A un tratto mi venne in mente una fantasticheria del dicembre del ’68 lontano: avevo 24 anni, scrivevo dalla mattina a tarda notte, senza vedere nessuno, per finire la tesi di laurea e consegnarla prima dello scadere del termine ultimo, prossimo assai, al segretario iracondo della mia facoltà. Un buon uomo del resto.
Dal primo settembre avevo lavorato continuamente, senza concedermi una mezza giornata di pausa.
Il 24 luglio del 1979 dunque, percorrendo all’indietro il fiume del tempo, dello scorrere del sangue e dei sentimenti miei, mi tornò davanti quella notte remota.
Ero a Bologna in una stanza di una casa vecchia e non tanto calda, in via del Borgo.
Mi ero coricato da poco: fissavo il soffitto segnato da una striscia di luce giallognola che veniva dalla strada e penetrava attraverso scuri soltanto accostati. Quel giorno della mia vita mortale avevo scritto parecchie pagine dalla mattina presto a mezzanotte, quasi senza intervallo, e, prima di riprendere a lavorare con lena, avrei dovuto dormire, ma non oltre le sette.
Dovevo terminare la tesi, sulla poesia ungherese del Novecento, e consegnarla non più tardi del 5 febbraio; scrivevo da tre mesi ed ero arrivato appena a metà. Volevo dormire, però la paura angosciosa di non compiere il grande lavoro che doveva arrivare a seicento pagine dattiloscritte, non mi lasciava prendere sonno.
Allora decisi di non cercare l’assopimento e di intrattenere pensieri confortevoli: rinnovellare mentalmente le più belle esperienze della mia vita. Rammentavo le assemblèe studentesche della primavera precedente, i discorsi politici che reclamavano giustizia, uguaglianza, solidarietà tra gli umani; ricordavo Helena Schejbalova di Praga la ragazza vispa e carina che mi aveva sdoganato quale lepido vezzeggiatore nell’estate del 1967,
poi accolto nelle notti della primavera successiva durante le vacanze di Pasqua; ripensavo alle due estati già passate in Ungheria, al grande bosco di Debrecen, alle feste nella Nyári Egyetem, alla bionda finnica Eeva Vuortama quando mi portò una rosa la sera dell’ addio, alla grande fontana antistante la bella facciata dell’Università estiva che si specchia nell’acqua multicolore quando schizzano gli zampilli variopinti dalle fonti vivaci intorno alla vasca, e si accendono le tante finestre del maestoso edificio di stile imperial-regio insieme con le stelle del cielo sereno, rosso, poi azzurro dopo il tramonto del sole.
Con questi ricordi mi consolavo della vita dura e deserta che menavo da mesi. Quindi facevo progetti: dopo la laurea avrei cominciato a insegnare, allora bastava volerlo, magari spostandomi verso nord est, poi, in luglio, proseguendo a oriente, sarei tornato a Debrecen, sarei andato alla festa della conoscenza e a quella del Rettore, quindi mi sarei seduto su una delle panchine di pietra inserite nelle nicchie della facciata dell’Università estiva.
Avrei aspettato il passaggio delle ragazze che uscivano dalle feste tenute nel grande salone. Immaginavo che tra quelle studentesse carine ci fosse una ragazza italiana bella e intelligente, una sul tipo di una fascinosa bionda che avevo sentito parlare con eleganza in primavera dentro l’Università di Bologna occupata da noi studenti. Dadi si chiamava quella ragazza: aveva un dente un po’ fuori posto eppure era bella, espressiva, luminosa: brillava di un fuoco interiore, aveva lunghi capelli, era ben fatta, allettante, armoniosa come una dea, chiara nella pelle liscissima, e aveva occhi d’oro brunito dolci e vivaci. Ebbene, se quella creatura perfetta mi fosse passata accanto lì a Debrecen, dove Eros faceva incontrare ragazze e ragazzi perché si amassero senza timori né ritrosie superstiziose o calcolate, l’avrei chiamata e se non mi avesse sentito, l’avrei inseguita. Le avrei chiesto di stare con me, di mettere al mondo una bambina con me. Il sogno della figlia mi commuove ancora a ottantuno anni un mese e tre giorni.
Ho sempre desiderato una figlia da quando educavo mia sorella Margherita, la “citta” che aveva quattro anni due mesi e due giorni meno di me.
Tali progetti facevo nella desolazione semifredda della stanzetta dove vivevo, da anacoreta, gli ultimi giorni della mia vita universitaria bolognese.
Dopo tale fantasticheria della fine del ’68, ero andato avanti altri dieci anni con il metodo degli amori estivi per le finlandesi estive di Debrecen e delle relazioni poco impegnative con donne spesso insignificanti in Italia, senza impiegare il cuore e la mente con le colleghe che incontravo nell’ambiente del lavoro iniziato nell’ottobre del 1969. Tra queste non ne avevo mai visto una della levatura di Marisa, la ragazzina coetanea che era stata l’idolo mio quando avevamo tredici anni ed eravamo rispettivamente la femmina e il maschio più bravi della scuola media Lucio Accio di Pesaro.
Le giovani colleghe di Carmignano cercavano un fidanzamento santificato dai genitori e comandato da Dio chiunque egli fosse. Ostentavo povertà perché mon mi considerassero sposabile.
Nessuna di loro mi piaceva quanto Marisa né quanto Dadi. Non erano fatte per me. Comunque ero libero e volevo rimanere tale.
Nell’autunno del ’78 però avevo smesso di procedere metodicamente per la strada degli amori mensili, innamorandomi di Ifigenia, una collega bruna bruna. Sposata invero. Con le sposate mi sentivo abbastanza libero da tempo.
Orbene, il 24 luglio del ’79, mentre ero seduto sulla panchina a ricordare, vidi passare l’aurichiomata tedesca che, se non altro per i capelli e i colori, poteva ricordarmi la Dadi della fantasticheria. La giovane donna si accorse di me, si voltò e mi salutò con un sorriso. Per un momento sentìi l’impulso, quasi il riflesso condizionato, di avvicinarmi e proporle una gita a Hortobágy oppure una cena all’Aranybika. Pensai che molto mi sarebbe stato perdonato se avessi amato molto, ricominciando con quest’altra straniera che mi aveva fatto tornare in mente la Dadi agognata undici anni prima e mi allettava.
Avvertenza: il blog contiene 2 note e il greco non traslitterato.
Bologna 17 dicembre maggio 2025 ore 20, 22 giovanni ghiselli
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