giovedì 18 dicembre 2025

Ifigenia CXIV. La rinuncia del pazzo rivalutato da quanto scrive.

Fino alle 10 di sera  dunque  passai le ore del 25 luglio in funzione della scuola e dell’amante italiana, studiando, correndo, nuotando, abbronzandomi e salmodiando  Osanna piuttosto che gridare Evoè e danzare con Dioniso in mezzo alle menadi dai capelli fluttuanti nel vento.

Suonata la ventiduesima ora del giorno, decisi di uscire con l’intenzione non equivoca di andare all’Aranybika per bere un bicchiere di vino, uno solo. Poi sarei tornato e avrei studiato fino all’una di notte. Dopo avere gioito innocentemente del “Sangue di toro di Eger”, avrei versato altro sangue mio nell’impegno  dello studio e della scrittura, sempre sperando che  mi apparisse l’immagine di Ifigenia la bella, la buona, la santa.

 

 La mia follia era quasi completa.

 

Mi incamminai dunque tacito e senza compagnia lungo la strada compresa tra il prato dove attendevo Helena, Kaisa,  Päivi, a destra, e, sulla sinistra il collegio degli incontri  più antichi[1].

 Tredici anni erano già passati dalla prima volta nell’Università di Debrecen  e stavo vivendo un’ascesi  da anacoreta pazzo, frenato dal demone del perbenismo sessuale piuttosto che scatenato in una prassi da asceta pagano, amante dei classici greci e latini. E delle donne.

Sul prato c’erano diversi giovani: tra gli altri la bionda ninfa salutata la sera precedente.  Quando mi vide passare, si separò dal gruppo, mi raggiunse e mi chiese se volevo andare a bere del vino con lei.

Rimasi un attimo incerto, ci pensai un momento e decisi che non dovevo superare la giusta misura: quel giorno infatti non avevo sacrificato un ariete e una pecora nera come fece Odisseo per vitalizzare con il loro sangue le teste svigorite dei morti[2], bensì avevo impiegato diverse ore del tempo della mia gioventù estrema a un idolo che probabilmente non era santo.

Dopo  le tante  ore di studio, di corse, nuotate,  riflessioni, sempre da solo, mi ero conquistato il diritto di concedermi un poco di compagnia, di svago, di deconcentrazione da me stesso, da Ifigenia e dal nostro rapporto non garantito.

Si apriva uno spiraglio per l’ equivocazione gesuitica.

Ma si richiuse presto per colpa mia. Una colpa dell’intelligenza, un errore erotico, efferato quasi quanto un crimine. Non c’è cosa più amara della stupidità. Invero fu  il destino a rendermi fedele a sproposito perché  voleva il seguito e la conclusione della storia di Ifigenia corredata da tanto dolore e qualche sprazzo di gioia, come vedrete.

 Pensai, senza sbagliarmi, che la bionda belloccia non doveva essere una persona triviale, se non altro per il fatto che aveva visto qualche cosa di strano-a[topon- di  buono e forse perfino di bello, nella mia persona non ordinaria. Anche Ifigenia del resto aveva detto che, salva la fedeltà dovuta e promessa, la sera sarebbe uscita in compagnia se avesse incontrato persone interessanti. Neppure lei sdegnava il vino, vero “equivocator with lechery[3].

La bionda che mi aveva invitato  si chiamava Silvia, si chiama ancora così se sopravvive non solo nel mio ricordo, aveva venticinque anni, era tedesca, di Berlino est, ma da tempo viveva e lavorava quale interprete e traduttrice a Budapest dove si era sposata e poi separata da un certo Virág del quale comunque conservava il cognome poiché le piaceva.

Virág è una parola ungherese che significa “fiore”.

“Virág, fiore, Bloom, come l’Ulisse ebreo ungherese irlandesizzato di Joyce”, pensò subito la mia mente avvezza a vedere le persone, le cose e il mondo intero nella lunga prospettiva o piuttosto retrospettiva formata dalle letture dei classici antichi e moderni.

La vita imita l’arte. La vita è allieva dell’arte, avevo imparato da uno dei miei maestri, Oscar Wilde.

Forse quella Silvia tentatrice mi avrebbe suggerito delle corrispondenze tra quanto di bello ricordavo dalle mie letture e quello che potevamo fare di elegante e piacevole io e lei in un rapidissimo mese della nostra effimera vita mortale.

 Intanto ci avviammo verso l’Obester, un borozó o vineria, insomma una bettola simpatica, antica d’aspetto: una specie di grotta adibita a cantina dove si potevano bere diversi vini ungheresi, compreso l’egribikavér che sapeva di situazioni belle: mi faceva tornare in mente le finniche mie amanti e amate quanto nessuna dopo di loro.

Mentre ricordavo quegli aromi e guardavo la bionda accingendomi a un brindisi propiziatorio con lei, non sapevo ancora se durante la nostra prima  serata avrei cercato di stuzzicare le nostre libidini per poi sfogare la mia sensualità bestiale o divina che fosse, oppure se sarei tornato da solo  nel letto casto dove avrei dedicato la dura rinuncia alla mia Ifigenia che magari mi era altrettanto fedele. Non potevo saperlo. Dovevo immaginarlo però.

Dopo l’immancabile prosit ci mettemmo a parlare, in inglese.

Si poteva farlo con agio siccome non c’erano violini, né cembali, né, tanto meno, mostruosi apparecchi gracchianti né altri rumori d’inferno che servono a sostituire il silenzio o la chiacchiera vana delle teste vuote di tutto. Le tedesche per giunta, come le finniche del resto, pronunciano le parole inglesi in maniera abbastanza comprensibile.

La bionda era meno snella e meno bella di Ifigenia , ma anche assai meno povera di parole e idee interessanti. Aveva infatti una formazione  più consistente della ragazza che, forse, chissà, ancora mi aspettava in Italia. Insomma con la tedesca bionda avevo più argomenti di interesse comune, e Afrodite  poteva farci giocare, o duellare, con le parole, in vista di un letto o di un prato illuminato dai nostri sorrisi, scaldato dai reciproci, frenetici abbracci,  e reso piacevolmente sonoro da  tripudi lieti, pieni di gratitudine al destino che ci aveva fatto incontrare quella sera d’estate quando eravamo giovani, lieti e ancora capaci di fare tante cose piacevoli e belle. Ma l’amore tra noi non era nei progetti del fato.

Se mi si offrisse oggi una femmina umana siffatta la bacerei dai piedi ai capelli senza saltare alcuna parte del corpo. Ma come ho già detto, l’occasione va acciuffata per tempo. A ottanta anni andrebbe cercata, rincorsa, pregata in ginocchio. E il più delle volte non basterebbe. Dai settanta in poi si diventa accattoni dell’amore.

Passai un paio di ore che ricordo bene e rimpiango dandomi del perfetto cretino per non avere colto l’occasione di imparare dell’altro da una femmina umana compiacente e intelligente, invece di macerarmi per un mese intero aspettando una lettera che non sarebbe arrivata  mai da una che probabilmente se la spassava con un altro o più di uno.

Qualche cosa comunque ho imparato: a non rifiutare un bene presente per rimanere immacolato nell’intesa di un premio tanto malsicuro che non sarebbe arrivato mai. Ma il premio oggi c’è stato: ho scritto una pagina bella. Non ti pare, lettore?

Avvertenza: Il blog contiene 3 note e il greco non traslitterato

 

Bologna 18 dicembre 2025 ore 11, 49  giovanni ghisell

p. s.

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[1]  Risalgono al 1966. Puoi leggerlo nel libro Tre amori a Debrecen in prestito nella biblioteca Ginzburg di Bologna.

[2] Cfr, Odissea, XI; 49 ajmenhna; kavrhna.

[3]  Equivocatore della lussuria, ne crea gli equivoci. Cfr. Shakespeare, Macbeth, II, 3


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