giovedì 8 maggio 2025

Odissea Primo canto. XIV parte. Telemaco cresce

Telemaco cresce.

 

L'argomento del canto di Femio non piace a Penelope: ella appare "di'a gunaikw'n" (Odissea, I, v. 332), splendida tra le donne, dato che "l'aretè  propria della donna è la bellezza: cosa altrettanto ovvia quanto l'apprezzamento dell'uomo a seconda dei suoi pregi spirituali e corporali. Anche il culto della bellezza femminile corrisponde al tipo aulico di cultura d'ogni epoca cavalleresca"[1]. 

Personalmente non credo che una donna bella ma stupida, incolta, insincera, incarni l’ajrethv; costei vale poco come l’uomo altrettanto sprovvisto di qualità etiche e intellettuali. Quando iniziai a insegnare utilizzavo molto Jaeger per mancanza di conoscenze che ho acquisito più avanto,

La fedelissima moglie di Ulisse scende per l'alta scala del palazzo tra due ancelle con una mimica che fa pensare a simili catabasi compiute dalle soubrette  del teatro e della televisione i cui registi forse hanno imparato da lei. La regina corteggiatissima (e non poco commediante: è la degna compagna di un uomo dai molti espedienti) si fermò accanto a un pilastro del solido tetto ponendosi splendidi veli davanti alle guance, poi, mentre scoppiava a piangere ("dakruvsasa", v. 336) si rivolse all'aedo divino il quale dopo tutto è Omero stesso.

"Cosa cantano questi cantori dell'Odissea ? Quello che canta Omero stesso, gli dei e gli eroi, la guerra di Troia, il ritorno dei vincitori greci"[2].

Tale è Femio, tale  pure Demodoco . "Così Ulisse, tornando da Troia, viene accolto come un ospite dai Feaci e si trova faccia a faccia con la sua stessa storia e ascolta l'aedo del re dei Feaci, Demodoco, che canta l'astuzia di Ulisse e la storia del cavallo da lui inventato per impadronirsi di Troia"[3].

Penelope dunque prega Femio di cambiare argomento poiché quello iniziato è luttuoso e le consuma il cuore siccome suscita il rimpianto della persona insostituibile in quanto era ricca di mente e di  gloria:"toivhn ga;r kefalh;n poqevw memnhmevnh aijei;-ajndrov", tou' klevo" eujru; kaq  j  JEllavda kai; mevson [Argo"",  (vv. 343-344), tale testa infatti rimpiango ricordandomi sempre/dell'uomo di cui è vasta la gloria per l'Ellade e in mezzo ad Argo, ossia dalla Tessaglia  al Peloponneso.

 "Nell'Iliade   JEllav" designa la città e il regno di Peleo, e corrisponde alla Tessaglia meridionale: in questa formula odissiaca, con senso più lato, indica la Grecia settentrionale in genere."[4]
 

Telemaco si emancipa dalla matriarca.

Penelope rimpiange giustamente la straordinaria forza mentale (kefalhv, la testa è l’acropoli della persona) del suo sposo, ma Telemaco, oltre essere stato rafforzato dall'intervento di Atena, forse pensa, al pari del generale dei Volsci del Coriolano  di Shakespeare, che le "lacrime di donna sono a buon mercato come le bugie"[5] e reprime la madre, ricordandole che il comando è suo nella casa e invitandola a tornare nelle sue stanze. Da questa rivendicazione di autorevolezza e dichiarazione di indipendenza nei confronti di Penelope parte la riscossa di Telemaco. Chi non compie questa ribellione che pure deve essere rispettosa, insomma chi non taglia il cordone ombelicale e non rielabora la matriarca non nasce per tutta la vita, non diventa mai una persona. Da questo distacco dipendono non solo la capacità di pensare ma anche quella di amare.

"La capacità d'amare dipende dalla propria capacità di emergere dal narcisismo e dall'attaccamento incestuoso per la propria madre e il proprio clan; dipende dalla propria capacità di crescere, di sviluppare un orientamento produttivo nei rapporti col mondo e se stessi"[6].

Sentiamo ancora Fromm: " Rimanendo legato alla natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a sentirsi a suo agio nel mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe diventare un adulto"[7].

Oggi è difficile per un giovane uscire di casa dati gli stipendi e il costo degli affitti. Al tempo della mia gioventù noi da Pesaro dopo il liceo si veniva all'Università. Quelli bravi avevano un posto in ottimi collegi situati nella zona universitaria.

 

 


Un post già pubblicato

 

L’educazione deve coniugare l’utile con il piacevole

 

La poetica del canto nuovo e il dilettevole della poesia.

Telemaco,  prima di rivendicare a sé il diritto al comando, scagiona gli aedi da ogni possibile taccia di essere cause dei fatti luttuosi che narrano e dà indicazioni sia di poetica sia sui gusti del pubblico: il cantore deve dilettare ("tevrpein", Odissea, I, v. 347), e gli uomini apprezzano maggiormente il canto che suoni più nuovo a chi ascolta (vv. 351-352).

 

Unire l’utile al piacevole: mikth; paideiva.

 

Rocordo Orazio   : “aut prodesse volunt aut delectare poetae,/aut simul et iucunda et idonea dicere vitae” (Ars poetica, 333-334), i poeti vogliono o giovare o dilettare, e dire cose insieme piacevoli e appropriate alla vita.

 Inoltre il poeta di Venosa suggerisce la brevità (esto brevis, v. 335), la verosimiglianza e, di nuovo, l’unione di utilità e piacevolezza: “omne tulit punctum qui miscuit utile dulci,/lectorem delectando pariterque monendo” (343-344), ha preso punteggio pieno chi ha mescolato l’utile al piacevole, dilettando il lettore e nello stesso tempo, ammaestrandolo.

 

Credo che pure un insegnante e un relatore in genere debba  rendere piacevole oltre che utile la propria lectio.

Lo stesso vale per chi scrive. Apuleio nel  primo capitolo del suo romanzo suggerisce: “Lector, intende, laetaberis” (Metamorfosi, I) lettore, stai attento, ti divertirai.  

Quando parliamo e scriviamo dobbiamo sempre suscitare e meritare l’attenzione di chi ci ascolta o legge. Certamente non ripetendo luoghi comuni ripetuti dalla moda del momento, bensì esaminando azioni e parole con spirito critico e conoscenza della realtà dei fatti. Spesso chi è inattuale sul momento diventa un maestro postumo nei secoli seguenti. Euripide e Leopardi per esempio.

Bologna 8 maggio 2025 ore 10, 31

giovanni ghiselli

p.s.

Terrò  la prossima conferenza il 19 maggio 2025 e la successiva il 9 giugno.

Entrambe nella biblioteca Ginzburg di Bologna dalle 17 alle 18, 30.

 

 

Aggiungo il link della prima- sull’Ulisse di Joyce

 

Questo è il link per accedere all'incontro online https://meet.google.com/sjy-euew-hxx?authuser=0&hs=122&ijlm=1744810639363

 

 

 

Il link della seconda-su l’Odissea di Omero lo avrò più avanti e ve lo comunicherò.  Se volete il percorso che sto preparando, ve lo mando. Ogni cosa è gratuita ovviamente, come la luce del sole. Potete trovare già molto nel mio blog dove il greco non è traslitterato

giovanni ghiselli

 

 

 

 

L'epos degli aedi dunque, come abbiamo già visto per la storiografia tucididèa, preferisce occuparsi di fatti recenti:" Con la loro funzione sacra, i poemi perdono anche il loro carattere lirico; diventano epici, e in questa forma sono la più antica poesia profana, sciolta dal culto, di cui si abbia notizia in Europa. In origine dovettero essere qualcosa come resoconti di guerra, cronache di eventi bellici; e forse da principio si limitavano alle "ultime notizie" sulle fortunate imprese militari e sulle spedizioni piratesche sulla stirpe. "Al canto più nuovo, la lode più alta", dice Omero (Od. I, 351-352), e Demodoco e Femio cantano dei fatti più recenti"[8].  

 

“Ciò che è importante per l’aedo è stare al passo con i tempi, il che equivale a conoscere il canto più recente”[9].

 

La poetica del canto nuovo sarà ripresa da Pindaro che vuole togliere ai canti tradizionali il biasimo verso gli dèi:" ejpei; to; ge loidorh'sai qeouv"-ejcqra; sofiva"[10], poiché diffamare gli dèi è sapienza che odia, e dunque:"ai[nei de; palaio;n me;n oi'jnon, a[nqea d& uJvmnwn-newtevrwn"[11], loda il vino vecchio, ma fiori di canti nuovi.

 

  Del resto il canto epico, al pari della storiografia erodotea deve dilettare chi ascolta. Secondo F. Dupont il piacere del canto integra quello del mangiare e del bere:"Che ci sia carne, pane, vino e canti e i re saranno contenti. A Omeria gli uomini cercano nel banchetto un piacere particolare, caldo, dolce e confortevole. Per definire quel tipo di piacere i greci utilizzano il verbo térpein (tevrpein), di cui nella nostra lingua manca un equivalente. Térpein  esprime il senso di rilassatezza dopo lo sforzo, il ventre pieno, la leggera ebbrezza che danno la carne buona e il calore del fuoco. Bere vino, mangiare carne e pane ed ascoltare i canti dell'aedo, condividendoli con gli amici, ecco il senso di térpein...Perché il canto dell'aedo è prima di tutto questo: un piacere supplementare offerto ai convitati sazi, un piacere che non si distingue granché dai cibi che l'hanno prodotto"[12].


La stupefazione platonica, quella l' aristotelica madre della filosofia, e quella da cui nasce la poesia. Il sapere non è sapienza

 

Penelope, stupita (qambhvsasa, Odissea, I,  v. 360) della risolutezza del figlio, tornò al piano di sopra a piangere Odisseo.

 C'è da notare che lo stupore, e ancor più la meraviglia (molto nota è quella di Ulisse e i compagni quando vedono e girano l'isola del Ciclope, IX, 153- nh`son qaumavzonte~- ) è un'espressione di intelligenza e un'apertura dell'anima alla poesia.

E riesce simpatica. Tant'è vero che spesso, ai giorni nostri, viene simulata in modo plateale dagli imbonitori televisivi.

Secondo Platone (Teeteto 155 d) meravigliarsi era il punto di partenza della filosofia. Segue la testimonianza di Aristotele il quale afferma che gli uomini hanno cominciato a fare filosofia, ora e in origine, a causa della meraviglia ("dia; ga;r to; qaumavzein oiJ a[nqrwpoi kai; nu'n kai; to; prw'ton h[rxanto filosofei'n",Metafisica , 982b) .

“Meravigliarsi dell’esistenza è il filovsofon pavqo~. Il grado rivela le doti di ognuno. Ma anche nelle scienze storiche sono le teste eminenti a sollevare le questioni grandi e di vasta portata. Solo per tali teste le cose più conosciute e quotidiane sono motivo di stupore. ”[13].

Anche la poesia nasce dalla meraviglia: nel primo Stasimo del Filottete il Coro di marinai dice di essere preso da stupore (qau'ma m j e[cei, v. 687) davanti all'uomo abbandonato nell'isola deserta: come sostenne una vita piena di lacrime udendo in solitudine l'assalto dei flutti da tutte le parti?

Ricordo la poetica di Pascoli il quale teorizza la sussistenza del fanciullino-poeta, capace di meravigliarsi, nell'adulto arrugginito:"Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello…Il poeta, e e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio familiare e umano" (Il fanciullino, 1897; 1902).-

 

 

 Concludo con   una pagina di H. Hesse:"Per stupirci siamo qui!" dice un verso di Goethe. Tutto inizia con questa stupefazione e con essa termina, tuttavia non è un cammino vano. Sia che io ammiri un musco, un cristallo, un fiore, un maggiolino d'oro, sia che guardi un cielo solcato dalle nuvole, un mare con il pacato gigantesco respiro della sua risacca, l'ala di una farfalla con la trama ordinata delle sue costole vitree, con i profili e le incastonature colorate dei suoi bordi, con la variegata scrittura e decorazione dei suoi disegni e con le gradazioni e sfumature infinite, tenere e magicamente lievi, dei suoi colori-ogni volta che osservo un pezzetto di natura con l'occhio e con un altro senso, ogni volta che ne sono attratto e estasiato e per un istante prendo nota della sua esistenza e rivelazione, in quello stesso istante io ho abbandonato e dimentico il mondo avido e cieco dell'umana necessità e, anziché pensare a comandare, acquistare, sfruttare, combattere o organizzare, non faccio altro, per quell'istante, che provare la "stupefazione" goethiana e, contemporaneamente, non divengo solo fratello di Goethe e di tutti i poeti e saggi, ma sono anche fratello del cosmo vivente che contemplo e sperimento: della farfalla, del coleottero, della nuvola, del fiume e del monte. Percorrendo la via dello stupore, sono infatti sfuggito per un attimo al mondo delle differenziazioni e sono entrato in quello dell'unità, dove ogni cosa o creatura dice all'altro: Tat twam asi ("Sei Tu")...Non vogliamo lamentarci che nelle nostre università non si insegni a percorrere le strade più semplici per conseguire la saggezza e che, al posto dello stupore, si insegni l'esatto contrario: a contare e a misurare invece che perdersi nell'estasi, l'oggettività invece della malia, il rigido attenersi alle differenziazioni anziché subire l'attrazione del Tutto e Uno. Le università non sono scuole di saggezza, sono scuole di sapere, ma tacitamente postulano come conosciuto ciò che esse non possono insegnare: la capacità di osservare, la stupefazione goethiana, e i loro spiriti migliori non conoscono altra finalità più nobile che costituire un altro gradino perché Goethe e altri nuovi saggi si manifestino di nuovo"[14].

Voglio ricordare ancora una volta "to; sofo;n d j ouj sofiva", il sapere non è sapienza delle Baccanti (v. 396) di Euripide.

Nietzsche trova la sapienza nella cultura dell’età tragica:" la sua principale caratteristica consiste nell'elevare a meta suprema, in luogo della scienza, la sapienza" (La nascita della tragedia , capitolo 18).

Nello stesso modo Leopardi smonta la filosofia, anche se la chiama “sapienza”: “Che cosa dunque abbiamo imparato con tanti studi, tante fatiche, esperienza, sudori, dolori? E la filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che da fanciulli ci era connaturale, e che poi avevamo dimenticato e perduto a forza di sapienza; quello che i nostri incolti e selvaggi bisavoli, sapevano ed eseguivano senza sognarsi d’esser filosofi…E perciò solo è utile la sommità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla filosofia”[15].

 

La stupefazione dunque fa capire a Penelope che Telemaco è cambiato, ma i proci, tesi al piacere e al potere invece che all'apprendimento, rumoreggiarono nella sala ombrosa: tutti bramarono giacere nel letto accanto a lei (Odissea, I, vv. 365-366).

Quindi Telemaco parlò a quei parassiti provocando, questa volta, stupore anche in loro con la sua determinazione. Infatti li invitò a non schiamazzare ma ad ascoltare l'aedo, simile agli dèi nella voce (v. 371). Qui Omero fa propaganda, per non dire pubblicità, alla sua categoria e a se stesso, dato che i suoi uditori non potevano non identificarlo con il personaggio omologo. Dobbiano notare però una differenza tra gli aedi dell'Odissea , Femio e Demodoco, e Omero "che si tiene rigorosamente nei limiti di un passato concluso e remoto.... Esiodo, che pure è un poeta della vita contemporanea, dice che l'aedo "celebra le gesta gloriose degli uomini antichi e gli dèi beati che abitano l'Olimpo" (Teogonia 99-100)"[16].

 

 Poi Telemaco indice l'assemblea per la mattina seguente e dà un avvertimento ai pretendenti della madre: se non se ne andranno, invocherà i numi eterni (v. 378) contro l'ingiustizia che subisce da loro, ed essi la sconteranno. E' questa la linea etica che prosegue in Esiodo secondo il quale chi apparecchia i mali per un altro li prepara per se stesso (Opere , v. 265). Così i proci sono avvisati.

 Antinoo, il pretendente che cadrà per primo sotto i colpi di Ulisse, risponde in maniera che suona ironica alle orecchie dell'ascoltatore, ma si tratta di un’affermazione vera, della cui verità chi parla non è consapevole, come quella dei personaggi di Sofocle: infatti il caporione rinfaccia al ragazzo la verità a lui sconosciuta: che gli dèi gli hanno insegnato a parlare (vv. 384-385).

Poi aggiunge un'imprecazione: che il Cronide non lo faccia re ("basilh'a", v. 386) di Itaca come è suo diritto d'erede per nascita ("geneh'/ patrwvïovn ejstin", v. 387).

 

Bologna 8 maggio 2025 ore 11, 22 giovanni ghiselli

p. s.

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[1]Jaeger, op. cit., p. 62.

[2]F. Dupont, Omero e Dallas , p. 11.

[3] Dupont, op. e p. citate.

[4]S. West, Omero Odissea  ,  Volume I a cura di A. Heubeck e S. West, p. 240.

[5]Shakespeare, Coriolano , V, 6.

[6]E. Fromm, L'arte d'amare , p. 153.

[7]E. Fromm, La rivoluzione della speranza , p. 80.

[8]A. Hauser, Storia sociale dell'arte , vol. I, p. 84.

[9] Powell, Omero, p. 58.

[10]Olimpica  IX, 37-38

[11]Olimpica  IX, 48-49.

[12]Omero e Dallas , p. 13.

[13] F: Nietzsche, Appunti filosofici 1867-1869, p. 113.

[14]H. Hesse,  La bellezza della farfalla , in Hesse L'arte dell'ozio , pp. 401-402.

[15] Zibaldone, 305.

[16]F. Codino, op. cit., p. 69.

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