Talora succede, quando voglio scrivere di altro che un forte risucchio, del mio passato o del fato stesso, mi riporti a Debrecen, a quell’estate quando preparavo il futuro impiegando la mia mente come ventre di donna, perché nascesse qualche cosa di nuovo, attraverso il pensiero fecondatore.
Di mettere al mondo un figlio di carne con la malsicura compagna che avevo non era il caso. Il compito era un altro: assecondare il demone mio, il destino stesso, dargli quanto gli dovevo con disciplina e con fatica, magari una fatica gioiosa, altrimenti sarei rimasto un guscio vuoto, uno spettro sia pure abbronzato, un’ esteriorità priva di significati profondi.
Ora che sono vecchio mi ritrovo a scrutare il passato, cercandovi prefigurazioni del presente attuale e del futuro possibile in modo da formare una visione coerente, un’immagine non confusa, tale che giustifichi la mia esistenza riconoscendole un senso o per lo meno un verso, un metodo, una via.
Gesù disse: “ejgw; eijmi hJ ojdo;~ kai; hJ ajlhvqeia kai; hj zwhv” (14, 6), io sono la via e la verità e la vita. Vorrei che la mia vita prima di essere finita fosse perfecta, cioè compiuta nel senso che avessi compiuto bene il mio compito.
Quando affondiamo le radici nel tempo, carichiamo la nostra vita di segni e di simboli. Applico alla mia esistenza il metodo comparativo delle mie ricerche studiose
Quel giorno dunque facevo raffronti con le tre finlandesi del mio passato amoroso e pensavo che dopo di loro non avevo più incontrato donne tanto fini, espressive, ricche di senso negli sguardi e nelle parole piene di coscienza, cultura, serietà e pure di ironia intelligente. Helena dal seno profondo, dalle bianche braccia, era bruna, bella e sicura di sé, in un certo senso maestosa; Kaisa dagli occhi azzurri, era piccola e bella, colta e appassionata; Päivi era splendidamente chiomata di rosso, istruita, e decisa. Poi si rivelò una bipede leonessa furente.
Ciascuna di loro significava anche senza parlare. Quando dicevano parole semplici, chiare e pure ornate, ognuna di queste aggiungeva un’idea e faceva pensare. Perdute loro, prima di Ifigenia avevo trovato misere cose, gusci vuoti appunto e avevo rischiato di svuotarmi anche io di ogni sostanza buona. L’involucro di Ifigenia era ancora chiuso. Dentro poteva trovarsi muffa o gheriglio.
Verso sera, sazio di ricordi e pensieri, andai a correre i 5000 metri allo stadio, pregando il dio sole al tramonto di farmi capire qualcosa.
Mi chiedevo se l’ultima amante che non scriveva lettere, non telegrafava, talora si faceva negare , pensasse purtuttavia che il nostro rapporto era favorevole allo sviluppo di entrambi, che la disciplina, la tenacia, il metodo mio potevano darle un ritmo, segnare una via ai suoi impulsi forti, però intermittenti, sporadicamente anche geniali ma poco chiari e quasi sempre privi di uno scopo adeguato alle sue capacità.
Tentavo la prova dei cinque chilometri in meno di venti minuti.
Correvo impiegando gran parte della mia lena. Il respiro si affrettava e
aggiungeva lucidità alla mente. Già dopo il primo chilometro percorso in 3 minuti e 55, pensavo che quanto stavo facendo in quella vacanza estiva a quasi trentacinque anni era parte del culto dovuto a me stesso se volevo piacere alla vita che mi piaceva assai, più di ogni cosa, e a sua volta mi invitava ad amarla con magnifiche provocazioni. Correvo metodicamente, leggevo, non perdevo tempo con persone insipide, insignificanti. Volevo potenziarmi nel corpo e nella mente. Dovevo coltivare dentro di me il seme vitale, farlo crescere.
Ifigenia non era una donna della mia levatura ma poteva essere un gradino per raggiungere tale femmina umana. Elena era siffatta.
La osservavo con riverenza religiosa mentre mi irradiava con la luce della maternità dei suoi occhi di ragazza madre felice della sua creatura e di me.
Questo ricordavo correndo. Intanto l’amabile, eroica luce dell’infaticabile dio dal volto radioso illuminava la sera. A metà percorso mi domandai dove volevo arrivare. Una volta Ifigenia, che mi aveva osservato compiaciuta mentre correvo, disse che avevo l’aria di inseguire l’immortalità. No, non volevo diventare un dio, non potevo, ma un educatore di grande formato sì, un suscitatore di energie mentali e morali nei ragazzi, talora bellicosi, maneschi, disordinati, e nelle ragazze più sensibili, intricate e riflessive. Più simili a me tutto sommato.
Una volta Claudio disse “gianni non è un uomo bensì una donna: ha la sensibilità delicata e morbosa di una femmina”. Gli chiesi come mai allora mi piacessero tanto le donne. “Che ne so-fece lui- sarai lesbica!”.
Un altro, un burlone pesarese ha sempre sostenuto che quando eravamo piccoli e si giocava insieme io ero una bambina, poi mia madre mi aveva fatto operare perché voleva un maschio. Il mattacchione del resto riconosceva del resto che l’operazione non era riuscita male. Si vedeva da come urinavo. Non mi dispiace che mi si dia del similfemmina. Detto da una donna è un complimento funzionale alla seduzione “Sei sensibile come noi, e racconti i tuoi sentimenti, come facciamo noi donne”, dicono.
Io allora colgo l’occasione e con atto femminile dico: “sì è vero, mi sento tanto simile a te: siamo già una mens, caro una!”.
A Claudio replicai cit
ando Empedocle di Agrigento: “Sono stato ragazzo e ragazza, kou`ro~ te kovrh e virgulto, e uccello e squamoso pesce del mare”[1].
“Battuta da femmina intellettuale”, replicò l’amico, “la più insopportabile di tutte”. Mi venne in mente Ippolito: “sofh;n de; misw`”[2] , la saccente la odio.
La strenua e devota danza in onore del dio al tramonto era intanto arrivata a metà in meno di dieci minuti.
Compiuta la santa fatica in 19 e 35 secondi, mi fermai a osservare l’annidarsi del sole, posticipando la cena. Un sacrificio santo anche questo. La volontà della vita snella fa parte della mia effeminatezza anche se dico che voglio una vita da torero.
Nella mensa, dopo le otto, non si poteva mangiare e lo sfrigolio delle padelle mi interessava assai meno della visione del nume che tramontava corrusco di luce vermiglia. Il dio, il primo tra tutti gli dèi invero, l’avevo già notato e pregato durante la corsa nel rettilineo rivolto a occidente. Nei vari momenti brillava tra i rami o baluginava in mezzo alle foglie, quasi strizzandomi gli occhi e incoraggiandomi a diventare sempre più forte, più leale e generoso, come deve essere un uomo.
Concluso il compito che dovevo a me stesso e al dio che ci dona la vita, lo osservavo dai gradini di pietra elevati sopra il rettilineo opposto alla casetta del tennis, quella dove un tempo si andava a ballare la sera come ho già raccontato.
Il sole stava sulla mia destra, più alto di come lo vedevo dalla pista, correndo. Era in bilico sopra uno spigolo di una casa cubica, bianca, situata al confine della città, dove questa si affaccia sulla pianura occidentale. Sembrava una palla rossa vicina a cadere. “Anche Ifigenia-pensai- la ragazza che avevo creduto semidivina è pencolante. Probabilmente, formosa com’è, cadrà stesa nel letto di un uomo o di un satiro ebbro o di Fauno che rincorre le Ninfe. Ognuno di questi le prometterà più di quanto ho potuto e voluto fare io. Saranno facilmente promesse fallaci e lei ci cascherà, senza alcuna certezza di resurrezione”.
Il sole intanto si era posato sui rami, come un uccello dalle membra rotonde.
Lo pregai di salvare la relazione, se valeva ancora la pena che continuasse mezza sconciata com’era, e in ogni modo di tutelare la mia identità di asceta pagano, di atleta che vuole percorrere metodicamente la strada in salita della virtù, e lo supplicavo di aiutarmi a schivare la via opposta, quella enorme e precipitosa del vizio che lusinga e attira le menti erranti senza criterio alcuno del male e del bene.
“Facilis descensus Averno” ripetei ancora una volta e ora lo faccio di nuovo. E’ un avvertimento che devo anche a voi che mi leggete.
“Luminoso signore del mondo-conclusi-santa faccia di luce, mente dell’universo, proteggi la mia compagna in pericolo. Fai che non perda la sua dignità, che non si butti via. Ci vediamo domani mattina”.
Il grande dio sparì senza dare risposta.
Verso le 10 andai a mangiare un boccone all’Aranybika.
Ascoltavo le danze ungheresi di Brahms e confrontavo l’arte della parola, cui volevo arrivare, con quella della musica che mi invadeva l’anima suscitando ricordi.
Ricordai non solo le estati passate ma anche il dialogo Ione dove avevo letto che la Musa ispiratrice non si ferma al poeta, bensì passa da lui agli ascoltatori, quindi si forma quella catena degli entusiasti di cui parla Socrate nel dialogo platonico: la Musa rende ispirati i poeti , poi a questi si attacca una catena di altri entusiasti ("dia; de; tw'n ejnqevwn touvtwn a[llwn ejnqousiazovntwn oJrmaqo;" ejxarta'tai", 533e).
Infatti i poeti epici, quelli buoni essendo invasati e posseduti dal dio (" e[nqeoi o[nte" kai; katecovmenoi"), compongono questi poemi belli, e i poeti lirici, quelli buoni, parimenti.
Il mio romanzo doveva essere un grande epos comprendente l’amore, la scuola, la politica e i costumi della mia generazione. La catena dei posseduti dalla Musa avrebbe avuto quali anelli lettori di ogni parte d’Europa, forse addirittura del modo.
Avvertenza: il blog contiene due note e il greco non traslitterato.
Bologna 21 dicembre 2025 ore 9 giovanni ghiselli
p. s.
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