giovedì 18 dicembre 2025

Ifigenia CXVI . La prima lezione dell’estate 1979. Due tipi opposti di insegnamento.


 

Il giorno seguente, 26 luglio, andai alla prima lezione di ungherese del corso 1979. Insegnava la lingua magiara alla classe dalla conoscenza “progredita” una cattiva insegnante che nessuno ascoltava.

Che cosa è una cattiva insegnante? E’ una persona cattiva: impreparata, incolta, egoista: è tale che non sa interessare gli allievi siccome non prova interesse per loro, non li capisce e non è in grado di praticare la terapia del rovesciamento mettendosi nei loro panni.

A parte l’università estiva di vacanza-studio, nei licei italiani i classici greci e latini si possono insegnare in modo da farli amare o, viceversa, da renderli odiosi: gli stessi autori dagli stessi ragazzi. Per renderli amabili è necessario conoscerli: averli letti, capiti e amati; poi bisogna ricordarli con precisione,  riferirli e citarne le parole più belle con forza,  vivacità,  entusiasmo.  Chi ha capito gli ottimi autori greci e latini ha trovato in loro qualcosa della propria vita con i suoi problemi, i dubbi, il dolori, le gioie.

Un riassunto ben fatto di un testo è la base di una lezione buona, cioè interessante e stimolante. Bisogna spiegare l’opera di un autore con l’opera stessa, poi con le altre opere dello stesso autore, e con gli scritti di altri autori precedenti utilizzati da quello in questione, quindi con gli scritti successivi che risentono del testo da presentare a una  classe di ragazzi o a un pubblico adulto. Un lavoro enorme, molto difficile a farsi come si deve. Non è facile nemmeno dirsi.

Ma passando tanto tempo a studiare, ci si può avvicinare a una bella lezione. Nelle scuole di questo nostro paese confuso pochi sono gli insegnanti che passano gran parte della giornata sui libri. I più rendono falso il loro lavoro riferendo o addirittura leggendo in classe le parole generiche dei manuali. O perfino cianciando di nulla.  

 Non  citano le frasi meravigliose che  stupiscono, colpiscono la sfera emotiva e suscitano pensieri.   

Gli studenti si annoiano e non ascoltano il cattivo docente che non li entusiasma con il suo amore per quello che insegna. Capiscono che tali professori non si sono adoperati per loro, non hanno studiato le opere dell' autore, o non le hanno capite. In ogni caso non le hanno assimilate e non hanno nulla di buono da offrire alla  crescita di chi li ascolta.

Capiscono che all’insegnante non interessa il suo lavoro, né i suoi studenti.

Appunto per questo motivo non ascoltavamo la pessima professoressa di Debrecen: avrebbe dovuto conoscere la lingua italiana o l’inglese ricco di termini neolatini o una lingua neolatina per insegnare agli Italiani l’idioma magiaro che non è indoeuropeo. In anni precedenti avevo trovato insegnanti anche ottimi. Una in particolare che insegnava parlando in francese che non ho mai studiato ma capivo quasi tutto poiché era talmente desiderosa e capace di farsi comprendere che riusciva a comunicarmi quanto voleva. Anche la simpatia personale che allora era piuttosto diffusa tra le persone. Ma gli anni Settanta stavano finendo e la decadenza infuriava.

Nelle ore di quella docente noiosa dunque, dalle otto alle undici e trenta, non senza un breve intervallo, leggevo e scrivevo, poiché a mio parere non è doveroso ascoltare chi non rispetta gli uditori parlando senza una preparazione decente.

Leggevo la storia romana del Mommsen e scrivevo a Ifigenia. Rievocavo gli intervalli radiosi nel nostro liceo, quando noi due, innamorati, fieri di come eravamo, al suono che annunciava la pausa breve, uscivamo trionfalmente dalle aule cupe e ci incontravamo nel corridoio tetro, irradiandolo con la nostra felicità; poi facevamo le scale per recarci alla macchina delle bibite  dove prendevamo il caffè, guardandoci negli occhi con desiderio reciproco, con stima, con gioia sicura, e con l’orgoglio di essere una coppia bella, fine, bene assortita e rara. La pausa lunga delle 11 ci consentiva un idillio più sfacciato fuori dall’edificio scolastico.

Eravamo felici nella certezza di essere gli amanti più luminosi, intelligenti e innamorati del mondo. In quel tempo ne eravamo convinti. Ifigenia, dopo avere bevuto il caffè, allungava le braccia all’indietro e, facendo così, protendeva il seno giovane verso di me, nel suo tipico gesto di fervida oblazione gioiosa: io la guardavo con desiderio, con tenerezza, con ammirazione, e con la volontà di aiutarla a divenire un’ottima docente e una donna di grande formato. Ero felice di esserle maestro e pure allievo suo, oltre che  compagno di vita. Insieme saremmo diventati bravi dicitori di parole e ottimi operatori di fatti. Fu un’illusione, ma, almeno per me, è stata un’illusione benefica. Ancora adesso, passati tanti decenni quando tu, signorinella, sei diventata cenere, credo che la chimera incarnata da te mi abbia aiutato e reso migliore. Poiché i dolori sono passati lasciando l’intelligenza dei miei e di quelli degli altri, mentre la gioia è rimasta nel fondo dell’anima dove continua a generare splendidi fiori, a produrre ottimi frutti. Le parole che dico e che scrivo, per esempio.

A Debrecen, nell’estate del ’79, dunque ricordavo, e rimpiangevo già, quei giorni felici dei mesi passati. Li ho ancora nella memoria, e grazie a Dio, me ne vengono in mente diversi altri non meno belli. I giorni del mese offerto da Elena. I più belli di tutti. I più educativi. Era ancora l’età dell’oro nella mia vita e in quella di tanti giovani europei.

 Nella caserma, quando non si fa niente, negli ospedali in attesa di responsi fatali o dell’operazione che ci squarcerà, o anche in casa quando si è stanchi e  soli del tutto, e per farci un poco di compagnia ci guardiamo nello specchio magari scambiando un sorriso con il volto riflesso, o per incoraggiarci un poco stringiamo la mano sinistra con la destra, sono sempre siffatti i ricordi che aiutano a procedere: memorie ridenti dei volti che spargevano e riverberavano luce amorosa. Nell’incontro i due amanti annullano tutte le  tribolazioni della breve esistenza umana: i loro difetti, l’invidia degli altri, i morbi probabili, l’inesorabile ictus finale, il colpo definitivo dell’exitus senza reditus,  negato per sempre dalla sentenza inappellabile e inesorabile.

 In quei momenti di felicità gli innamorati salgono insieme in un regione elisia, sempre soleggiata e fiorita, dove non arrivano le offese del tempo, delle persone cattive, della vecchiaia tremenda, né il decadimento con l’affiochirsi della fiamma vitale, né la caduta nell’abisso finale. Poi l'incanto svanisce, ma non c'è disincanto sufficiente a ottenebrare quella luce di gioia , a fare appassire quei fiori e marcire quei frutti. E così sia.

Bologna 18 dicembre 2025 ore 19, 22  giovanni ghiselli.

p. s

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