Nel 1972 ero rimasto a Debrecen fino al 21 agosto per vedere il carnevale dei fiori e passare altre due notti con Kaisa nel collegio dove, partiti diversi altri, ero riuscito a procurarmi una camera tutta per me, cioè per noi due.
“Qual rugiada o qual pianto,
quai lagrime eran quelle?”
Erano lacrime di gioia, di purissima gioia.
Quelle notti furono tra le più belle della mia vita mortale e pure di Kaisa. Ricordi anche tu nonostante la grande carriera che hai fatto in mezzo ai professoroni accigliati? Penso di sì. Anzi, a maggior ragioni ricorderai i nostri spassi. Dopo ci furono altre donne per me , non migliaia, no purtroppo, nemmeno centinaia , però diverse decine sì, e conobbi meravigliosamente anche loro.
Tuttavia notti tanto allegre quanto quelle con Kaisa non le ho più vissute. Non facevamo calcoli. Presto, prestissimo anzi, sarebbe finito tutto il vissuto insieme e potevamo carpere noctes senza preoccupazioni.
Dicesti poche parole risolutive: “tornerò da mio marito. Tu sei stato un ottimo amante nella nostra meravigliosa vacanza; ma come sposo in casa non ti ci vedo”.
“Io nemmeno- risposi- sei stata la più acuta e colta tra le mie donne”.
Nel 1979, invece, già il 17 sera volevo cambiare aria: pur senza anticipare il ritorno a Bologna però. Questo infatti poteva significare sottomissione al volere prepotente e insidioso della donna oramai più odiata e disprezzata che amata. Calcolava e mi costringeva a calcolare. Sono sempre stato ostile ai numeri e refrattario a studiarli, a considerarli.
Pur di non fare i conti pregavo altri di farli, poi imparavo i risultati a memoria. Non ricordo più niente di quell’apprendimento brutale. Invece mi tornano in mente i versi di poeti letti alle elementari e non più rivisitati. Questo per dire che non dobbiamo forzarci e sottometterci allo studio di ciò che non ci piace poiché non ne abbiamo la memoria genetica. Conoscere è ricordare. L’ho appreso dal Menone di Platone e l’ho verificato. Ne sono sicuro. Il greco e il latino li ho sempre avuti dentro di me, fin dalla nascita. Ci fu un Martelli di Sansepolcro a ricevere allori come letterato di valore nell’Ottocento.
Uscìi dall’ ufficio postale e trassi conforto dalla luce del sole, dai colori che suscitava in tutto quanto vedevo, ma continuava a rodermi e infettarmi il germe patogeno dei dubbi che quella donna equivoca seguitava a gettarmi nel cervello e nel cuore da un mese. Mai un momento ci chiarezza, mai l’ anima in pace durante tutti quei giorni. Solo qualche sprazzo di gioia precaria, fasulla e forzata. Mia sorella diceva che mi hanno sempre attirato le donne cattive. Probabilmente perché da loro ho imparato a sviluppare lo spirito critico e a procurarmi i mezzi per la difesa dalla malvagità diffusa negli ambienti che ho frequentato. Il più bello e sano è stato l’Università estiva di Debrecen tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. L’Europa allora funzionava bene.
La mia volontà di rimanere il più possibile a fruire della borsa di studio non era motivata tanto dal desiderio di rivedere i luoghi sacri dei miei amori passati da tempo, quanto dalla necessità di non sottomettermi al volere di quella donna cattiva, prigioniera del maligno. Complice del diavolo ero anche io se restavo vicino a tale satanessa .
Eppure mentre passeggiavo nella via principale, il corso di Debrecen tra l’Aranybika e l’Hungaria pensavo che oramai quella femmina infernale era dentro di me, come i ricordi suscitati da ogni pietra della cittadina universitaria ungherese. Tutto il mio passato di crescita dal luglio del 1966 era impresso in quegli edifici, mentre il futuro non dava preavvisi lieti. Preferivo volgere lo sguardo indietro che indagare sul tempo a venire gravido di minacce piuttosto che di promesse. Mi sentivo sul collo di nuovo il fiato del caos che mi aveva invaso dopo la fine del liceo fino a deformare la mia identità.
Quando percorsi per la prima volta quella via principale era il 15 luglio del 1966, verso sera. Nell’ora del crepuscolo vespertino era l’oscurità a essere attiva: mi invadeva e inquietava.
La tenebra mi fissava con mille occhi non buoni. Dovevo inserire i mostri della notte in un progetto di ordine: armonizzare e cosmizzare il caos che sentivo dentro di me e temevo più di quello esterno. Nel 1979 non ero così spaventato e smarrito perché sapevo che cosa mi rattristava: una donna che non si confaceva a me, al mio carattere, alla mia sensibilità, alla mia educazione. Dovevo trovare la forza di fare a meno di quel corpo splendido, cornice oggi, e domani guscio di un’anima torbida. I concubitus goduti a centinaia nell’ultimo anno non dovevano diventare ceppi infrangibili né lacci inestricabili. Dovevo anche cambiare la mia posizione nella scuola: insegnare al ginnasio non era il mio mestiere. Avevo già smarrito la mia identità dopo il liceo pesarese: se avessi ripetuto l’errore, la seconda volta essa sarebbe stata perduta per sempre e io sarei finito male, molto male.
Il mezzogiorno era passato. Iniziava l’ultimo pomeriggio. Andai nella piscina. C’erano tante farfalle che svolazzavano sui fiori umidi dei prati frapposti alle vasche. Il sole calante e ombreggiato non poteva più asciugarli. L’autunno era vicino sicché la primavera non era troppo lontana, né quella semigioiosa passata, né la futura quando tutto sarebbe già stato chiarito. Mi venne in mente che tre giorni dopo, il 20 agosto, a Debrecen ci sarebbe stato il carnevale dei fiori. Kukka karnevali dicevano le finlandesi nella loro lingua dolce, dai suoni infantili; kukka karnevali illalla debrecenissa, carnevale dei fiori, di sera a Debrecen.
Prima dell’ultima cena andai a correre i 5000 metri per l’ultima volta. Volevo migliorare il tempo precedente. Gianni agonista neppure quella sera finale poteva sfuggire alle prove. Il mio agonismo, sebbene talora abbia avuto una componente mistica, non è mai stato folle. L’ho quasi sempre messo in rapporto con un qualche fine ragionevole: sopra tutti il rafforzamento dello spirito e quello del corpo. Poi primeggiare. Mai l’ho praticato per mortificarmi. La mia ascesi è quella pagana
“Se batto il record, mi dissi, la relazione con Ifigenia seguita, altrimenti finisce. Generalmente tale prova funziona siccome una donna, se mi piace davvero, accresce le mie energie mentre la penso e agisco per lei.
Quando in terza media pensavo a Marisa, la coetanea, compagna di istituto e rivale scolastica, vincevo tutte le gare ciclistiche sulla panoramica di Pesaro.
Vedrò se questa femmina di ventisei anni può infondermi altra forza. Nel caso, ella meriterà un contraccambio di impegno e pure di sacrifici. Per una che tutto sommato accresce la mia potenza, vale la pena affrontare prove anche tremende. Non è Nemesi soffrire per tali vittorie, davvero olimpiche”.
Dunque passai in collegio a prendere le scarpe per correre, poi andai allo stadio situato mezzo chilometro a ovest dei collegi. Il sole purpureo era vicino a tramontare: stava in bilico sopra lo spigolo sinistro della casa bianca posta dietro la pista, prossimo già a cadere nella terra scura dove si sarebbe inumato senza morire. Aspettavo di dargli la buona notte come faccio ogni sera. L’aria era calma. Feci egregiamente la corsa. “Questa è la spinta o il risucchio di Ifigenia”, pensai con la testa sconvolta dalla fatica. Avrei potuto fare anche meglio: scendere sotto i 18 minuti e 30 secondi se poco prima della linea di arrivo non fossi stato costretto due volte ad allungare il percorso per schivare una ragazzina e la palla rossa con la quale giocava.
“Gettando una palla purpurea-ricordai il simpatico Anacreonte- Eros chiomadoro mi sfida ancora a giocare con una fanciulla dal sandalo screziato”[1].
Non mi fermai a giocare ovviamente, però pensai che qualcuno o qualcuna potesse ritardarmi la corsa.
Era comunque un segno del destino. I segni non sono mai vani, né completamente oscuri: a saperli osservare con intelligenza ci danno avvertimenti preziosi. Ce li manda Dio, chiunque egli sia. In ogni caso quello che spetta al destino, anche se è preannunciato, non è possibile evitarlo: “quae fato manent, quamvis significata, non vitantur”[2]. Del resto il significato di questo segno assai complicato non mi era chiaro. Sarebbe stato chiarito dai fatti.
Avvertenza. il blog contiene 2 note e il greco non traslitterato.
Note
111 Anacreonte: “sfaivrh/ dhu\tev me porfurevh/
bavllwn crusokovmh" [Erw"
nhvni poikilosambavlw/
sumpaivzein prokalei`tai”(Anacreonte fr. 5 D. vv. 1-4)
112Tacito Historiae, I, 18.
Bologna 27 dicembre 2025 ore 19, 06 giovanni ghiselli
Ha senso continuare a scrivere, a correggere, a migliorare?
Ne ha finché vengo letto. Senza contare che correggendo le mie parole correggo me stesso. Forse devo arrivare a 2 milioni di lettori prima che un grande editore reputi conveniente pubblicarmi. Un altro piccolo editore non mi va bene. So quello che voglio e che devo a me stesso.
Ancora alcuni versi di Anacreonte
“Della dolce vita non mi rimane più molto tempo
perciò singhiozzo spesso temendo il Tartaro.
L’Ade infatti è un fondo spaventoso e la discesa laggiù
è tremenda ed è sicuro per chi è disceso che non risalga”.
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[1] “sfaivrh/ dhu\tev me porfurevh/
bavllwn crusokovmh" [Erw"
nhvni poikilosambavlw/
sumpaivzein prokalei`tai”(Anacreonte fr. 5 D. vv. 1-4)
[2] Tacito Historiae, I, 18.
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