sabato 2 maggio 2020

La storia di Päivi. Capitolo 24. La lettera di addio

La lettera di addio. Lo studio furioso e speranzosissimo

In aereo pensavo che Päivi, se avesse davvero voluto il mio aiuto, mi avrebbe chiesto di seguirla a Oulu dove invece volle andare senza di me, appoggiandosi al suo ex compagno.
In realtà la mia presenza non serviva più a niente, né aveva alcun senso il mio parere su quanto quasi sicuramente la donna aveva già deciso di fare. Le sue ultime parole d’amore erano del tutto discrepanti dai fatti.
Sono arrivate a dispiacermi le persone oscure dall’agire contraddittorio rispetto al parlare. Ho imparato che nel dubbio, in amore, la risposta è sempre “NO”. Il comportamento di una persona che ama non lascia spazio a sospetti e inquietudini.
La soluzione del dubbio “m’ama, non m’ama” è comunque negativa. E’ inutile sfogliare le margherite. Il dilemma è fasullo.
 Da Scilla e Cariddi ci si salva soltanto con la fuga. Certo è che ora, ed è un vecchio che scrive, rimpiango quella bambina non nata. Adesso, nel maggio del 2020, avrebbe 45 anni e un paio di settimane.
A volte la immagino bella, intelligente e invento dei dialoghi con lei, la figlia mancata, che mi manca. Mi invento l’avverarsi postumo di un sogno che non si è mai realizzato
 Da allora ho sempre cercato una figlia e anche per questo ho trovato, o mi sono fatto trovare, da compagne sempre più giovani di me. Compensazione, malattia mentale, mania educativa, perversione ? Decidi tu lettore.
Un medesimo fatto può avere significati diversi.
Arrivato in Italia, aspettavo notizie. Dopo un mese di attesa penosa e angosciosa, una pena aggravata dal cambiamento di città e da quello di lavoro, le Simplegadi che potevano schiacciarmi se non mi avessero aiutato le zie Rina e Giulia comprandomi casa a Bologna, il venticinque ottobre dunque, ricevetti una lunga lettera nella quale Päivi diceva di trovarsi sempre più rinchiusa nella barriera dell’Io, di essere senza fede nelle persone, siccome non credeva in se stessa, di sentirsi talmente vuota da non volere frequentare né vedere nessuno. In compenso voleva studiare, per imparare e sapere di più.

Qualche volta - scriveva anche - sento la tua mancanza, ma poi ci penso con totale realismo e capisco che tu sei troppo lontano da qui”.
Concludeva la lettera, l’ultima, con queste parole definitive:
 “Ora la cosa più importante della mia vita è il lavoro. Io voglio sapere di più. Può darsi che io mi inganni quando voglio dimostrare a me stessa che la gente non conta. Spero davvero che nessun altro la pensi così. Spero che tu scriva qualcosa. Ciao.
 Päivi.

Da allora all’estate seguente le scrissi una ventina di lettere esortandola a credere nel nostro amore. Non ebbi alcuna risposta.
Io comunque dovevo crederci per coltivare l’identità di studioso che avevo trovato in me grazie all’amore di lei. Studiai tutto l’anno, soprattutto per Päivi, siccome avevo avuto una modesta scuola tecnica, un professionale dove non insegnavo greco né latino e non mi stimolava abbastanza. Volevo sentirmi vicino all’ultima amata, simile a lei. Quando continuare ad amare una donna che ci ha rifiutato serve in un modo o nell’altro a confermare e potenziare comunque la nostra identità, ci comportiamo come le madri o le mogli dei soldati dispersi: sappiamo che non c’è niente da sperare, ma nulla ci vieta di continuare ad attendere. 
L’anno seguente ebbi l’incarico di insegnare greco e latino nel liceo classico Rambaldi di Imola e dovetti studiare molto per farmi ascoltare dagli studenti, per prepararli all’esame di maturità: tutti i giorni, dal ritorno a casa dopo la scuola alle 9 di sera, mi preparavo. Nei giorni di “riposo” sgobbavo sui libri dalle 9 di mattina alle nove di sera con un intervallo di tre ore per nutrirmi e fare un giro in bicicletta.
 Durante i primi mesi gli alunni leggevano il giornale, dopo Natale prendevano appunti. Mi avevano fatto capire che tradurre, snocciolare paradigmi, regole ed eccezioni di morfologia e sintassi, quindi ripetere i manuali non bastava, se volevo essere ascoltato e piacere. Lo volevo, e raggiunsi lo scopo grazie alle mie capacità, alla mia volontà, ai miei sacrifici. Avevo passato studiando tutte le domeniche, le vacanze, le feste comandate. Seguivo comandi diversi. Nel commento ai testi tradotti dovevo metterci la storia, la filosofia, la comparazione tra i testi, un metodo all’epoca non era ancora di moda ma agli studenti già piaceva.
Me lo avevano chiesto loro, con garbo non senza fermezza.
Sono ancora grato a quei ragazzi.
Alla fine dell’anno i giovani, più giovani di me di una decina d’anni, mi consideravano con rispetto, mi ascoltavano con attenzione.
 Verso la fine di maggio, una sera, guardando il tramonto pieno di voli e di gridi di rondini che volavano intorno contente, girando a gara nel cielo, a mia volta non senza gioia, gridai: “Ce l’ho fatta!”.
Così amare Päivi per accrescere la mia identità imitando l’immagine che mi ero fatto di lei, non era più necessario.
Il mio amore non contraccambiato non aveva più alcuna funzione positiva, poteva solo farmi del male.
Päivi cessava di essere l’Augusta, l’accrescitrice indispensabile.
Rimaneva solo la volontà, anzi la necessità di sapere se avesse abortito, e per questo sarei andato a cercarla l’estate seguente, come vedremo.
Se dovessi risponderle adesso, le scriverei che isolarsi con i libri escludendo le persone non è la sapienza vera, quella che potenzia la vita. Le parole e le idee tratte dagli autori - accrescitori infatti vanno discusse, e verificate, o confutate, con l’esperienza, insomma vanno vissute, altrimenti rimangono frasi fatte da altri, luoghi comuni scolastici, battute da talpe erudite, con la pancia e il cervello gonfi di radici verbali e, se va un po’ meglio, di belle battute che non danno forza alla vita.
Insomma quello che imparavo mi potenziava nel pensiero e nell’azione.
L’avevo già compreso quando attirai l’attenzione di Helena con una frase intelligente, come ho già raccontato[1].

A Päivi, la donna forse più importante di questa mia vita mortale, oggi citerei, magari tamburellando ditirambi, cinque parole delle Baccanti che dicono tutto: “to; sofo;n d j ouj sofiva[2], il sapere non è sapienza.
Poi lo spiegherei ricordando le lezioni ricevute dalla vita, come faccio ora con voi cari lettori
To; sofovn, il sapere, in greco è di genere neutro, non ha una matrice, mentre hJ sofiva , la sapienzaè femminile, il che consente di attribuirle una natura feconda.
Ma in quei giorni menzionare la fecondità sarebbe stato inopportuno e di pessimo gusto.

giovanni ghiselli




[1] Cfr. La storia di Helena, caitolo 7
[2] Euripide, Baccanti, 395. Dodds traduce “cleverness is not wisdom’Euripides Bacchae, p. 121

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