giovedì 7 novembre 2019

Debrecen. Capitolo 14. L’angoscia. Pane e peperone. La corsa notturna. La vita con lieto volto ci allieta

L’angoscia. Pane e peperone. La corsa notturna. La vita con lieto volto ci allieta


Osservavo le ragazze italiane che cantavano le canzoni del nostro folklore. Ma continuavo a pensare a quella che non mi scriveva. Mi faceva aspettare: è la tattica di chi non ama per farsi desiderare di più da chi ama. Speravo di trovare l’espresso promesso una volta arrivato in collegio. Uscito dalla corriera guardai il cielo pregando le stelle di farmi trovare la lettera. Ma queste erano tanto lontane quanto Ifigenia. Salendo le scale oppresso e desolato, pensavo: “Più di tanto dolore non devo sopportarlo perché oramai mi infligge una sofferenza che non porta con sé conoscenza alcuna. Quella donna non è adatta a te: ti fa male; se corrispondesse a te, ti infonderebbe gioia. La tua sensibilità è delicata molto, ma non malata. Se soffri per una persona, se questa ti fa soffrire, vuol dire che in lei c’è qualche cosa di cattivo. Dunque devi liberartene, anche se l’hai resa parte del tuo modo di vivere, di te stesso. Hai sbagliato: hai inserito una malattia nella tua anima. Liberatene: sarà una resecazione dolorosa, quasi una mutilazione, ma non ne morirai, anzi: la tua salute rifiorirà”, conclusi canticchiando note e parole della Traviata per trarre qualche strana consolazione.
In camera dove si aggirava inquieto il vecchio cecoslovacco demente non potevo fermarmi: ero troppo addolorato sia per leggere sia per dormire, sicché discesi le scale e tornai nell’atrio. Pensavo, per confortarmi, che la vita nei collegi mi era congeniale: da quelli di Bologna per quattro anni a questo di Debrecen da una decina di estati. Vita in comune, comunista, non egoista.
Un’inserviente distribuiva dei sacchetti di carta con la cena fredda siccome la mensa era chiusa. C’era del pane, un grosso peperone verde e una scatoletta con fegato d’oca. Sedetti su una poltrona e cominciai da solo. I ventenni intanto si stavano radunando per andare a mangiare e cantare sul prato antistante, mentre i miei coetanei si stavano dirigendo all’Aranybika con delle colleghe per indurle a fare baldoria o chissà, magari pure una qualche penitenza con loro. Ero stato via via come gli uni e gli altri, ma quell’acqua era già passata sotto tanti ponti diversi. Dovevo capire. Intanto mangiavo il pane e il peperone soltanto, perché non sapevo come aprire la scatoletta. Pensai al poverello di Assisi, al suo giaciglio sul crudo sasso intra Tevero e Arno. Non escludevo che avrei preso anche io l’ultimo sigillo.
A un tratto mi accorsi che per le scale scendeva una ragazza bruna, carina e fine. L’avevo notata con interesse giorni prima mentre correva allo stadio. La salutai. Si fermò davanti a me. Mi alzai. Ci presentammo. Era Statunitense. Forse di origine ungherese. Si chiamava Sara. “Un’ebrea magiara”, pensai. Era vestita da corsa.
“Vai a correre a quest’ora?” le domandai. Erano già passate le undici.
“Sì, anzi mi sbrigo perché per mezzanotte voglio essere a letto”
E uscì. Il buio non la preoccupava.
“Magnifico – pensai - questa sì che è una donna!”
Salii in camera per prendere le scarpe da corsa.
 Ridiscesi le scale a salti, e corsi verso lo stadio costeggiando l’orto botanico, quello della meravigliosa aurora di tanti anni prima con Elena beata e bella.
Mi era tornata la voglia di vivere.  
Quando arrivai, l’Americana correva nel buio.
“Magnifica - pensai - ogni viltà convien che qui sia morta!”
Il cielo era tutto sereno ma non c’era la luna.
Le stelle non avevano la luce sovrastata dal fulgore di lei quando piena sfavilla, ma nemmeno il più bello degli astri bastava a illuminare la notte.
Iniziai la mia corsa. Dovevo fare attenzione a schivare gli ostacoli messi qua e là sulla pista. “Ho passato la vita a evitare o saltare gli ostacoli - problhvmata in greco”, pensai. Ogni tanto superavo Sara che aveva comunque un buon ritmo. Finiti i 5000 metri che mi ero assegnato, sedetti su uno scalino di legno. La ragazza continuava a correre. La vedevo passare ogni due minuti nel tratto visibile davanti ai miei occhi. Ammiravo la sua forza nell’affrontare metodicamente la buia via della pista. I suoi movimenti regolari, ordinati somigliavano a quelli del cielo. L’aria calda odorava di alberi. Si sentivano versi di cani, o cagne, nell’ombra. Non erano cupi ululati ma suoni chiari e vivi. “La terra è in mezzo alle stelle - pensai - e c’è dappertutto tanta bellezza”. Anche se Ifigenia fosse scomparsa andando via con un altro in un altro paese o pur fosse morta, la vita avrebbe sconfitto il dolore. Dopo l’angoscia dell’espresso non arrivato, probabilmente nemmeno spedito né scritto, dopo l’effetto depressivo del pane e peperone, senza neanche  il fegato d’oca della scatoletta che non avevo saputo aprire, dopo il fastidio del vecchio matto che si aggirava come un ossesso in camera mia, e sua, la vita mi aveva indicato la sua bellezza con lieto volto e mi aveva allietato.

giannetto il poverello di Pesaro. Pesaro 31 dicembre 2019. Buon anno ai miei lettori

Visualizzazioni di pagine: tutta la cronologia
 859.392




Saranno un milione entro il 2020, se Dio vorrà.

CONTINUA

(cercare i capitoli precedenti a partire dal giugno 2019 indietro)

Nessun commento:

Posta un commento

E’ più umano il cultus fino all'artificio o la naturalezza fino all’incuria?

Properzio, Virgilio, Orazio e la via di mezzo di Ovidio.     Il cultus, la cura della persona e dello stile è segno di contraddizi...