Entrato nel paese dove abitavo bambino e fanciullo nei mesi di agosto degli anni Cinquanta, attraversai il primo ponte sull’Avisio e andai a occupare la camera prenotata nell’Hotel La Campagnola dove avrei dormito, studiato i libri portati con me, e cenato la sera. Di giorno preferivo mangiare un panino in uno dei rifugi del Lusia dove andavo ad abbronzarmi e sciare.
Dopo avere sistemato la roba nell’albergo situato sulla terza rampa della strada in salita che arriva al passo San Pellegrino, mi mossi per tornare al centro di Moena: volevo rivedere con calma il paese e riconoscere i luoghi frequentati in passato, magari anche qualche ragazzo di allora non tanto invecchiato da essere irriconoscibile o addirittura inguardabile: temevo di ravvisare la mia decadenza nella senilità precoce e vituperosa di qualche giovane vissuto male.
Aveva cessato di piovere e tra le nuvole già un po’ diradate stava trovando qualche breve pertugio la luce del sole ormai vicino del resto al dorso villoso del Sass da Ciamp: un monte alto meno di 2000 metri e perciò tutto boscoso tranne nella piccola estremità rocciosa rivolta verso Nord. Quando ero bambino e vedevo tante più cose con l’immaginazione che con gli occhi già miopi, se fissavo quel monte dal sottostante prato di Sorte, nella sua sagoma vedevo un cane tutto peloso tranne che nel naso teso a fiutare il vento settentrionale; anzi, quando ebbi preso un poco di confidenza con i monti di Moena, al Sass da Ciamp che verso le cinque di pomeriggio in agosto mi nascondeva precocemente la santa faccia di luce che ho sempre adorato, chiedevo di accucciarsi per lasciarmi ancora vedere il volto radioso della mia guida, la Mente dell’universo. Ma quel monte dall’aspetto canino non mi dava retta, e allora, per rivedere il sole dovevo correre verso le pendici occidentali della valle, attraversare il secondo ponte sull’Avisio, quindi salire, sempre di corsa, su per la strada di Someda da dove potevo assistere a un secondo tramonto pieno di benedizioni lanciate dagli ultimi sprazzi di luce.
Sulle cime più alte quel bagliore residuo indugiava fino alle sette prendendo toni diversi. Quando le guglie più alte iniziavano a rosseggiare immaginavo che l’amico divino, per il dispetto di andare a dormire troppo presto, scagliasse i lamponi dei boschi a spiaccicarsi contro le rocce del Catinaccio tingendole di sugo purpureo, simile al sangue.
Il pomeriggio del 13 aprile 1979 dunque, arrivato a 34 anni e cinque mesi, camminavo per Moena ricordando il passato per capire il presente.
Sul ponte che collega le due piazze centrali divise dall’Avisio transitavano ragazzi italiani e stranieri. Ricordai che Ifigenia, volendo significarmi di essere una donna evoluta e libera, mi aveva detto che l’estate precedente aveva amoreggiato a Riccione con un paio di stranieri appunto, quando il marito non c’era. Pensai che l’estate seguente avrebbe ripetuto, rinnovato e rinverdito quel baccanale corrotto[1].
Questa volta l’eterno marito di tipo dostoevskiano sarei stato io pensai. Sulla fronte mi sarebbe spuntato “il bel noto ornamento”[2] che avrebbe spinto la mia testa a una sorta di beccheggio: su e giù per scacciare i brutti pensieri.
Poi però mi correggevo: “ma quale marito? Chi la sposa quella? Nemmeno se mi puntano una pistola alla tempia. Se non vuole più stare con me, vada pure con chi ne ha voglia. Anche con un battaglione di negri, come diceva comicamente Fulvio, maestro e amico. Pronunciava nègri come fanno a Parma, città civilissima, dalla parlata però piuttosto barbarica. Nègri, sétte, vètro dicono loro.
“Condividere un’amante con un altro uomo può essere una fortuna, come afferma lo Zeno di Svevo: la responsabilità è minore, la noia pure”, mi consolavo avvalendomi del mio solito abito letterario.
Mi venne in mente un film dove un uomo brutto entrava in un bar con un donnone.
Questa dopo un po’ si metteva a parlare con un orientale. Il deforme che l’aveva accompagnata disse a un altro: “speriamo che si innamori del giapponese!”
“Perché speri questo?” fece l’altro con aria stupita.
“Così finalmente si toglie dai piedi” rispose l’uomo invenusto, perfino losco.
“In effetti se una se ne va con un altro - pensavo - vuol dire che non sta volentieri con te e se rimanesse ti darebbe soltanto noia. Allora ponti d’oro
E dopo tutto non è male baciare chi se ne va. E’ il bacio più gustoso”.
Con tali pensieri mi davo delle ragioni e mi astenevo dall’odiare, cioè dal soffrire inutilmente. Temevo nuove umiliazioni dopo le tante ricevute fin da bambino ma cominciavo a capire che viene umiliato solo chi dà spazio e credito ai mascalzoni. A me non doveva accadere mai più.
Osservavo di nuovo i monti dalle sembianze umane espressive, piene di significato. E pensavo: “ Come a Pesaro ho sempre tratto conforto dagli innumerevoli sorrisi della distesa marina soleggiata; a Bologna dalle colline mentre le percorro in bicicletta all’insù e all’ingiù con pedalate eroiche e pure amorose siccome nella natura madre cerco sempre forme femminili; a Debrecen dalle querce profetiche della grande foresta che mi promettevano, senza mentire mai, i grandi amori assegnati a me dal destino, così a Moena mi sollevo parlando a montagne antropomorfe o meglio ginecomorfe, ed esse per loro umanità mi rispondono, mi fanno coraggio. Mi aiutano a superare ogni volta le difficoltà della vita, a diventare sempre meno insicuro e infelice”.
Mi diedi a osservare il Piz Meda.
Questo monte, situato a sinistra delle prime rampe che menano al passo san Pellegrino, non è molto alto, arriva appena ai 2000 metri e consta di un grande bosco sopra il quale spicca una parete rocciosa simile a un volto umano sereno e dignitoso.
Tra il bosco e la rupe liscia, dove ho sempre ravvisato una faccia di donna buona, si stende una conca invisibile a chi guarda dal fondo valle dove scorre l’Avisio; per vederla bisogna salire sul Pizzo stesso o su un monte vicino. Quando ero bambino avrei tanto voluto osservare quella misteriosa incavatura come se ci avessi potuto trovare l’anima, o il cuore, o la vagina della montagna. La parte posteriore visibile scendendo dalle piste del Lusia era amena, oso dire callipigia non senza autoironia.
Una volta, ricordo, dissi alla zia, nutrice e madre vicaria in quel di Moena: “Giulia, il Piz Meda ha una faccia simpatica. Mi piacerebbe vedere la conca che le sta sotto: forse lì c’è un piccolo lago che raccoglie le lacrime o riflette i sorrisi di quel viso”.
Ma la zia , che era stata maestra fascista in diversi paesi europei con soddisfazione, trovò inopportuna, impertinente e inquietante la mia osservazione. Anche a Budapest era stata inviata a insegnare.
“Bambino - disse - non hai più l’età per fare discorsi tanto sciocchi. Vai a ripassare la tavola pitagorica piuttosto, che ti farà tanto bene”.
“Perché sciocchi?” provai a ribattere.
“Sciocchi sì: non sono punto intelligenti né spiritosi bensì sciapi e privi di logica”.
Andai in camera mia dispiaciuto pensando che avrei fatto vedere alla zia che valevo qualcosa smentendola e dandole del resto grandi soddisfazioni perché lei, donna sposata ma senza figli, puntava molto su di me, sul mio essere bravo a scuola. Lei stessa è stata una brava maestra dai 17 ai 65 anni. Ho preso molto da lei, perfino i capelli rimasti neri fino ai Settanta anni e oltre. Neri come corvi eravamo anche da vecchi. Abbiamo derivato tale anomalia dal ghenos etrusco dei Martelli di Borgo Sansepolcro.
Nelle elementari Carducci di Pesaro ero già molto bravo in italiano. La zia Giulia insegnava a Roma nel quartiere Monte Sacro ma si teneva informata sulla mia “carriera scolastica” già allora, e dopo tutto mi ammirava. Temeva però che potessi traviarmi seguendo il volo delle mie chimere irregolari e illogiche. Le mie fantasie non sapevano niente di sillogismi in effetti. Nemmeno la vita ne sa.
Fu contenta quando nel 1987 andai a fare il commissario di greco e latino all’esame di maturità nel liceo classico Orazio di Monte Sacro.
Date le sue attese sul mio conto, trovava che le mie fantasie puerili non si confacessero a quanto lei si aspettava. Per fortuna in terza elementare avevo un maestro, Gasperi, che invece le apprezzava e faceva girare i miei temi in tutte le classi del Carducci do Pesaro.
La professoressa di Lettere delle medie Lucio Accio, Giulia Gattoni, ha continuato a dire per anni che non aveva mai trovato un bambino sensibile e intelligente come me tra i suoi allievi.
Sicché davo retta a questi educatori che mi incoraggiavano a essere me stesso.
Alla zia volevo bene ma non dovevo farmi fuorviare da lei che del resto mi avrebbe aiutato a vivere dignitosamente quando iniziai a lavorare lontano da Pesaro con uno stipendio che non bastava per una vita civile. Negli ultimi anni anche la zia Giulia diceva che ero la persona più intelligente che avesse mai conosciuto.
La casa di Moena però non volle assegnarmela: disse che ci avrei portato chissà quante donne e il prete sarebbe venuto a bussare alla porta. Risposi che l’avrei buttato giù dalle scale. Da giannetto sciocchino ero diventato birbante come don Giovanni. Nemmeno la casa di Roma mi ha lasciato. Mi domandò se mi dispiacesse se la segnava a mia sorella. Che cosa potevo rispondere se non: “fai come ritieni giusto, a me hai segnato l’oliveto di Montegridolfo”. Le sono grato di tutto comunque. Ho seguitato a vivere da semipovero ma non ho venduto niente di quanto ho ricevuto. Credo che ne siano contente le mie benefattrici: nonna, mamma e zie.
Quel 13 aprile dunque le cose mi andavano già meglio di quando ero considerato uno sciocchino: diverse donne mi avevano amato riamate, però il problema di fondo: quello di amarne una senza paura, senza sospetto, non l’avevo risolto. Non l’ho mai risolto. A parte il mese con Helena Augusta, l’unica bella e buona della pentecontaetia amorosa iniziata solo nel 1968.
Avrei potuto amare una figlia mia, lei sì, come ho amato tutte le mie consanguinee, ma non ho avuto il coraggio di metterla al mondo e le amanti giovani quasi adottate come figlie, dopo avermi accolto con il cuore proteso, presto o tardi si sono dileguate. Una alla volta via via.
Giustamente per sé e ancora più giustamente per me.
“ degnamente Febo di fatto, e degnamente tu” dico ancora a me stesso ripetendo un verso dell’Edipo re di Sofocle: “ ejpaxivw~ ga;r Foi`bo~, ajxivw~ de; suv” (133). Che cosa c’entra? Domanderai tu lettore. Posso dirti che mi piace e che vivendo ho imparato a fare, dire e scrivere quanto mi garba soprattutto se non danneggio nessuno.
Chi è strettamente logico sostiene che con tali esplosioni di irrazionalità e originalità ostacolo me stesso. Rispondo che l’irrazionale, il personale non è eliminabile, e chi cerca di reprimerlo fa danni grandi e brutti assai. Come Penteo nelle Baccanti per esempio.
Avvertenza: il blog contiene 1 nota e il greco non traslitterato.
Bologna 6 maggio 2025 ore 17, 06
giovanni ghiselli
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