Nei fatti gli uomini non sono tutti uguali, le donne nemmeno. Per fortuna.
Nella Didone di Virgilio questo dolore indeterminato diviene odio per la vita causato dal senso di colpa. La Fenicia infatti si accusa da sola e incrimina anche la sorella che aveva caldeggiato lo sciagurato amore: "Quin morere, ut merita es, ferroque averte dolorem./Tu lacrimis evicta meis, tu prima furentem/his, germana, malis oneras atque obicis hosti./ Non licuit thalami expertem sine crimine vitam/degere, more ferae, talis nec tangere curas/ Non servata fides cineri promissa Sychaeo " (vv. 547-552), Piuttosto muori, come ti sei meritata, e con il ferro scaccia l'affanno. Tu vinta dalle mie lacrime, tu per prima, sorella, carichi me, furibonda, di questi mali e mi getti al nemico. Non mi è stato possibile passare la vita senza nozze e colpa, come una bestia, e non toccare tali affanni: non è stata osservata la fedeltà promessa al cenere di Sicheo.-Quin: corregge l'ipotesi precedente di seguire Enea con i suoi Tirii.-morĕre: imperativo.-ut merita es: lo stipendium meritato con l'indulgenza verso l'istinto amoroso è la morte.-talis=tales.
L'antitesi di questo triste e letale "tradimento" postumo si trova nella fabula milesia, della "Matrona di Efeso" che si legge nel Satyricon (111-112.) Nel capolavoro di Petronio troviamo una vedovella che poche ore dopo la morte del marito si toglie le gramaglie, e tutto il resto, senza rimorsi né ubbìe, dando retta a un soldato che oltretutto poi, per evitare di venire punito, deve appendere il cadavere dello sposo defunto al posto di quello di un ladrone sottratto a una croce e affidato alla sua sorveglianza.
Pensate che un collega laico che insegnava religione mi accusò di aver voluto infamare la bella figura di Cristo facendo tradurre questa fabula.
Risposi che molti malfattori vennero crocifissi nella Repubblca e nell’impero romano. Colui replicò che Cristo non era un malfattore.
“Cerca di non esserlo neanche tu”, risposi e mi allontanai non senza compatirlo.
Le bestie, rimugina Didone, non si sposano né si sentono in colpa per l'accoppiamento. "Il mos ferarum , il modo di vivere delle fiere, è richiamato non come un modo di vivere inferiore, indegno dell'uomo, ma come un modo di vivere innocente: le fiere si accoppiano liberamente, promiscuamente, ma, appunto perché non hanno legami matrimoniali stabili e non ne sentono l'esigenza, sono innocenti. E' probabile che Virgilio tenga presente la descrizione dell'umanità primitiva del V libro di Lucrezio (De rerum natura, V, 932: “vulgivago vitam tractabant more ferarum, traevano in continuo vagare una vita da bestie) ma si sa quanto sia ambiguo l'atteggiamento di Lucrezio verso questo stato ferino; ferino, sì, ma più puro di quello attuale e forse anche meno infelice (opportunamente il Page confrontava anche con Ovidio, Fast. II 291 vita feris similis , che si riferisce alla vita primitiva e felice degli Arcadi).
Il fraintendimento consiste soprattutto nell'interpretare more ferae come condanna morale dello stato ferino. Tale fraintendimento si trova già in Quintiliano (IX 2, 64), che, in conseguenza, era portato a sentire nel passo una contraddizione spiegabile coi sentimenti di Didone: da un lato ella si lamenterebbe del matrimonio, ma dall'altro lascerebbe prorompere il proprio sentimento e riconoscerebbe che una vita senza nozze sarebbe una vita da bestie"[1].
Quintiliano cita il v. 550 e parte del 551 del IV dell’Eneide aggiungendo un punto interrogativo e considerandoli un esempio della figura dell'emphasis :" Non licuit thalami expertem sine crimine vitam/degere, more ferae?" L'enfasi viene spiegata in questo modo:"cum ex aliquo dicto latens aliquid eruitur...Quamquam enim de matrimonio queritur Dido, tamen huc erumpit eius adfectus, ut sine thalamis vitam non hominum putet, sed ferarum " (Institutio oratoria , IX, 2, 64), quando da qualche detto scaturisce qualcosa di nascosto...sebbene infatti Didone si lamenti del matrimonio, tuttavia la sua passione prorompe là dove ella ritiene che la vita senza nozze sia non da uomini ma da bestie.
Quale che sia l'interpretazione di Quintiliano, nel testo di Virgilio l'amore e la colpa sono strettamente congiunti e la presenza dell'uno significa quella dell'altra.
Ma forse si può dare un'interpretazione meno arzigogolata citando Pirandello:"Un angelo, per una donna, è sempre più irritante d'una bestia"[2].
Soprattutto se l'angelo è un promotore di destini imperiali come Mercurio che si è recato da Enea per farlo fuggire
Didone dunque sarebbe colpevole, Enea invece innocente poiché
obbedisce agli ordini di Giove che gli vengono riportati da Mercurio.
Il dio gli appare in sogno e gli dice pure che Didone è risoluta a morire ("certa mori ", v. 564), ma questo non ha importanza né per l'uomo né per il dio. La cartaginese infatti rivolge nel petto inganni e una sinistra scelleratezza :"illa dolos dirumque nefas in pectore versat "(v. 563). L'allitterazione in dolos dirumque sottolinea entrambe le colpe della disgraziata. Qui si vede che mentre il sogno, ossia il desiderio camuffato, suggerisce l'inganno e il misfatto, trova anche il modo di discolpare il dormiente proiettando sulla donna tutto il male che egli stesso è già preparato a perpetrare contro di lei.
Infine Mercurio ripete l’ordine a Enea, sempre più obbediente e “pio”:
“Heia age, rumpe moras. Varium et mutabile semper-femina. Sic fatus nocti se immiscuit atrae " ( v. 569-570) su, rompi gli indugi cosa variabile e mutevole sempre la donna. Detto questo si mescolò alla notte tenebrosa
La donna è mobile
Un locus questo, anzi un vero e proprio luogo comune diffuso non solo in letteratura ma anche nella testa di noi maschi.
Faccio solo pochi esempi :
Dante: “Per lei assai di lieve si comprende-quanto in femmina foco d’amor dura-se l’occhio o il tatto spesso non l’accende” Purgatorio, VIII, 76-78. Parla Nino Visconti dimenticato dalla moglie.
Petrarca echeggia questa communis opinio nel Sonetto CXLVIII:"Femina è cosa mobil per natura;/ond'io so ben ch'un amoroso stato/in cor di donna picciol tempo dura" (Il Canzoniere, CLXXXIII).
Boccaccio Filostrato VIII 301 "Volubil sempre come foglia al vento".
Nell'Aminta di Torquato Tasso Tirsi dice al protagonista eponimo della favola pastorale[3]:"in breve spazio/s'adira e in breve spazio anco si placa/Femina, cosa mobil per natura" (I, 2).
Lo stesso luogo comune troviamo nel Rigoletto di Verdi-Piave: "la donna è mobile/qual piuma al vento,/muta d'accento/e di pensiero./Sempre un amabile/leggiadro viso,/in pianto o in riso,/è menzognero./E' sempre misero/chi a lei s'affida,/chi le confida,/mal cauto il core!/Pur mai non sentesi/felice appieno/chi su quel seno,/non liba amore! (III, 2).
Bologna 20 dicembre 2025 ore 20, 24 giovanni ghiselli
p. s.
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