venerdì 15 novembre 2019

Il sapere non è sapienza. Da Euripide al Novecento


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Due versi chiave delle Baccanti di Euripide (395 - 396)
Il sapere non è sapienza to; sofo;n d j ouj sofiva
e avere la pretesa di comprendere fatti non mortali
- to; te mh; qnhta; fronei`n.

 La sofiva è lo scopo di quella cultura che Nietzsche chiama tragica: "la sua principale caratteristica consiste nell'elevare a meta suprema, in luogo della scienza, la sapienza".
La sapienza si tuffa nel fiume della vita. La scienza al contrario è il fine dell'uomo teoretico il quale "non osa più affidarsi al terribile fiume dell'esistenza: angosciosamente egli corre su e giù lungo la riva".
“La scienza lavora incessantemente a quel grande colombario dei concetti - cimitero delle intuizioni”.
“All’idea di classicità, Nietzsche sostituisce in definitiva quella di tragicità: la civiltà greca non è una civiltà classica ma piuttosto una civiltà tragica”.

Vale la pena di riferirne anche il commento di T. Mann:"A questa tragica saggezza, che benedice la vita in tutta la sua falsità, durezza e crudeltà, Nietzsche ha dato il nome di Dioniso".

Su questa opposizione sapere/sapienza riferisco Morin che ricorda Eliot: Eliot affermava: "Qual è la conoscenza che noi perdiamo nell'informazione e qualè la sapienza (wisdom) che perdiamo nella conoscenza?".
Ma leggiamo direttamente i versi di T. S. Eliot:
 “Knowledge of speech, but not of silence
Knowledge of words, and ignorance of the Word
All our knowledge brings us nearer to our ignorance,
All our ignorance brings us nearer to death,
But nearer to death no nearer to GOD.
Where is the Life we have lost in living?
Where is the wisdom we have lost in knowledge?
Where is the knowledge we have lost in information?”, (Choruses from “The Rock
”, I, 9, 16.

Conoscenza del linguaggio ma non del silenzio, conoscenza delle parole e ignoranza del Verbo. Tutta la nostra conoscenza ci porta più vicini alla nostra ignoranza, tutta la nostra ignoranza ci porta più vicini alla morte. Ma più vicini alla morte, non più vicini a Dio. Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?
Tutto è problematico: i testi degli ottimi autori greci e latini abituano a pensare e non possono essere ridotti a raccolte di formule o di ricette: “‘Qua leggiamo Omero’ riprese, in tono beffardo, ‘come se l’Odissea fosse un libro di cucina. Due versi all’ora, che vengono sminuzzati e rimasticati parola per parola, fino alla nausea. Ma alla fine di ogni lezione ci dicono: vedete come il poeta ha saputo esprimere questo? Avete potuto intuire il mistero della creazione poetica! Così ci inzuccherano prefissi e aoristi, tanto per farceli ingoiare senza restare strozzati. In questo modo mi rubano tutto Omero’”

 Interessante è a questo proposito anche un elogio dello stupore di H. Hesse: "Per stupirci siamo qui!" dice un verso di Goethe. Tutto inizia con questa stupefazione e con essa termina, tuttavia non è un cammino vano. Sia che io ammiri un musco, un cristallo, un fiore, un maggiolino d'oro, sia che guardi un cielo solcato dalle nuvole, un mare con il pacato gigantesco respiro della sua risacca, l'ala di una farfalla con la trama ordinata delle sue costole vitree…in quello stesso istante io ho abbandonato e dimentico il mondo avido e cieco dell'umana necessità e, anziché pensare a comandare, acquistare, sfruttare, combattere o organizzare, non faccio altro, per quell'istante, che provare la "stupefazione" goethiana e, contemporaneamente, non divengo solo fratello di Goethe e di tutti i poeti e saggi, ma sono anche fratello del cosmo vivente che contemplo e sperimento: della farfalla, del coleottero, della nuvola, del fiume e del monte. Percorrendo la via dello stupore, sono infatti sfuggito per un attimo al mondo delle differenziazioni e sono entrato in quello dell'unità, dove ogni cosa o creatura dice all'altro: Tat twam asi ("Sei Tu")...non vogliamo lamentarci che nelle nostre università non si insegni a percorrere le strade più semplici per conseguire la saggezza e che, al posto dello stupore, si insegni l'esatto contrario: a contare e a misurare invece che perdersi nell'estasi, l'oggettività invece della malia, il rigido attenersi alle differenziazioni anziché subire l'attrazione del Tutto e Uno. Le università non sono scuole di saggezza, sono scuole di sapere, ma tacitamente postulano come conosciuto ciò che esse non possono insegnare: la capacità di osservare, la stupefazione goethiana, e i loro spiriti migliori non conoscono altra finalità più nobile che costituire un altro gradino perché Goethe e altri nuovi saggi si manifestino di nuovo".

Seneca sostiene che la sapienza è l’unica libertà: “Sapientia quae sola libertas est”.

il sapere non vale nulla, non è sapienza quando non riconosce sopra di sé il sacro e il divino che inspiegabilmente lega "con amore in un volume ciò che per l'universo si squaderna". Agostino afferma: “Ecce pietas est sapientia”.

E' il caso di Edipo che crede di azzeccarci con l'intelligenza senza avere imparato nulla dagli uccelli ("gnwvmh/ kurhvsa" oujd j ajp& oijwnw'n maqwvn", Edipo re v. 398) e fallisce.
Integro con Ammiano Marcellino: Gli auspici si traggono dagli uccelli non perché loro conoscano il futuro sed volatus avium dirĭgit deus (21, 1, 9). Anche il rostrum sonans dà segni.

"Coloro che hanno interpretato l'Edipo re secondo il modulo della "tragedia di conoscenza" hanno postulato che Sofocle abbia voluto rappresentare due tipi di conoscenza differenti per mezzi e possibilità, dal cui incotro - scontro risulterebbe il senso stesso del dramma. Si è parlato di un "sapere umano" e un "sapere divino", di una conoscenza umana sensitiva e fondata sull'apparenza ed una conoscenza divina vera, cioè dovxa e ajlhvqeia, illusione e saggezza. Edipo sulla scena sofoclea rappresenterebbe l'uomo raziocinante che si basa sulla conoscenza dei sensi e del proprio intelletto e che agisce di conseguenza, ma le coincidenze degli eventi fanno sì che alla fine tutte le sue costruzioni intellettuali si rivelano fallaci, mentre il sapere degli dei, incontrollabile e spesso incomprensibile per gli uomini, risulta essere l'unico sapere veritiero (...) In realtà, quello di Edipo non è un generico "sapere umano", ma rappresenta allusivamente il sapere di alcune correnti di sapere razionalistiche dell'epoca, e analogamente non si deve parlare tanto di generico "sapere divino", quanto piuttosto di sapere oracolare delfico, con le sue peculiari modalità espressive e celebrante un dato sistema di valori etici". 
E' il profeta a nutrire la forza della verità (Edipo re, v.356) che non è potenza economica né militare, ma nemmeno cerebrale, anzi è consapevolezza dei limiti angusti che racchiudono le nostre facoltà intellettive.

Insomma la gnwvmh è fallace e gli uomini non possono comprendere tutto. Non solo le vie della divinità sono imperscrutabili ma anche quelle dell'incoscio.

Il motivo anti-intellettualistico, ricorrente nell'Edipo, avrà un'infinità di riprese: da Euripide, quando giunge alla stanchezza postfilosofica delle Baccanti, al movimento dello Sturm und Drang ("il mio cuore - annota Werther il 9 maggio 1772 - è l'unica cosa della quale sono superbo... Quello che io so, lo può sapere chiunque, ma il mio cuore lo possiedo io solo"), fino a Elias Canetti il quale in La provincia dell'uomo afferma che "L'ignoranza non deve impoverirsi con il sapere... Per ogni risposta deve saltare fuori una domanda che prima dormiva appiattata... Le sole risposte inaridiscono il corpo e il respiro"(pp. 1600 - 1601).

Nell'episodio di Aconzio e Cidippe , una famosissima storia d'amore compresa nel terzo libro degli Aitia di Callimaco il poeta di Cirene afferma che il sapere tante cose è un bene soltanto se conferisce a chi lo possiede e lo usa la capacità di padroneggiare la lingua:
" - poluidreivh calepo;n kakovn, o[sti" ajkartei' - glwvssh" - , molto sapere è un grave male per chiunque non è padrone della lingua: è proprio come per un bambino avere un coltello"(fr.75 Pf, vv. 8 - 9).

Ora sentiamo T. Mann: “e se si usa dire per esempio che in casa d’altri non bisogna mettere gli occhi addosso alle donne, perché tale comportamento è pericoloso, si è soliti tuttavia farlo, perché altro è il sapere e altro è la vita”.

Il sapere può essere usato come un’arma contro l’uomo comune.
Viceversa la sapienza di tipo dionisiaco può essere uno strumento di offesa e difesa dell’uomo comune dagli intellettuali.

Lo dice Adilph Cusins, il professore di greco del Maggiore Barbara di B. Shaw: “As a teacher of Greek I gave the intellectual man weapons against the common man. I now want to give the common man weapons against the intellectual man”, come professore di greco, io ho dato agli intellettuali le armi contro l’uomo comune. Io ora voglio dare all’uomo comune le armi contro l’intellettuale. 
Questo grecista anomalo fidanzato di Barbara, maggiore dell’esercito della salvezza, dice al futuro suocero, ricchissimo fabbricante di armi: “You do not understand the Salvation Army. It is te army of joy, of love, of courage (…) It takes the poor professor of Greek, the most artificial and self - suppressed of human creatures, from his meal of roots, and lets loose the rhapsodist in him; reveals the true worship of Dionysos to him; sends him down the public street drumming dithyrambs”, Tu non capisci l’Esercito della Salvezza. E’ l’esercito della gioia, dell’amore, del coraggio (…) Porta via il povero professore di Greco, la più artificiale e autorepressa delle creature dal suo pasto di radici, e libera il rapsodo che è in lui; rivela in lui il vero cultore di Dioniso; lo manda nella pubblica strada a tambureggiare ditirambi.

E. Dodds indica un nesso tra questa sentenza del primo stasimo delle Baccanti e la transvalutazione denunciata da Tucidide nel III libro: “cleverness is not wisdom’, ‘the world’s Wise are not wise’ (Murray). Here again the Chorus take up a thought expressed in the preceding scene: to; sofovn has the same implication as in 203; it is the false wisdom of men like Pentheus, who fronw'n oujde;n fronei' (332, cf. 266 ff., 311 ff.), in contrast with the true wisdom of devout acceptance (179, 186)…  for the paradoxical form cf. I A. 1139 oJ nou'~ o{d j aujto;~ nou'n e[cwn ouj tugcavnei, Or. 819 to; kalo;n ouj kalovn. Such paradoxes are the characteristic product of an age when traditional valuations are rapidly shifting in the way described in the famous passage of Thucydides on the transvaluatation of values, 3, 82”, ‘l’ingegnosità non è sapienza’, ‘la Maniera del mondo, non è saggia’ (Murray). Qui di nuovo il Coro assume un pensiero espresso nella scena precedente: il sapere ha la stessa implicazione che al v. 203; è la falsa sapienza di uomini come Penteo, il quale pur avendo la mente non ha la sapienza (332, cfr. 266 ss. 311 ss.), in contrasto con la vera saggezza della della pia accettazione (179, 186)… per il modulo paradossale cfr. Ifigenia in Aulide 1139 , Oreste 819. Tali paradossi sono il prodotto caratteristico di un’età in cui le valutazioni tradizionali stanno rapidamente cambiando nel modo descritto nel famoso passo di Tucidide sulla transvalutazione dei valori, 3, 82.

“L’attacco antisofistico si basa sulla contrapposizione tra sofiva e sofovn, con la conseguenza che la sofiva si viene a caratterizzare in modo non intellettualistico e si collega a una visione delle cose recepita dalla tradizione. Ciò significa escludere un approccio di tipo protagoreo”.

“L’uomo rinunci dunque alla sua saggezza. Perché, dice un verso singolare, la saggezza non è saggezza: “To; sofo;n d’ouj sofiva”. E non è inutile notare che la pretesa saggezza dell’uomo è designata con una parola neutra, molto intellettuale, una parola che le dà un carattere di artificiosità; mentre la parola sofiva - che indica la saggezza ritrovata dall’uomo quando riesce a rinunciare al suo spirito critico - è una buona vecchia parola della lingua corrente ed è di genere femminile, il che vale a sottolineare il suo carattere vitale e fecondo”.

 - to; te mh; qnhta; fronei`n ( Baccanti, v. 396): Sull'incomprensibilità da parte della mente umana dei misteri della divinità si esprime anche Dante:"Matto è chi spera che nostra ragione/possa trascorrer la infinita via/che tiene una sustanza in tre persone./State contenti, umana gente, al quia ; ché, se potuto aveste veder tutto,/mestier non era parturir Maria". 
E pure il suo Ulisse pecca, come Edipo, per la presunzione e l'uso eccessivo dell'intelligenza, tant'è vero che l'autore, all'inizio del canto dei consiglieri fraudolenti, afferma:"Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio/quando drizzo la mente a ciò ch'i' vidi,/e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,/perché non corra che virtù nol guidi;/sì che, se stella bona o miglior cosa/m'ha dato 'l ben, ch'io stesso nol m'invidi".

Ricordiamo quanto afferma il personaggio Socrate nell’Alcibiade II di Platone.
“Vedi dunque quando dicevo che il possesso delle altre scienze se uno non possiede la scienza di quanto è ottimo (l'idea del Bene), di rado giova, mentre per lo più danneggia chi ce l'ha, non ti sembra che io parlavo dicendo quanto è sostanzialmente corretto?” 
Alcibiade dà ragione a Socrate il quale aggiunge
“E chi possiede la cosiddetta conoscenza enciclopedica e politecnica, ma sia privo di questa scienza (del Bene), e venga spinto da ciascuna delle altre, non farà uso sostanzialmente di una grande tempesta senza un nocchiero, continuando a correre sul mare, non a lungo del resto? Sicché mi sembra che anche qui capiti a proposito quello che dice il poeta criticando uno che effettivamente sapeva molte cose ma le sapeva tutte male (Alcibiade II 147b)”

Infine Re Lear: “Per apprendere come veramente stiano le cose, Lear è costretto a perdere del tutto la ragione, seguendo così il modello disegnato da Paolo: “Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per divenire sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: Egli prende i sapienti per mezzo della loro astuzia”. La citazione paolina, non a caso, proviene proprio dal Libro di Giobbe”.

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