dopo avere atteso tutti i passaggi del postino. Invano. Come succedeva a Moena, in via Damiano Chiesa 11 dove passavo parte dell’estate negli anni Cinquanta sotto la tutela della zia Giulia, aspettando ogni giorno per diverse  ore almeno una cartolina della mamma anche lei bella e bruna, pure lei sempre silente.

Pensavo che cantasse:

“oggi non ho scritto a Giannetto,

ieri nemmeno gli ho scritto,

neanche domani gli scriverò.

Lui deve attendere ancora:

ieri, oggi domani,

deve attendere ognor!”.

 

Cantavo  questo a Moena non senza singhiozzare. A Debrecen 25 anni più tardi sentivo ancora l’eco di quei singhiozzi antichi.

Dai novantanni però la mamma ha contraccambiato il mio amore. Abbiamo smesso di combattere il nostro bellum plus quam civile. Ora la madre mia sta nei cieli e ogni tanto si appare viva nei sogni. Ci abbracciamo quasi sempre.

 

Quel pomeriggio di fine estate dell’anno 1979 il cielo era tutto sereno: a mano a mano che il sole calava sulla grande pianura un po’ desolata lo supplicavo di farmi avere un segno da Ifigenia. Ma il dio non accennava ad ascoltarmi, a esaudirmi: avrei preso per buono financo un cenno pur quasi impercettibile del suo assenso. L’avrei notato e ne avrei tratto auspici. Ma non ci fu verso.

 

Allora mi venne in mente il pomeriggio radioso del luglio del 1974 quando andai là nella puszta con Päivi che credevo fosse il massimo scopo della mia eterna ricerca. Il punto d’arrivo: la meta dove il mio tanto ricercar fu volto. C’erano Bruno, Silvano e due tedesche amiche loro. Eravamo sei giovani educati, contenti, in due automobili. Uno dei momenti più belli della mia vita mortale fu quando scesi dalla Volkswagen e andai a urinare in direzione del sole. Allora Dio mi ascoltò, Dio mi esaudì. E’ stata l’ultima volta che ho amato una donna senza nessuna riserva. Eeo improvvido di un avvenir malfido con quella donna.

 Nei cinque anni passati da allora il caro Bruno era già morto e gli altri quattro erano andati comunque lontano da me. Anche la nostra bambina era morta. Più tardi è morto pure Silvano e anche Alfredo.

Mi fermai sul luogo dell’atto magico e propiziatorio di cinque anni prima. Ero già innamorato di Päivi e mi sentivo contraccambiato. Lo ero e lo sarei stato per un mese. Facemmo l’amore quella sera stessa, la sera del dì della festa dedicata alla conoscenza: in tutti i sensi. Meravigliosamente io conobbi quella ragazza rossa nel collegio numero due.

Mentre urinavo, osservavo la luce del sole al tramonto  e ci vedevo l’immagine della ragazza rossa la  donna amata quantum amabitur nulla pensavo. In lei avevo visto la luce di cui avevo bisogno.

 

Ma torniamo alla solitudine del 1979. Rivolsi  la parola all’amico morto ante diem e sempre rimpianto.

“Allora ci bastava poco per essere felici. E’ ve’ Bruno? Ci bastava una ragazza fine e bellina, almeno passabile, una per uno, se no si litigava. I nostri attriti di certi momenti dipendevano dal fatto che tanto a me quanto a te dava fastidio che l’altro, temuto magari a torto come rivale, piaceva alle donne lui pure, e ognuno di noi temeva di piacere di meno. Ma poi nell’età allegra di quegli anni con una ragazza a testa, una bottiglia di Egrikikavér, un bagno in piscina, una partita a tennis e due ghiribizzi eravamo contenti. Si era giovani allora e ci si accontentava. Ragazzi  eravamo. Tu caro amico, sei rimasto giovane e bello fino alla tua dipartita. Quando ti penso, mi tornano in mente le gioie ancora ingenue dei nostri venti anni che si avvicinavano ai trenta però, e incombevano già tempi peggiori per tutti. Il 1974 fu forse il limes, o limen se preferisci, da giurisperito qual sei.

 Tu non l’hai oltrepassato quel confine tra la nostra età dell’oro e le successive sempre più tristi. Non dico meglio per te, non lo dico, per carità,  ma è vero che ti sei risparmiato tanti orrori, tante delusioni, tanti disincanti che rendono vecchi.

Del resto con il passare degli anni , mentre le forze scemano, crescono le pretese. Adesso ci vuole altro che la ragazza bellina e una bottiglia di vino per essere appagati. Io ho bisogno di onestà, pulizia, intelligenza, cultura. Ifigenia la mia donna, non tiene fede alle promesse. Bella è bella ma una voce mi dice: “un altro amante la tiene in pugno”.  Poco, fa in piscina, ho contato i battiti cardiaci: quarantadue in un minuto. Ancora qualcuno in meno poi ti raggiungo dove sei ora: forse là, nella pianura Elisia ai confini del mondo dove è facilissima per i mortali la vita[1], dove ci ritroveremo e staremo bene come nel collegio di Debrecen quando eravamo nel fiore noi due. Ti ricorderò nel capolavoro che scriverò quando le Muse mi spingeranno a essere l’aedo di Debrecen. Fulvio me l’ha profetizzato e io aspetto l’ispirazione. Se arriverà, anche tu non omnis morieris[2]”.

Allora vorrò contrappore pagine che sappiano di umanità alla brutalità che ha dilagato dal 1969  al 1978 con l’assassinio di Moro.  Hominem pagina nostra sapiet.

 

Mi ero seduto sul paraurti posteriore della bianca Volkswagen. Pensai queste parole e le scrissi. Poi ripartii e arrivai a Hortobágy. Salìi sui gradini-sedili del teatro di legno situato davanti al fiume e al ponte famoso, quello a nove arcate: il kilenclyukú híd.

Luogo di ricordi e pure di attese: l’anno seguente, sul palcoscenico di quel piccolo teatro, Ifigenia in scarpe da ginnastica, calzoncini bianchi attillati e maglia rossa, aderente,  avrebbe alzato le braccia al cielo gridando : “

O! for a Muse of fire, that would ascend

The brightest heaven of invention[3] .

Voleva lasciare la scuola per recitare nei teatri i drammi dei grandi autori e io avrei voluto diventare il più grande di tutti.

Non sapevo che da conferenziere avrei recitato tante parti anche io.

Intanto Fulvio, l’amico caro e profetico la fotografava. Oggi nemmeno Fulvio c’è più qui sulla terra. E’ un amico celeste anche lui. Il più caro tra gli amici che stanno in cielo.

 

Nella O di legno[4] del teatro nella puszta  dunque l’anno seguente a questo che sto raccontando la mia giovane amante avrebbe pregato.

Chiedeva al buon Dio di farla diventare un’attrice famosa.

Insegnare proprio non le piaceva. Bella era bella kalh; kalhv[5].

Alle sue spalle, c’era la scenografia naturale: il paesaggio non dipinto ma vero: le canne, il fiume paludoso, il ponte a nove arcate, il cielo. Davanti, sulla càvea, non c’era altro pubblico che me e Fulvio intento a fotografarla. Bella era bella. Ma debole e vana, mio Dio, nervosa, non abbastanza proba e colta, e nemmeno tanto astuta e dura da evitare di venire strapazzata, stritolata, inghiottita e vomitata da globo cattivo e corrotto dove voleva entrare nuda inopsque.

In quel mondo  spietato, clientelare, mistificatòrio, le relazioni sono rapporti di forza e di potere.

Lei aveva solo la transeunte, effimera venustà della giovinezza. Per giunta il suo sguardo non era abbastanza espressivo né in termini di dolcezza né di potenza. Aveva commosso me per il mio narcisismo nel tempo in cui mi imitava. Poi avevo perso interesse in seguito ai  suoi sgarbi, al suo egoismo, figli della sua scarsa immaginazione. Senza questa non si capiscono gli altri e non si può divenire un buon attore.

Avrei voluto comunque aiutarla a diventare forte e bella per sempre, non certo vomitarla dopo averla mangiata[6]. Altri l’avrebbero fatto probabilmente.

 

Ma torniamo all’agosto del 1979 . Osservavo i maiali edaci e obesi come sempre. Pensavo: “I porci si nutrono, poi noi ci nutriamo di loro. Ci gonfiamo di carne non nostra. Negli uomini che non sanno o non vogliono pensare, l’anima forse serve soltanto a preservare il corpo dalla putrefazione, come fa il sale con i prosciutti di questi onnivori. Adesso chi sa pensare ed è capace di parlare con chiarezza, togliendo alle persone e alle cose le maschere imposte dal sistema, rimane isolato. Questo è un grave rischio per me. Io vorrei vivere una vita politica, al servizio degli altri”.

Dalla csárda veniva il suono dei violini che  intonavano le danze ungheresi di Brahms. Soffio possente di un fatale andare[7] sempre più avanti, quasi sicuramente da solo, come quando arrivai in Ungheria nel luglio del ’66, come quando me ne andrò per sempre via dalla terra con la più eroica delle morti: senza nessuno vicino.

Nella vita che mi resta invece vorrei imparare dell’altro e fare del bene.

Una donna che non risponde alle mie iterate  suppliche di  mandarmi una lettera, certamente non mi aiuterà. Anzi mi toglierebbe le grandi forze necessarie alla mia opera se rimanessimo insieme. Voglio procedere metodicamente sulla strada in compagnia di persone che condividano i miei gusti, i miei scopi, il mio bisogno di cultura e di arte”.

 

Intanto sopra il teatro di legno  avanzavano nuvole grosse, acquose: provenivano da ovest muovendosi verso il centro del cielo. Coprirono il sole portando un buio precoce, autunnale oramai. Mi si stringeva il cuore. I maiali invece continuavano a grugnire, a spalancare le fauci e mangiare.

Mancava solo che giocassero a tombola oppure a nercante in fiera come fanno gli umani ottenebrati dopo il cenone.

 Una vita la loro senza logos e con il solo pathos del consumo di cibo e la vaghezza di ciance infinite. Andrebbero recuperati a  quanto non è solo bestiale. Fare capire che l’umano riguarda anche loro.  L’umano è inattuale, tuttavia a me piace osare l’inattuale. 

Le nubi coprivano grandi tratti  dell’immensa pianura. Le automobili sulla strada di Eger accendevano i fari. Erano solo le sette di sera, ora legale. Da alcuni comignoli si alzavano spirali di fumo. Autunno era. Mi aspettavano mesi molto difficili se quella mi lasciava o mi costringeva a scappare ad maiora mala vitanda. A un tratto le nuvole raggiunsero la parte orientale del cielo, verso l’Unione Sovietica, e così il dio si spogliò dalle nere e  piagnucolose gramaglie .

Era più bello che mai: grande, rosso, e specchiandosi nell’acqua sotto le arcate si raddoppiava. Si inclinava sulla madre terra e le due immagini erano molto vicine. Si baciavano quasi. “Buon segno”, pensai. “domani mattina, o forse già questa sera, miracolosamente troverò la posta che restaurerà il mio equilibrio”. C’era un senso di pace nell’aria. Una cicogna  volava ad ali ampiamente spiegate verso il nido per nutrire i pulcini e passarvi la notte. Anche io presto sarei tornato ai miei affetti. Se Ifigenia non aveva scritto, c’erano comunque i libri dei miei autori e la bicicletta, organi sempre vivi, sostegni della mia vita . Poi l’amico carissimo Fulvio e gli studenti amati. E avrei trovato un’altra donna meno disordinata e cattiva. Così tra il rassegnato e il confortato entrai nella csárda.

Andai a sedermi al tavolo dove ero stato  con le  tre  finniche: Helena, Kaisa, Päivi in tre anni diversi. Dall’ultimo erano passati cinque estati, già un grande spazio nella vita di un uomo[8].

Da Elena Augusta, la prima in tutti i sensi, addirittura otto.

 

 

 Ricordare quelle tre muse mi spingeva a scrivere. Erano state loro  a scoprire il mio valore e a farlo riconoscere a me: ogni cosa ben fatta che ho compiuto la devo alle loro parole buone. Con l’aiuto che mi veniva dal ricordo del bene ricevuto da quelle tre fatidiche amanti amate trovavo la forza di rifiutare chiunque volesse svalutarmi e avvilirmi.

Non smetterò mai di unire le Grazie alle Muse, dolcissima unione.

Dunque scrissi: “Dopo non avere degnato di una risposta le mie suppliche e non avere mantenuto una promessa inviata in fretta, a casaccio  con un telegramma bugiardo, scritto tra una baldoria e un’altra, Ifigenia nihil iam putabit esse nefas nei miei confronti: crederà di poter infliggermi qualunque torto, menzogna e umiliazione”.

Cercavo le parole forti e atte a deprecare la sciagurata, quando una bambina bruna bruna di sette-otto anni che si trovava seduta su una panca contigua mi domandò perché non scrivessi in ungherese.

“Perché non lo so fare-risposi-conosco solo poche parole nella tua lingua”

“Per esempio?”

“Queste che sto dicendo a te”

“E poi?”

“Sei carina. Come ti chiami?”

“Sarolta[9]. E tu?”

“gianni, Jáno".”

La mamma seduta di fianco alla figlia intervenne: “Sarolta, ringrazia il signore e lascialo scrivere”

Allora la bambina disse, riempiendomi il cuore di gioia: “sei carino anche tu”.

“Grazie signorina”. Poi aggiunsi: “complimenti signora per questa bella bambina. Non c’è dubbio che sia sua figlia. Talis mater…”. Mi guardò stupita forse non si aspettava di venire corteggiata davanti alla figlia.

Ma io davanti a una bella donna non riesco a non farlo. Soprattutto se è una mamma e ancora di più se è la mamma di una bambina. Avevo comunque capito che bastava così. Corteggiare sempre, molestare mai.

Quindi le lasciai in pace. Non senza pensare che se al mio letto di moribondo si avvicinerà un’infermiera carina la corteggerò con l’ultimo fiato, e se questo angelo mi farà un sorriso ne sarò rallegrato in punto di morte. Morirò contento.

“Ecco- ripresi a scrivere- la mia compagna ideale dovrebbe essere ingenua e diretta come questa cittina. Le finniche un po’ primitive, pure se colte, si avvicinavano a questo modello. Con loro avevo potuto parlare senza infingimenti. Dopo altri cinque anni di partite a scacchi o di poker, insomma di mezze verità, con le amanti, le colleghe, i colleghi, i presidi e così via, non ne posso più di finzioni.

Perché quella non scrive? Come puoi avere ancora dei dubbi? Perché non ti ama. Allora se non sei un budello, se sei un uomo umano nei tuoi stessi confronti, devi disprezzarla e rigettarla. Già senti la nausea. Mettiti un dito in gola, l’indice, e vomitala tutta”.

Uscìi dalla csárda. Il sole si era avvicinato tanto alla strada di Eger da trasformarla in un tappeto di porpora. Una guida verso l’eternità dell’arte o la via dolorosa verso una morte straziante? Mi sovvenne il sire Agamennone[10]. Il futuro verrà[11], ricordai ancora

 

Bologna 29 maggio  2025 ore 18, 41giovanni ghiselli.

 

 

p. s.

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[1] Cfr. Odissea, IV, 563ss.

[2] Cfr. Orazio Odi, III, 30, 6

[3] Shakespeare, Enrico V Prologo vv. 1-2. Oh per una Musa di fuoco che sapesse salire al più luminoso cielo dell’invenzione

[4] Cfr. di nuovo Shakespeare, Enrico V, prologo v. 13 “this wooden O”

[5] Cfr. Callimaco, Antologia Palatina, XII, 43, 5

[6] Cfr. Shalespeare, Otello dove Emilia, la moglie di Iago, dice:

 “ ‘Tis not a year or two shows us a man

They are all but stomachs and we all but food;

They eat us hungerly, and when they are full

They belch us. Look you, Cassio and my husband” (III, 4)  

 

[7] Pascoli, Alexandros , v. 34

[8] Cfr.  Tacito, De vita Agricolae, III, quindecim annos, grande mortalis aevi spatium.

[9] Carlotta

[10] Cfr. Eschilo, Agamennone, 910: “porfurovstrwto" povro"”, via coperta di porpora.

[11]To; mevllon h{xei   Eschilo, Agamennone,  1240.

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