mercoledì 17 dicembre 2025

Ifigenia CXI. L’ultima serata prima del discidium. Un altro colpo di teatro della commediante integrale. Il piacere doloroso e depravato.


 

Dopo cena volevamo amoreggiare ancora prima di separarci per un periodo così lungo: un mese abbondante da passare in castità secondo i propositi per lo meno dichiarati. Però non sapevamo dove potessimo fare il massimo, dato che nella casetta dove alloggiava Ifigenia erano presenti altri due inquilini. La spiaggia era ancora frequentata dal popolo dei villeggianti. Camminavamo dunque lungo un viale alberato e fiancheggiato da alberghi con la smania di trovare un posto per l’ultimo concubitus della stagione, quando, ad un tratto, la giovane donna disse: “Aspetta un momento gianni: voglio chiedere a un mio amico se ci presta la camera”. Rimasi lì fermo. Non sapevo che cosa pensare di questo nuovo colpo di teatro della commediante integrale. La vidi correre verso un albergo, entrarci, e fermarsi a parlare al di là di una porta di vetro traslucido con un uomo biondastro, stempiato, sui trenta. Doveva essere il medico di cui mi aveva detto.

Pensavo: “strano che gli possa chiedere un talamo in prestito se non vi hanno giaciuto insieme, o per lo meno non c’è una grande confidenza  tra loro. Eppure diceva di averlo conosciuto solo alcune ore fa.

Del resto sarebbe ancora più strano che gli chiedesse la camera quasi in mia presenza e per fare l’amore con me, se fosse già il suo ganzo.

Probabilmente vuole ingelosire me con lui e lui con me.

Oppure gli promette di lasciarlo osservare noi due che facciamo l’amore attraverso una finestrella con vista scovata da loro, per rendere più piccanti le loro porcherie osservate da un altro.

 

Mi vennero in mente due contubernali italiani presenti a Debrecen nel 1971 i quali nel lasciarmi a disposizione la nostra camera a quattro letti  perché potessi  fare l’amore con Elena, poi mi pregarono di amoreggiare nel talamo di fronte alla porta, in modo che potessero osservarci a turno dal buco della serratura. Non dissi di no, siccome mi serviva la stanza, ma coprii la toppa appendendo un asciugamano alla maniglia.

Dopo mi diedero del Giuda e io mi scusai dicendo che era stata quella pia donna a premunirsi da ogni possibile spionaggio. Quei due bizzarri borsisti erano famigerati in tutto il collegio per le irruzioni nelle docce dove le ragazze russe si muovevano sotto lo scroscio. Appena li vedevano, le sovietiche pudibonde si coprivano le parti intime con le mano e gridavano come aquile. Dopo un paio di volte venne chiamata la polizia che ammanettò e rinchiuse per qualche ora quei bizzarri disturbatori dalle menti turbate.

 

Vedevo Ifigenia che continuava a parlare con il tipo dai pochi capelli biondi.

 Mi dicevo: “Non la capisco. Dopo centinaia di orgasmi, migliaia di pensieri sul suo conto e tante parole scambiate con lei non so chi sia questa giovane donna, né che cosa voglia da me. Né quanto posso aspettarmi da lei. Mi sto chiedendo da tempo se la sua bellezza mi sia ancora utile o mi danneggi portandomi soltando grandi pene.

Magari un giorno questa Sfinge troverà l’Edipo che risolverà enigmi troppo difficili per me. Oppure Dio, chiunque Egli sia, mi manderà un segno magari durante il mese di Debrecen”.

 Sarebbe andata proprio così, come vedrai lettore. Il segno sarà silenzioso ma significativo di tutto il male possibile.

 

Dopo una decina di minuti Ifigenia tornò, dicendo che la stanza le era stata negata perché già promessa a un altro.

“Quello è un lenone che subaffitta la cella fornicis ai clienti della povrnh, che lo mantiene”, pensai.

Noi due finimmo da un’affittacamere matta. Un altro luogo equivoco.

 Ifigenia  precisò di non esserci mai stata prima. Ne aveva solo sentito parlare. Questa scusa non richiesta riattizzò i sospetti, ma tacqui perché volevo fare una scorpacciata di sesso poi partire.

Facemmo l’amore diverse volte con gusto triste, un piacere doloroso e depravato  prava voluptas[1]. Alle tre della notte eravamo sazi e ci salutammo con una formula che avremmo continuato a usare sebbene già allora fosse discrepante rispetto ai fatti: “Ti amo. Fidati. Mi fido.”

Arrivai a Bologna che era già quasi l’aurora. Non sapevo che cosa sarebbe accaduto. “Lascia fare al destino- mi dissi- il futuro verrà- to; mevllon h[xei[2]- e parlerà svelando ogni latenza”.

 

Bologna 17 dicembre  2025 ore 10, 11. giovanni ghiselli.

p. s.

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[1] Et fit infelicis animi prava voluptas dolor” (Seneca, Ad Marciam de consolatione, I, 7)

 

 

[2] Eschilo, Agamennone, 1240.


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