NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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martedì 31 marzo 2020

la storia di Kaisa. Capitolo 9. L’Eszpresszó Palma. Le due cameriere. La disputa pseudopolitica


L’Eszpresszó Palma. Le due cameriere. La disputa pseudopolitica

Ci eravamo dunque seduti, festevolmente, al “Palma”, l’Eszpresszó dotato di un’ampia terrazza tutta illuminata dal sole fino al pomeriggio tardo quando la stella che porta significazione di Dio cala in mezzo ai rami del bosco. Vi servivano due ragazze. Erano giovani la prima volta che le vidi, nel 1966. Due cameriere fresche, carine, con divise rosse e bianche: rossa la gonna, bianche le calze e la camicia. Le scarpine, tipiche delle inservienti magiare, lasciano scoperti i calcagni. Era un luogo ameno, con un’atmosfera goliardica. Claudio, quando aveva bevuto una palinka, o due, diceva: “Si sta bene qui, bisogna tornarci!”. E l’ultimo giorno del corso estivo, quando salutavamo le due cameriste (1), l’amico faceva: “a visszantlátásra jővőre!”(2). Le due ragazze ridevano e ricambiavano il saluto pensando, forse, che ci saremmo tornati per tutta la vita. In effetti una volta progettammo di farci seppellire lì vicino, nella nagy érdő, la grande foresta dove, dicono, si trovano inumati decine di eroi ungheresi. Invece a un certo momento l’era felice delle estati di Debrecen, come ogni altra cosa è passata. Come un sogno è passata. Eppure ho fatto in tempo a vedere le due cameriere appassite prima, poi quando ci sono tornato nel 2011 con Fulvio e i due amici ex allievi, in bicicletta, dopo una pedalata di 1200 chilometri, ho visto diventate anziane anche loro. Come me intendo. Ci siamo fatti grandi feste, con abbracci e baci da poveri vecchi oramai più di là che di qua. 
Sulla terrazza del Palma soleggiata dal mattino fin verso sera c’erano molti tavoli occupati spesso da noi studenti stranieri. Si discorreva volentieri, giocosamente; poi si beveva una palinka o due, una all’albicocca una alla prugna, o “brugna” come dicevano i parmigiani Fulvio e Claudio con allusione lasciva, o una birra non piccola, o una bottiglia di vino, in allegra brigata, e si diventava sempre più allegri. Io cercavo di ridurre le dosi e di rallegrarmi autonomamente. Danilo, se si accorgeva che non ordinavo la seconda palinka, gridava con gli occhi chiari striati di righe rosse: “anche se ti vesti di stracci e ti atteggi a proletario maoista, caro da Dio, rimani un borghese, un incurabile fighetto fascista che gira sopra una macchina nera, tedesca, scoperta, chiaramente hitleriana, e non osa neanche raddoppiare un misero goccio. Magari sei pure vegetariano come quel delinquente austriaco!”
“No, mi piace molto la ciccia!” obiettavo.
Poi gli domandavo se alludesse allo sterminio di ebrei, russi, zingari, e agli assassinî di omosessuali, ubriaconi e mentecatti perpetrati da quel delinquente.
“Sì, poi al genocidio di tutte le vigne andate in malora durante la guerra scatenata da quell’assassino! Tu. quando non bevi con noi, me lo ricordi, senza contare che hai anche i baffetti neri, caro da dio! Vai in mona, anche se saluti con il pugno chiuso, sei un fighetto e un fascista da Pesaro, e non sai bere in compagnia. Non hai un briciolo di umanità. Poi vai a cercare il gabinetto per urinare. Se tu fossi un compagno, un comunista come me, e come millanti di essere, pisceresti contro i muri, come faccio io, caro da Dio!”.
Rispondevo che di notte, se non c’era la luna piena a illuminare la minzione indiscreta e se non passava nessuno, lo facevo anche io. Pisciavo serenamente contro tutti i muri di Debrecen. O contro gli alberi, cinico quanto Diogene e più sfacciato di un cane.
“Sì un cane fascista”, replicava. Po gli veniva in mente Diana, la “casta diva”, e, con una risata da iena, aggiungeva: “La luna un corno!”
 “Sì, senza luna o con un corno di luna, sottile come il sopracciglio di una ragazzina, e senza gente che passa, lo faccio” ribattevo. “Ma cossa vu to fare” gridava allora implacabile. “Tu non fumi nemmeno: sei un bamboccio viziato, un borghese e un fascista!”
“Io non fumo, perché non mi piace proprio!”, provavo a giustificarmi.
“Non ti piace perché non vivi una vita marxista - leninista come me che aspiro e mastico soltanto tabacco albanese. Viva Lenin, viva Stalin, viva Mao Tse Tung!”, concludeva alzando il pugno chiuso. Lo alzavo anche io e lui ripeteva: “cossa vu to!”
Nel luglio del 1972 Danilo non c’era. Forse si era perso dietro le sue chimere. 


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(1) Cfr. Gozzano, Elogio degli amori ancillari, 12.
(2) Arrivederci all’anno prossimo!

la storia di Kaisa. Capitolo 8. Chi è per strada, chi è per strada? Chi?

Carlo Carrà, Natura Morta con Pesce e Ciotola
Chi è per strada, chi è per strada? Chi?
La lettera del marito, utile per incartare le noccioline o, forse, gli sgombri

Il giorno dopo, terminate le lezioni di lingua ungherese, la incontrai nel secondo collegio dove, come ogni anno, alloggiavo.
 Quando arrivai in fondo alle scale, la vidi nell’atrio solitamente frequentato a quell’ora meridiana da gente che andava e veniva parlando (1), di lingua o di letteratura ungherese, oppure si fermava in attesa del pranzo auspicando un incontro, o quanto meno sperava di trovare una lettera, come avrei fatto io nel 1979 tutti i giorni, invano. Ifigenia mi aveva promesso un espresso che mai mi mandò. Ma questa è storia di sei anni più tardi e dovrò raccontarla in futuro. Se Dio vorrà.

Kaisa dunque aveva in mano una busta piena di fogli: li stava leggendo. Doveva essere la prima lettura. La posta infatti non la portavano nel collegio dei Finnici alloggiati con gli Estoni, ma la lasciavano tutta lì, nell’atrio del nostro, in una cassetta di legno aperta davanti, formata da tanti scompartimenti, uno per nazione, ciascuno con l’etichetta.
Mentre la ragazza sposata leggeva, attendevo con impazienza che non davo a vedere, ma temevo che quella lunga lettera, probabilmente del marito, forse nemmeno uno scimunito, data la moglie bella fine e colta che aveva trovato, la riconducesse al loro connubio mandando in malora il mio piano condotto con tanta abnegazione.
tiv" ojdw'/, tiv" ojdw'/ tiv" ; (2)” pensai, pieno di spavento.
Quindi mi dissi: “Ieri sera hai vinto, ma oggi devi lottare ancora perché la fortuna a doppio taglio non ti recida e sottragga il successo finale”. Aspettavo con un’impazienza che cercavo di non dare a vedere.
Intanto però io temevo di morire affogato in quell’ondeggiare dei flutti dell’inondazione che poteva cancellare la strada costruita e percorsa con tanto metodico impegno.
Quando Kaisa alzò gli occhi colore di viola e mi guardò, le domandai a bruciapelo: “Ciao, novità?”.
Intendevo tra noi. Kaisa piegò i fogli adagio adagio, li ripose nella busta che mise dentro la borsa portata a tracolla, quindi rispose: “no, potrei incartarci le noccioline o forse gli sgombri(3)”.
“Meno male, è cacata carta (4) pensai. Questa sera faremo il massimo concesso a questa nostra rapida vita mortale prima di precipitare nel burrone scosceso”.
Quindi le dissi: “Mi fa molto piacere trovarti qui. Stavo venendo a cercarti”.
“Anche io” fece lei, e andammo a bere l’aperitivo, un quartino di sangue di toro, al “Palma”, un Eszpresszó contiguo alla piscina. Il luminoso fiume della gioia ci bagnava già i piedi. Ci apprestavamo a versarcela sulle teste per il battesimo che ci avrebbe rigenerati e resi cultori di Eros. Eravamo assai contenti di quel sicuro avvenire che avevamo nella mente e nel cuore, non c’è bisogno di dirlo. Ma la contentezza è un dono di Dio e ricordarla fa bene, fa solo bene. Anche a te che mi leggi, credo, poiché ti vengono in mente i successi raggiunti e le gioie da te stesso provate in questa vita mortale. Né io né Kaisa siamo sempre vissuti tra la noia e la paura della morte. Nemmeno voi lettori. Perciò facciamo tesoro dei sentimenti cari e soavi provati e vissuti (5)

Baci
gianni

  
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 (1) Cfr. T. S. Eliot: “In the room the women come and go - Talking of Michelangelo” (The love song of J. Alfred Prufrock, vv. 13 - 14)
(2) Euripide, Baccanti, parodo, 68. Chi è per strada, chi è per strada? Chi?
 In questa triste circostanza di invasione virale, ce lo chiediamo ogni volta che incrociamo un nostro simile spaventato, come siamo tutti.
(3) Cfr. Catullo 95, 8 - 9: at Volusi Annales Paduam morientur ad ipsam - et laxas scombris saepe dabunt tunicas”, ma gli Annali di Volusio, moriranno proprio lì nel Padovano e daranno spesso voluminosi cartocci per gli sgombri. 
(4) Il primo verso del carme 36, un endecasillabo faleceo, qualifica coì gli Annali di Volusio: “ Annales, Volusi, cacata carta”
5Cito di nuovo alcune preziose parole di Ugo Foscolo i cui scritti sanno non solo di letture e di cultura ma anche di un’esistenza vissuta amando la grande bellezza della vita a partire da quella delle donne. Così spero delle parole mie: “Facciamo tesoro di sentimenti cari e soavi i quali ci ridestino per tutti gli anni, che ancora forse tristi e perseguitati ci avanzano, la memoria che non siamo sempre vissuti nel dolore” Ultime lettere di Jacopo Ortis, 26 ottobre 1797

la storia di Kaisa. Capitolo 7. Il corteggiamento procede con metodo. La ripetizione del bluff funzionale al successo

Raffaello, Deposizione

Il corteggiamento procede con metodo. La ripetizione del bluff  funzionale al successo

Poi continuai: “Kaisa volentieri (1) morirei, piuttosto che rinunciare a te”.
Intanto stavo seduto con il braccio destro che pendeva, ingessato, verso il pavimento. Con quel gesto di resa volevo mimare il topos gestuale della desolazione ricorrente nelle arti figurative: risale a un sarcofago romano con la morte di Meleagro e viene riusato da Raffaello nella Deposizione dove si vede il braccio destro del Cristo esanime, abbandonato nell’impotenza della morte, e il tenero atto pietoso della Maddalena che tiene nelle proprie mani la sinistra di Gesù (2). Ero deciso a recitare un’altra volta la commedia di credere che la bella sposa immacolata non potesse essere disposta a commettere la trasgressione della fedeltà coniugale. Dovevo dissimulare il fatto che ero convinto del contrario, senza farle escludere del tutto, però, che speravo ardentemente di indurla a trasgredire con me.
Sicché dissi queste parole quasi ridicole;
“Ti parlerò in modo ardimentoso ma sempre pieno del rispetto dovuto alla tua persona. Ho riflettuto mentre scendevo poi risalivo le scale. Una catabasi non proprio infernale e un’anabasi per tornare alla luce, ossia a te, amore mio. 
Ho elaborato con il pensiero le percezioni impresse sui sensi.
Tu, come un angelo mandato da Dio, hai risuscitato la mia vita mortificata, e ora quest’anima appena risorta alla luce non può procedere senza di te, ma rischia di tornare ad aggirarsi confusa, svigorita, esangue, in un labirinto buio come il Tartaro, compiendo, per il tempo che mi resta da vivere, nient’altro che una sinistra, inconcludente confusa congerie di gesti insensati. 
 Eppure credo sia meglio soffocare nel petto questo sentimento d’amore, povero amore mio chiuso nell’animo senza speranza, piuttosto che fare torto alla tua immagine, senza dubbio sacra, di madre e sposa buona, premurosa, fedele, cara al marito, al figlio, al padre, a chiunque ti veda e ti conosca. A me più di tutti”.
 Così la adulavo senza decenza. E data la sua attenzione, non smettevo, anzi rincaravo la dose fino al ridicolo.
La provocavo per vedere se a un certo punto si sarebbe messa a ridere o se mi avrebbe chiesto di non canzonarla più. Ma Kaisa mi guardava con gli occhi spalancati, un lieve sorriso enigmatico, e non parlava . Finché lei stava zitta, e le sue orecchie offrivano un facile accesso alla mia voce, alle parole mie, io non dovevo smettere. 
“Sì, preferisco fare del male a me stesso: soffocare la felicità immaginata solo guardando i tuoi occhi pieni di vita, inebriandomi con i profumi esalati dai tuoi capelli luminosamente neri, piuttosto che fare torto alla tua purissima immagine di donna maritata cui devo non solo ogni rispetto umano, ma una venerazione speciale, religiosa, quella riservata alle spose sante. Io santo purtroppo non sono: prima di incontrarti sono stato piuttosto un satiro veneratore di Priapo e di Dioniso, ho gridato evoè più spesso di quanto abbia sussurrato amen, insomma ho menato una vita da briccone coribantico, ma, da quando ti ho vista, sono diventato un pentito, un penitente, un convertito dalla carne allo spirito, dal naturale al soprannaturale del quale vedo un riflesso chiaro, meraviglioso nella tua icona veneranda”.


Quasi credevo a quanto dicevo recitando forse neanche male. E quasi piangevo. O per lo meno gli occhi mi si velavano di un liquido equivoco tra il sentimentale, rossa umidità di cuore, e l’umidità fremente della libidine che, dentro di me, nera, pelosa e massiccia, scalpitava davvero con furia impudica(3) e tirava forte verso la pelle bianchissima, liscia di lei.
Certo è che Kaisa lo capiva e la cosa non le dispiaceva, anche perché celebrando la sua fedeltà, le toglievo comunque ogni timore di essere importunata: se avesse risposto che il marito faceva bene a fidarsi di lei, poiché la amava del tutto riamato, la preda agognata e mancata mi avrebbe fatto fuggire con la coda tra le gambe e le orecchie abbassate. Sì come cane pieno di zecche, bastonato e sciancato.
Invece disse: “Tu non mi fai torto, Gianni, non mi fai torto per niente”.
E mi accarezzò la mano destra. “Forse - aggiunse - mi fai complimenti così sperticati perché fino ad ora non hai trovato una donna del tuo stampo, della tua levatura, capace di respirare cultura e bellezza, come sei solito fare tu”.
“Ce l’ho fatta”, pensai, “l’esito non è più incerto: la bilancia inclina verso la realtà dell’amore, verso la sua verità”.
Quindi le dissi:
“Infatti sentivo questa mancanza prima di incontrarti. Un deficit che solo tu potresti colmare. Tu respiri il bello e me lo ispiri”. E aggiunsi: “se solo guardo te, tutto il resto del mondo che vedo diviene più ricco di significato e mi riempio di gioia”.
La commedia funzionava perché era fatta non solo di calcoli, pose e citazioni, ma anche e soprattutto di simpatia autentica, forte, reciproca.
Tuttavia lo scopo ancora non lo avevo raggiunto, il bersaglio cui miravo con la tensione massima dell’anima mia e pure con quella del corpo, non lo avevo centrato. Per coglierlo in pieno, ripetei la mossa astuta e poco nobile, insoimma la finta da giocatore di carte che aveva funzionato tanto bene con Elena un anno prima. Infatti tendo a ripetere e ritualizzare gli atti della mia vita, quando hanno successo. Bonis successibus instruor(3). 
Dunque le dissi: “Kaisa, questa serata è la più bella della mia vita, ma ora dobbiamo tornare: devo studiare fino all’alba la letteratura greca per l’esame di abilitazione che mi aspetta in autunno. Devo superarlo a pieni voti se voglio passare dalle medie al liceo, e lo voglio soprattutto per diventare non del tutto indegno di te. Questa notte verserò il sangue, non di animali come fece Odisseo (4), ma proprio il mio, per evocare e fare parlar le ombre grandi di Eschilo, Sofocle, Euripide. Non potranno negarsi a chi sacrifica se stesso devotamente”.

Non raccolse o finse di non avere colto l’allusione ai nostri autori e rispose soltanto “D’accordo, torniamo. Niente è importante quanto studiare”.
Ma si vedeva che ci era rimasta male. Ebbi paura che la mia mossa fosse stata controproducente e che Kaisa potesse prendermi per uno sgobbone, un pedante dall’anima gobba, un umbraticus doctor, insomma quasi il contrario di quello che ero. Sicché aggiunsi un corollario:
“No, tu sei molto più importante per me, ma devo imparare dell’altro e progredire nel lavoro per essere, lo ripeto, quasi degno di te”.
Sembrava poco convinta, però non disse niente. In fondo avrebbe fatto una carriera scolastica e accademica molto più consistente della mia.
Qualche giorno più tardi, disse che quella sera, tornata in collegio, aveva provato una paura tremenda di non vedermi mai più.


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(1) Cfr. Dante Inferno, V, 73: poeta, volontieri - parlerei a quei due che ‘nsieme vanno, e paiono sì al vento essere leggeri”. Si tratta dei lussuriosi e adulteri Paolo e Francesca 
(2) Un topos presente anche in altri quadri tra i quali il Marat assassinato di David
(3) Cfr. Ammiano Marcellino XXI, 5, 6
(4) Cfr. la Nevkuia, il canto dei morti dell’Odissea, l’undicesimo

lunedì 30 marzo 2020

Il “filosofo dell’amore” finalmente ha capito




Da “filosofo dell’amore” oggi dico che è difficile volere bene a una donna, sia pure la madre o la moglie, quando la amiamo troppo. E’ più facile arrivare al bene velle quando cala l’amare. L’amore infatti è associato spesso alla possessività e alla competitività. Talora perfino all’odio (odi et amo) . Finché lo leggevo in Catullo, lo sapevo ma non lo capivo, tanto meno lo sentivo. Ma ora, rivedendo e correggendo le storie d’amore più intense della mia vita, lo riconosco e lo sento in queste. Non sono finite con “il vissero insieme cento anni felici e contenti”, nemmeno due mesi sono durate, però mi fanno scrivere pagine belle. Mi hanno dato il bene massimo dunque. Sono grato alle donne che me le hanno infuse nell’anima con i loro corpi e con le anime loro.
Baci
gianni

la storia di Kaisa. Capitolo 6. Con l’adulazione si può sedurre perfino una monaca

Giovanni Testori, La Monaca di Monza
(Teatro Elicantropo di Napoli)

Con l’adulazione si può sedurre perfino una monaca

Mi scusai per l’indugio e ripresi a lusingarla. Con l’adulazione si può sedurre anche una vestale[10], una suora sposa di Cristo, o un’intellettuale iperborea consacrata più allo studio che alla famiglia. Mi ero dato la parte dell’innamorato vezzeggiatore[11] e dovevo trovare ogni parola, ogni pretesto perché lei si sentisse apprezzata, amata e invogliata a contraccambiarmi.
 Facevo pure l’atto fisico, provato poco prima allo specchio, di prosternarmi davanti alla sua bellezza, alla sua serietà, alla sua castità. Nello stesso tempo cercavo di indurla ad accogliere le mie ragioni seminali
Cialtrone infernale! dirai tu, pudibondo o ipocrita chiunque tu sia che mi leggi. La tua fiamma erotica di sicuro trae alimento dal fuoco della Gehenna!”[12].
Più che altro assumevo un atteggiamento di complicità con il reale.
Di fatto ero ispirato e spronato da un demone. Non potevo né volevo né tanto meno dovevo recalcitrare al suo pungolo. Infatti era il demone mio, non preso a prestito da altri come quello di coloro che si sposano perché lo fanno gli altri, poi si annoiano, litigano con la moglie, si cercano un’amante o un amante. Oppure sono gelosi e picchiano o ammazzano o fanno una strage. No, ero meno stupido io, e anche meno immorale e bestiale. Non credi, mio lettore, complice mio mentre mi leggi? Creda però chi vuole restare pure anche mentre legge le mie porcherie che quelle azioni empie e nefande le ho compiute io - me fecisse nefas - e finirò per sempre nella bufera infernale là dov’è Dido con Elena, Semiramide, Cleopatra, Tristano, Paride, Achille e milioni di altri.

Mi ero già abbastanza inserito nel favore di me stesso e volevo entrare nel corpo di lei. Lo volevo proprio, lo volevo davvero, senza alcuna riserva. Te lo giuro, lettore. Questa avrei potuto amarla a lungo, per quanto possa essere lunga nostra vita mortale. Poco invero.
Risalendo le scale avevo deciso, tra l’altro, che, dopo l’intervallo, dovevo iniziare il secondo tempo con Kaisa riprendendo le cime degli argomenti trattati nei primi momenti del corteggiamento.
Dunque tornai a recitare il ruolo dell’innamorato quasi senza speranze. A questo punto ero quasi sicuro che la disperazione amorosa sarebbe stata smentita dal massimo oggetto del mio desiderio.
Dopo una breve pausa ripresi a parlare: “Mentre scendevo e salivo le scale, per non dire degli altri momenti di questi lunghissimi dieci minuti di assenza, mi sei mancata” dissi con voce velata da un lieve affanno.
Aggiunsi di avere deciso che solo lei poteva ridarmi la speranza, la voglia di vivere. Aveva la possibilità di rendermi idoneo a una vita migliore di quella che conducevo. Senza di lei, tutto il bene, il bello, il desiderabile del mondo, dell’universo intero, comprese le stelle sopra di me, e ogni gioia, ogni nobile aspirazione dentro di me, insomma proprio tutto, era inconsistente, privo di ogni sostanza. Orbato dal lutto della sua assenza, a me sarebbe rimasta solo la porta del nulla spalancata sul vuoto.
Ombre gelide cadendo da rami intrecciati dalla sventura avvolti da serpi nere, orrendi viluppi aorni, dove cioè non osano posarsi gli uccelli, avrebbero interrotto il tragitto dei raggi santi che in quel momento vedevo emanati dai suoi splendidissimi occhi aperti sul volto mio beatificato da tanta luce.
 Le mie fatiche umanamente spese si sarebbero miseramente vanificate. Temevo, conclusi, che avrei sofferto l’estremo naufragio finendo nel fondo.
Dove non arrivavo con l’inglese a dire tante amenità, mi aiutavo con il latino, il greco e pure con l’italiano che la bella studiosa capiva poiché conosceva il francese. Sotto sotto ci divertivamo entrambi.

Cominciai a simulare un affanno fitto, da nuotatore stremato, ut saevis proiectus ab undis/navita[13]. Gli occhi luccicavano umidi. Giurai che l’unica donna davanti alla quale avevo rinunciato alla mia fierezza e al mio orgoglio piegando il capo altero era lei.
Cialtronissimo buffone da osteria e volgare mimo che insulti il pudore, mi direte voi lettori, quanti siete persone per bene, caste, sincere, incapaci di simulare e dissimulare.
Invero, carissimi, neppure io simulavo né dissimulavo: stavo cercando di rendere evidente quanto sentivo, poiché “sentivo” davvero, e con forza, il desiderio, il bisogno di quella creatura semidivina.
Non so se ora voi la vedete nelle mie parole ma allora io la vedevo, minacciosa e pure promettente, oltre che sentirla. Dico della brama erotica nera, pelosa fino alle orecchie, massiccia, contorta, camusa, impudica, riottosa come il cavallo brutto e cattivo del cocchio platonico, e pure diritta e snella, dal naso aquilino, coperta di bianco, obbediente alla guida della ragione, come il cavallo bello e buono del Fedro.
Io ero l’auriga che dirigeva il carro e il tragitto fino alla meta dipendeva da me.
Kaisa sembrava un poco lusingata, un poco incredula e anche un poco divertita. Capiva che la parte da me recitata era pure vissuta. E sentiva che se nelle parole c’era qualche ironia, nei fatti, negli atti non ci sarebbe stata.
La mia facondia portava i segni di un desiderio intenso, straordinario.
Le donne sanno vederli.
Ci chiesero se volevamo un dolce, della palinka o delle sigarette. Kaisa scosse la testa in segno di virtuoso diniego, e io le dissi: “brava, non dobbiamo riempirci di malvagità”. Sorrise alla mia battuta. Non smetteva di osservarmi e ascoltarmi con attenzione. Sicché fui certo della mutua cupido e continuai parlando a briglia sciolta.

giovanni ghiselli



[10] Cfr. Dostoevkij, Delitto e castigo, VI, 4,
[11] Cfr. Platone, Rsp. 474d: ejrasth;ς uJpokorizovmenoς
[12] Cfr. Nuovo Testamento, Epistola di Giacomo, 3, 2 - 8: kai; flogizomevnh uJpo; th'" geevnnh"
[13] Lucrezio, De rerum natura V, 221 - 222, come un marinaio naufrago gettato a riva da ondate furiose

domenica 29 marzo 2020

Il corona virus che ci tiene separati è il sintomo collaterale dell’egoismo


Il corona virus che ci tiene separati è il sintomo collaterale dell’egoismo invalso da più di trenta anni.

L’isolamento nel quale il corona virus ci costringe è il coronamento appunto dell’individualismo egoista iniziato verso la metà degli anni Settanta e scoppiato negli anni Ottanta con l’elezione di personaggi come il guitto Reagan a capi di Stato. Allora “comunismo”, il cui significato vero è antitesi di egoismo, cominciò a diventare parola oscena anche in paesi dal governo socialista o socialdemocratico, allora iniziò e da allora si sviluppò la teocrazia trinitaria di Capitalismo, Mercato libero, Profitto. Non senza il sacerdozio della Violenza, e il diaconato dell’Usura al servizio di quegli dèi. Ho usato il passato remoto siccome questa catastrofe ha provocato almeno una pausa di tale religio, superstizione quae tantum potuit suadere malorum, non esclusi i sacrifici umani.
Ora i lavoratori lasciati nel precariato, detto flessibilità, e nell’indigenza, dovuta a salari da schiavitù, stanno precipitando nella miseria, sino alla fame. Molti oramai sono finiti nell’impossibilità di nutrirsi se non grazie all’elemosina. Ma questa non c’è per tutti quanti ne hanno bisogno, e molti del resto non se la sentono di chiederla.
Lucano scrive: “nescit plebes ieiuna timere” (Pharsalia, III, 58), la folla affamata non sa cosa sia la paura. Trova il coraggio di ribellarsi dunque, di dare l’assalto ai forni e agli altri negozi con le derrate di cui ha bisogno.
Sia chiaro che io non approvo alcuna forma di violenza.
Ora quanti osannavano e celebravano il capitalismo incontrollato cominciano ad avere paura delle rivolte degli affamati.
Secondo me non basta dare qualche aiuto ai tanti caduti in miseria, per sconfiggere il male. Questo morbo assassino è una conseguenza del capitalismo illimitato e globale, dello spreco suggerito dalla pubblicità che raccomanda ogni prodotto industriale anche inutile e pure dannoso, dello sperpero sfrenato di quanto la natura offre all’umanità. La nostra specie, se vuole sopravvivere, deve cambiare tenore di vita, modelli da proporre, miti da presentare.
A parer mio è necessario un ritorno all’umanesimo per il quale ciascuno di noi deve sapere di essere un uomo prima che uno sfruttatore, prima che un consumatore, prima che un burattino manovrato da fili alieni, estranei alla sua umanità. Sapere di essere uomo umano e agire come tale.
Tornare all’Umanesimo come rispetto e amore tanto della Natura quanto dell’Umanità.
Il virus dunque è un deleterio effetto collaterale dell’egoismo e dello sfruttamento tanto dell’uomo quanto della Terra perpetrato da alcuni grandi profittatori assecondati dai loro mercenari, e durato per più di trenta anni. Già troppo a lungo.

giovanni ghiselli


la storia di Kaisa. Capitolo 5. Narciso e Lenone di se stesso

Jules-Cyrille Cavé, Narciso

Narciso e Lenone di se stesso

Sulla via del ritorno alla terrazza dopo lo svuotamento della vescica, passai davanti a uno specchio murale posto in uno dei lunghi corridoi del grande albergo di Debrecen. Mentre camminavo piuttosto in fretta verso la sperata vittoria olimpica, con la coda dell’occhio destro intravvidi la mia sagoma riverberata di profilo. Fatti pochi altri passi però, tornai indietro: volevo vedere bene quale fosse la consistenza e la forza attrattiva della mia figura osservata nell’immagine riflessa.
Fermo davanti a me stesso, mi piacqui, rafforzai la fiducia nella bontà della vita a mio riguardo. Ero un suo prediletto: snello, abbronzato, il corpo ben fatto, non alto ma limpidamente proporzionato, vestito di lino bianco: un tessuto semplice e puro, non l’escrescenza[1] di un corpo pigro, grasso e molle.
Avevo un volto simpatico e sorridente a se stesso: quanto mutato da quello[2] del disgraziato ragazzo grasso, malconcio, infelice, arrivato all’Aranybika di Debrecen nel luglio del 1966[3], sporco, spaventato e ingordo di cibo, pur con il ventre vicino a scoppiare!
Né valeva colpirlo con i pugni perché non reclamasse altro cibo: quello suonava come un tamburo e tuonando chiedeva sempre nuove vivande.
Allora evitavo ogni specchio per non vederci riflesso lo sciagurato corpo sformato, deforme, i capelli costantemente unti, e il viso foruncoloso angosciato stravolto in grugno di maiale invecchiato in un porcile angusto, odioso a se stesso e a tutti gli umani, soprattutto alle donne.

“Adesso invece - pensavo nel luglio del ’72 - mi piaccio, mi amo, e lassù, sulla terrazza per la seconda volta in due anni, mi aspetta una donna bella, colta e fine che contraccambia la mia simpatia. Intanto la simpatia. Entro il mese di luglio però devo portarmi nel letto anche questa. Allora sentirò di nuovo l’armonia dell’Universo. Potrò trarne e darle piacere, e specializzarmi in adultèri con spose novelle o prossime alle nozze.
Sento la buona sorte che arriva nella sua pienezza.
Gianni, non devi temere gli anatemi della pretaglia che ignora perfino le parole di Cristo il quale perdona le adultere, come diverrà, se non lo è già, Kaisa la bella. Il Nazareno ha rimesso tutti i peccati a quelli che hanno amato molto. Indulgenza plenaria. I sacerdoti santi, anzi, benediranno la nostra lussuria felice con le loro preghiere”.
Mi osservai per qualche minuto, e mentre l’occhio si spostava in gioiosa frenesia dal volto abbronzato alla vita da torero, provavo qualche movenza da ripetere davanti alla graziosa, preparandomi mentalmente citazioni splendide da recitare al momento opportuno. Mi venne in mente un distico del magister[4] del gioco amoroso dal quale mi facevo appunto ammaestrare:
Rusticus est nimium quem laedit adultera coniunx[5] .
Feci a me stesso qualche sorriso per scegliere le parole che potevano giovarmi nella commedia che mi apprestavo a recitare. Durante queste prove della scena seguente, tutta l’immagine mia sorrideva contenta nel grande specchio murale, perfino il lino della giacca e il cuoio lucido dei mocassini davano segni di compiacimento.

Mi piaceva assai stare lì a contemplarmi, ma non potevo farla aspettare altro tempo. Non volevo del resto finire come Narciso morto annegato per eccessivo amore della propria immagine che non poté stringere con le braccia gettate dentro le acque[6].
 Mi tornò in mente un utile distico dell’ottimo Ovidio pensando di recitarlo a Kaisa, se me ne avesse data l’opportunità: “Conloqui iam tempus adestfuge rustice longe/hinc Pudor: audentem Forsque Venusque iuvat[7].
Poi, se la ragazza, e madre, avesse continuato a mostrare gradimento, le avrei consigliato di non opporsi a un amore gradito: “placitone etiam pugnabis amori?”[8].
Ti chiederai, lettore, Perché tanto latino? Perché è la lingua che salva il pudore, nel senso che quando lo parli puoi dire quale si voglia parola oscena, da fellatio a glubere, senza vergognarti; ma soprattutto voglio spingerti a leggere e amare questa lingua 9 che è l’italiano antico, la nostra lingua nonna, se così si può dire.
Sicché, dato un bacio furtivo all’immagine mia, mosso dalla spinta dell’amore ineccepibile per la bella studiosa, tornai sulla terrazza, alla seggiola rossa, al tavolo coperto di fiori, alla mia finnica dai capelli neri e dagli occhi dal colore amato già quando mi allattava la mamma: azzurri o turchini, o viola, secondo la luce, più chiara o meno chiara. Ero certo di avere preparato bene, con arte, la necessaria parte di lenone di me stesso.



[1] In De Iside et Osiride Plutarco spiega che il lino spunta dal seno della terra immortale e produce una veste semplice e pura parevcei kaqara;n ejsqh`ta che non pesa ma offre riparo dal calore ed è adatta ad ogni stagione e non genera insetti 352F. 
Nel De Magīa Apuleio scrive che la lana è escrescenza di un pigrissimo corpo segnissimi corporis excrementum (56). Già Orfeo e Pitagora la riservavano alle vesti dei profani. Invece mundissima lini seges, la purissima pianta del lino, tra i migliori frutti della terra, copre i santi sacerdoti d’Egitto e gli oggetti sacri. 
Erodoto scrive che gli Egiziani considerano empio entrare nei santuari e farsi seppellire vestiti di lana (II, 81).
[2] Cfr. Virgilio, Eneide II, 274 “quantun mutatus ab illo
[3] Cfr. L’arrivo a Debrecen presente nel blog.
[4] Alla fine dell'Ars Amatoria leggiamo:"Lusus habet finem (...) Ut quondam iuvenes, ita nunc, mea turba, puellae/inscribant spoliis Naso Magister Erat " (III, 809 e 811 - 812), il gioco è finito... Come una volta i giovani, così ora le ragazze, mio seguito, scrivano sulle prede "Nasone Fu Il Maestro".
[5] Ovidio, Amores III, 4, 37, è davvero rozzo quello che una moglie adultera offende 
[6] Cfr. Ovidio, Metamorfosi: “bracchia mersit aquis nec se deprendit in illis! (II, 429)
[7] Ars amatoria I, 605 - 606), è già tempo di parlarle; fuggi lontano di qui, rozzo Pudore, la Sorte e Venere aiutano chi osa.
[8] Eneide IV, 38 v. 38) ti opporrai ancora a un amore che ti piace?
[9] L'uomo che non conosce il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi piu in là tutto diventa indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano, attraverso i secoli piu recenti, il Medioevo e l'antichità. Il greco o addirittura il sanscrito allargano certamente ancor piu l'orizzonte. Chi non conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale dell'acido di spato di fluoro" A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, trad. it Adelphi, 1983, Tomo II, Della lingua e delle parole 299, p. 772.

sabato 28 marzo 2020

La distribuzione dei beni sarà di nuovo necessaria. Molto presto

Cappella Brancacci

Massimo Cacciari e Tomaso Montanari sull’affresco di Masaccio della cappella Brancacci
La tavola 7 di La mente inquieta Saggio su l’Umanesimo di Massimo Cacciari (Einaudi, 2019) riproduce un affresco di Masaccio: Distribuzione dei beni ai fedeli e morte di Anania , 1425 - 1428 circa, particolare. Firenze, Santa Maria del Carmine, cappella Brancacci.
Il commento nota che l’atto di carità vi appare come un grande dovere, scevro da ogni sentimentalismo, compiuto da figure che sono “spazio concentrato” (Argan), grande architettura capace di sopportare immensi carichi, espressione di un’antica virtus, che qui rivive, nella città reale fatta dai suoi cittadini, quelli che Masaccio aveva ritratto volto per volto , “in infinito numero” (Vasari), sopra la porta che andava in convento (anche questo dipinto è andato distrutto) in occasione della loro partecipazione alla festa per la consacrazione del Carmine”.
Vasari: E’ un miracolo che Fiorenza”abbia prodotto in una medesima età Filippo, Donato, Lorenzo, Paolo Uccello e Masaccio eccellentissimo ciascuno nel genere suo”.

Sentiamo Tomaso Montanari in un articolo di “il venerdì di Repubblica” (27 marzo 2020, p. 93) intitolato Masaccio, il mio rifugio nella Firenze deserta (p. 93)
La cappella Brancacci “E’ un luogo unico nella storia della cultura europea. Qua, un artista venticinquenne (che sarebbe morto due anni dopo) cambiò il corso della storia dell’arte portando sull’altare lo spazio e i corpi del mondo reale. Come Giotto, più di Giotto: come solo Caravaggio seppe fare dopo di lui. Col suo stile “puro e senza ornato (come dirà un ispirato Cristoforo Landino qualche decennio dopo), Masaccio fece capire a tutti (e per primo al suo dotatissimo “principale” Masolino, che aveva quasi vent’anni di più e dipingeva con lui nella stessa cappella) che anche la pittura poteva mostrare i prodigi con cui Filippo Brunelleschi e Donatello stavano incendiando l’architettura e la scultura. Ora i corpi gettavano ombra, i nudi tremavano dal freddo, i ritratti si riconoscevano al primo sguardo. Le vie di Firenze, con le colline che le sovrastano, col bianco degli intonaci e il rosso delle tegole, diventavano la scena (prospettica, abitabile, credibile) in cui ambientare la storia sacra. E di quella storia erano protagonisti gli ultimi, gli scartati: tra tutti, questa indimenticabile madre povera col bambino mezzo nudo e sgraziato: questa madonna della strada che tende le mani e, con tutta la dignità del mondo, guarda negli occhi un san Pietro incapace di sostenerne lo sguardo. Rappresentare la realtà significa dire la verità. Anche su Anania: stramazzato ai piedi dell’apostolo per aver truffato la comunità pensando al suo profitto privato. Ora d’aria, ora rivoluzionaria”.

“Tommaso (che era il suo vero nome) fu da tutti detto Masaccio; non già perché e’ fusse vizioso, essendo egli la bontà naturale, ma per la tanta trascurataggine; con la quale niente di manco, egli era tanto amorevole nel fare altrui servizio e piacere, che più altro non può bramarsi” scrive Giorgio Vasari (1511 - 1574)il quale ne mette in risalto la naturalezza: “perché invero le cose fatte innanzi a lui si possono chiamare dipinte, e le sue vivaci, veraci, e naturali, allato a quelle fatte dagli altri”
Vita di Masaccio. Da S. Giovanni di Valdarno Pittore.
In Vite dei più eccellenti architetti pittori et scultori italiani da Cimabue insino a' tempi nostri.
Prepariamoci dunque a distribuire i nostri beni ai bisognosi.

Bologna 27 marzo. giannettaccio