La lettera di addio. Lo studio furioso e speranzosissimo
giovanni ghiselli
In aereo
pensavo che Päivi, se avesse davvero voluto il mio aiuto, mi avrebbe chiesto di
seguirla a Oulu dove invece volle andare senza di me, appoggiandosi al suo ex
compagno.
In realtà la
mia presenza non serviva più a niente, né aveva alcun senso il mio parere su
quanto quasi sicuramente la donna aveva già deciso di fare. Le sue ultime
parole d’amore erano del tutto discrepanti dai fatti.
Sono arrivate a dispiacermi le persone oscure
dall’agire contraddittorio rispetto al parlare. Ho imparato che nel dubbio, in
amore, la risposta è sempre “NO”. Il comportamento di una persona che ama non
lascia spazio a sospetti e inquietudini.
La soluzione
del dubbio “m’ama, non m’ama” è comunque negativa. E’ inutile sfogliare le
margherite. Il dilemma è fasullo.
Da
Scilla e Cariddi ci si salva soltanto con la fuga. Certo è che ora, ed è un
vecchio che scrive, rimpiango quella bambina non nata. Adesso, nel maggio del
2020, avrebbe 45 anni e un paio di settimane.
A volte la
immagino bella, intelligente e invento dei dialoghi con lei, la figlia mancata,
che mi manca. Mi invento l’avverarsi postumo di un sogno che non si è mai
realizzato
Da
allora ho sempre cercato una figlia e anche per questo ho trovato, o mi sono
fatto trovare, da compagne sempre più giovani di me. Compensazione, malattia
mentale, mania educativa, perversione ? Decidi tu lettore.
Un medesimo
fatto può avere significati diversi.
Arrivato in
Italia, aspettavo notizie. Dopo un mese di attesa penosa e angosciosa, una pena
aggravata dal cambiamento di città e da quello di lavoro, le Simplegadi che
potevano schiacciarmi se non mi avessero aiutato le zie Rina e Giulia
comprandomi casa a Bologna, il venticinque ottobre dunque, ricevetti una lunga
lettera nella quale Päivi diceva di trovarsi sempre più rinchiusa nella
barriera dell’Io, di essere senza fede nelle persone, siccome non credeva in se
stessa, di sentirsi talmente vuota da non volere frequentare né vedere nessuno.
In compenso voleva studiare, per imparare e sapere di più.
“Qualche
volta - scriveva anche - sento la tua mancanza, ma poi ci penso con
totale realismo e capisco che tu sei troppo lontano da qui”.
Concludeva
la lettera, l’ultima, con queste parole definitive:
“Ora
la cosa più importante della mia vita è il lavoro. Io voglio sapere di più. Può
darsi che io mi inganni quando voglio dimostrare a me stessa che la gente non
conta. Spero davvero che nessun altro la pensi così. Spero che tu scriva
qualcosa. Ciao.
Päivi.
Da allora
all’estate seguente le scrissi una ventina di lettere esortandola a credere nel
nostro amore. Non ebbi alcuna risposta.
Io comunque
dovevo crederci per coltivare l’identità di studioso che avevo trovato in me
grazie all’amore di lei. Studiai tutto l’anno, soprattutto per Päivi, siccome
avevo avuto una modesta scuola tecnica, un professionale dove non insegnavo
greco né latino e non mi stimolava abbastanza. Volevo sentirmi vicino
all’ultima amata, simile a lei. Quando continuare ad amare una donna che ci ha
rifiutato serve in un modo o nell’altro a confermare e potenziare comunque la
nostra identità, ci comportiamo come le madri o le mogli dei soldati dispersi:
sappiamo che non c’è niente da sperare, ma nulla ci vieta di continuare ad
attendere.
L’anno
seguente ebbi l’incarico di insegnare greco e latino nel liceo classico
Rambaldi di Imola e dovetti studiare molto per farmi ascoltare dagli studenti,
per prepararli all’esame di maturità: tutti i giorni, dal ritorno a casa dopo
la scuola alle 9 di sera, mi preparavo. Nei giorni di “riposo” sgobbavo sui
libri dalle 9 di mattina alle nove di sera con un intervallo di tre ore per
nutrirmi e fare un giro in bicicletta.
Durante
i primi mesi gli alunni leggevano il giornale, dopo Natale prendevano appunti.
Mi avevano fatto capire che tradurre, snocciolare paradigmi, regole ed
eccezioni di morfologia e sintassi, quindi ripetere i manuali non bastava, se
volevo essere ascoltato e piacere. Lo volevo, e raggiunsi lo scopo grazie alle
mie capacità, alla mia volontà, ai miei sacrifici. Avevo passato studiando
tutte le domeniche, le vacanze, le feste comandate. Seguivo comandi diversi.
Nel commento ai testi tradotti dovevo metterci la storia, la filosofia, la
comparazione tra i testi, un metodo all’epoca non era ancora di moda ma agli
studenti già piaceva.
Me lo
avevano chiesto loro, con garbo non senza fermezza.
Sono ancora
grato a quei ragazzi.
Alla fine
dell’anno i giovani, più giovani di me di una decina d’anni, mi consideravano
con rispetto, mi ascoltavano con attenzione.
Verso la fine di maggio, una sera, guardando
il tramonto pieno di voli e di gridi di rondini che volavano intorno contente,
girando a gara nel cielo, a mia volta non senza gioia, gridai: “Ce l’ho
fatta!”.
Così amare
Päivi per accrescere la mia identità imitando l’immagine che mi ero fatto di
lei, non era più necessario.
Il mio amore
non contraccambiato non aveva più alcuna funzione positiva, poteva solo farmi
del male.
Päivi
cessava di essere l’Augusta, l’accrescitrice indispensabile.
Rimaneva
solo la volontà, anzi la necessità di sapere se avesse abortito, e per questo
sarei andato a cercarla l’estate seguente, come vedremo.
Se dovessi
risponderle adesso, le scriverei che isolarsi con i libri escludendo le persone
non è la sapienza vera, quella che potenzia la vita. Le parole e le idee tratte
dagli autori - accrescitori infatti vanno discusse, e verificate, o confutate,
con l’esperienza, insomma vanno vissute, altrimenti rimangono frasi fatte da
altri, luoghi comuni scolastici, battute da talpe erudite, con la pancia e il
cervello gonfi di radici verbali e, se va un po’ meglio, di belle battute che
non danno forza alla vita.
Insomma
quello che imparavo mi potenziava nel pensiero e nell’azione.
L’avevo già
compreso quando attirai l’attenzione di Helena con una frase intelligente, come
ho già raccontato[1].
A Päivi, la
donna forse più importante di questa mia vita mortale, oggi citerei, magari
tamburellando ditirambi, cinque parole delle Baccanti che
dicono tutto: “to; sofo;n d j ouj sofiva[2], il sapere non è sapienza.
Poi lo
spiegherei ricordando le lezioni ricevute dalla vita, come faccio ora con voi
cari lettori
To; sofovn, il sapere, in greco è di genere
neutro, non ha una matrice, mentre hJ sofiva , la sapienza, è femminile, il che consente di
attribuirle una natura feconda.
Ma in quei
giorni menzionare la fecondità sarebbe stato inopportuno e di pessimo gusto.
giovanni ghiselli
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