Tornammo dentro. Dappertutto una folla di giovani chiassosi e agitati.
Andai a guardarmi in uno specchio di un gabinetto come facevo nel tempo delle finniche, particolarmente nel 1972, l’anno di Kaisa, per compiacermi e rassicurarmi. Il mio viso era cambiato da allora: magro molto, incavato, segnato dal tempo che trasforma, deforma o riforma, ed era scabro come uno scoglio della barriera marina di Pesaro che deve sostenere gli assalti di onde talora furiose spinte dal una bora tremenda, o come la rupe nera di Capo Nord protesa sul mare freddo e cupo che la flagella.
Così la vidi subito dopo essere stato rigettato da Päivi al pari della nostra creatura.
Tuttavia il mio aspetto non era stato troppo imbruttito dai segni impressi dal tempo.
Stavo diventando un’immagine lapidaria e stilizzata, una specie di icona vivente. Judith mi aveva detto che ci trovava il bello della consapevolezza. Mi osservavo per averne conferma. Non mi dispiacqui, anzi: lo scavato, lo sbrecciato, il caduto era del materiale superfluo che aggiungeva alcunché di troppo, di inutile all’essenziale. Sorrisi a me stesso pensando che le prove passate, gli agoni, pur dolorosi e faticosi assai, avevano contribuito a quel risultato che mi piaceva.
L’abbronzatura, coltivata con cura ogni giorno nella piscina o sul prato, spiccava sul mio vestito bianco, di lino, comprato tanti anni prima. Era liso ma pulito e mi stava bene: “sit bene conveniens et sine labe toga” [1], ricordai
Quindi mi venne in mente un breve passo di Erodoto dal logos egiziano.
A proposito del fatto che gli Egiziani sono qeosebeve~ perissw`~ straordinariamente religiosi, lo storiografo scrive che portano vesti di lino sempre lavate da poco curando questo in massimo grado “ei[mata de; livnea forevousi aijei; neovpluta, ejpithdeuovnte" tou`to mavlista. Storie, II, 37, 2).
Ero compiaciuto di come portavo i miei anni: oramai trentacinque. Avevo tanti capelli, nessuno bianco.
“Aetatem bene gero-mi dissi- niger tamquam corvus". Avevo preso dalla zia Giulia che, ottantenne, era nigra nei capelli lei pure. Dicono che sia la componente etrusca: il ghenos del nonno materno Martelli di Borgo Sansepolcro, di madre fiorentina, neoetrusca anche lei.
La componente etrusca del resto comporta anche una certa dose di irrazionale quale si trova in Properzio di Assisi o in Santo Francesco, il poverello imitator Christi. Pure lui teneva il medesimo indumento per diversi anni. Il poverello di Pesaro dunque era imitatore di un imitatore. Ero ancora giovane.
“A cinquanta sarò bellissimo”, mi dissi. Me lo aveva predetto nel ’68 Fiorella, la studentessa di Modena che allora amoreggiava con Danilo il quale la corresse: “sì se diventerà un bevitore vero!”
Io invece pensai che avrei dovuto continuare a correre, nuotare, abbronzarmi, a studiare con lena indefessa. E dopo tutto questo volevo arrivare a scrivere.
“Ho l’età di Fassbinder e di Wenders. E’ l’ora, è quasi tardi: datti da fare! Well said old mole![2]”, mi dissi. Quindi mi mossi.
La fontana vivace.
Andai a salutare le amiche acquisite in quell’estate lontana. La tedesca Silvia e la napoletana Isabella. Conservo un caro, prezioso ricordo di entrambe pur dopo decine di anni.
La vita si avvalora di ricchezza vera con questi incontri. Non solo le amanti ma anche le amiche e gli amici. Si impara molto da loro, quanto e talora più che dai libri buoni, dai film, dagli spettacolo belli della natura. Del resto, si rischia di disimparare e regredire per l’opera nefasta dei tanti diseducatori: la pubblicità, la falsità, la volgarità di troppe parole ascoltate per forza o per sbaglio, di tanti latrati cretini, e di immagini sconce viste dovunque.
Bisogna filtrare le percezioni dei sensi attraverso la mente che ha coltivato, esercitato, praticato lo spirito critico, cioè capace di giudicare.
Ringraziate le due amiche dunque, mi avviai verso la stanza numero quattro del secondo collegio, sempre la stessa dal 1966 molto lontano già allora.
Appena uscito dal portone però fui attirato ancora una volta dalla fontana vivace situata davanti alla facciata dell’Università di Debrecen.
Era illuminata con luci più variopinte del solito perché quella sera era solenne: la Debreceni Orvostudomány Egyetem dava l’addio o l’arrivederci agli studenti europei ospiti del corso estivo.
Ci sarei tonato ancora tre volte, l’ultima nel 2011 in bicicletta da Bologna, pedalatore annoso con gli amici più cari di quell’era, oggi lontana anche quella.
Gli zampilli che sprizzavano in alto mi parevano raggi che la terra riconoscente restituiva al cielo dopo averli aveva assorbiti per tutto il dì luminoso. Mentre osservavo la vasca che lanciava le gocce multicolori verso la luna e le stelle che il vento aveva scoperto sopra di me spingendo via la caligine, mi chiesi quale fosse il significato di quell’ultimo corso estivo nel luogo dove tanti anni prima avevo ritrovato la vita. Inoltre mi domandavo quale fosse il rapporto tra gli intensi amori mensili passati nelle estati trascorse in quella università e la relazione che avevo da quasi un anno oramai con la giovane collega del liceo bolognese.
Tutti gli incontri amorosi precedenti l’incontro con Ifigenia, anche quelli italiani poco significativi e quello della primavera di Praga bello ma soltanto settimanale, mi avevano indirizzato sulla strada dove avrei incontrato l’ultima amante, una via che, come tutte, aveva due direzioni: potevo percorrerla procedendo ancora, oppure camminare retrogrado fino a tornare sul trivio fatale dove avevo fatto la scelta sbagliata, quindi intraprendere l’altra strada cercando di progredire. Una via sulla quale il mio benessere dipendesse soprattutto da me.
La luce degli zampilli variava dandomi qualche indizio. Le gocce che sprizzavano rosse significavano la passione rovente che c’era stata per nove mesi tra me e la bella, sensuale ragazza; le stille azzurre volevano dire la tensione e l’altezza dei miei progetti indirizzati al cielo; le verdi la mia ostinata speranza che il nostro amore avrebbe rinnovato gli allori del tempo più bello per verdeggiare sempre, come l’alloro che mi avrebbe incoronato.
La splendidissima Ifigenia era l’obiettivo più concreto e reale fra i diversi bersagli che avevo centrato nell’ultimo decennio della mia vita. Eppure nel mese ancora in corso mi aveva inflitto una pena quasi continua non mantenendo l’impegno preso di mandarmi una lettera con la chiara espressione dei sentimenti suoi. Questi non mi erano chiari per niente e offuscavano, ingarbugliavano pure i miei. E pena su pena si era posata e colpo e contraccolpo tornando a ricordare il caro maestro di Alicarnasso.
Avvertenza: il blog contiene due note.
Bologna 27 dicembre 2025 ore 16, 10 giovanni ghiselli
p. s
Sono già 6 minuti di borsa di studio donata dal Sole risorto da poco tempo. La luce ci dice che è già primavera.
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