venerdì 8 maggio 2020

La peste di Milano nel romanzo di Manzoni e nella cronaca odierna

F. Gonin, La peste a Milano

La peste che ci affligge da tre mesi mi ha fatto tornare sull’Edipo re di Sofocle, su Tucidide e Lucrezio; fino ad ora avevo tralasciato Manzoni come già molto noto e ricordato, ma l’episodio dei navigli affollati per l’aperitivo mi ha indotto riaprire I promessi sposi, e in particolare il capitolo XXXIV quando Renzo torna a Milano e si dirige verso il Lazzaretto dove viene a sapere che si trova Lucia. Ma poi la donna che “con un viso ombroso” gli aveva dato l’informazione da una finestra della casa di don Ferrante, in seguito all’insistenza del giovane che voleva sapere dell’altro, si ritira e Renzo si rimette a picchiare sul portone finché un’altra donna per strada, distante da lui venti passi, “con un viso ch’esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia” dà voce al proprio spavento “l’untore! dagli! dagli! dagli! dagli all’untore!”. Comincia ad accorrere gente, poi si riapre la finestra “e quella medesima sgarbata di prima ci s’affacciò questa volta, e gridava anche lei: “pigliatelo, pigliatelo; che dev’essere uno di que’ birboni che vanno in giro a unger le porte de’ galantuomini”.
Attualizzando questa parte posso dire che quando vado a fare la spesa per non soffrire la fame, ogni avventore che mi si avvicina troppo mi dà un enorme fastidio e talora arrivo a intimargli di scostarsi da me.
Quando corro a piedi, di sera, evito di incrociare chi mi viene incontro nel marciapiede saltando in un prato o in mezzo alla strada. Non mi pare che la cordialità e la simpatia tra noi umani sia cresciuta in generale, sebbene non manchino esempi belli di solidarietà, generosità e perfino abnegazione.
Ma torniamo a seguire le orme di Manzoni. Renzo “svignò”. Respinge due che cercavano di sbarrargli la strada e procede “col pugno in aria, stretto, nocchiuto, pronto per qualunque altro gli fosse venuto tra’ piedi.
Lo inseguivano in tanti. Allora il promesso sposo “si fermò su due piedi, voltò indietro il viso più torvo e più cagnesco che avesse fatto a’ suoi giorni ; e, col braccio teso, brandendo in aria la lama luccicante, gridò: “chi ha cuore, venga avanti, canaglia, che l’ungerò io davvero con questo”. Ecco come un buon ragazzo, esasperato dalla cecità mentale degli idioti infuriati, può avvicinarsi alla violenza.
Poi Renzo però vede avanzare un carro “anzi una fila di que’ soliti carri funebri, col solito accompagnamento”. Seguiva altra gentaglia che voleva prendere in mezzo il presunto untore ma “eran trattenuti dall’impedimento medesimo”. Renzo “pensò che non era tempo di far lo schizzinoso” e saltò su uno dei carri.
I monatti lì seduti o camminando al seguito del convoglio “bravo! Bravo!” esclamarono “trincando da un gran fiasco che andava in giro. Bravo, bel colpo!”.

Ecco, costoro mi fanno pensare ai giovani per lo meno spensierati che vanno a bere l’aperitivo in gruppo. Se invece pensano, presumono che la morte non li riguardi:

“lieti ognun, femmine e maschi;
ogni tristo pensier caschi:
facciam festa tuttavia”.

Non mi sembra il momento opportuno per fare festa. Ma a loro sì come ai monatti. Uno di questi fece il gesto di lanciare un laido cencio “strappato d’addosso a un cadavere” e la canaglia avida di linciare Renzo fuggì. Lo scampato “non vide più che schiene di nemici. E calcagni che ballavano rapidamente per aria”. I monatti bevevano e urlavano. Uno gridò”viva la moria”, poi dietro queste parole intonò una loro canzonaccia; e subito alla sua voce s’accompagnarono tutte l’altre di quel turpe coro. La cantilena infernale, mista al tintinnio de’ campanelli, al cigolio de’ carri, al calpestio de’ cavalli, risonava nel voto silenzioso delle strade, e, rimbombando nelle case, stringeva amaramente il cuore de’ pochi che ancor le abitavano”
La canzonaccia che festeggia la moria ovviamente non riguarda quelli degli aperitivi ma gli speculatori che, se non l’hanno già fatto, presto metteranno i loro artigli da avvoltoi e i denti da iene su diverse attività economiche.
Piuttosto i giovani dalle teste svigorite che si radunano a frotte per la cosiddetta happy hour, sono al massimo dei poveri untorelli che non sanno quello che fanno. Si possono dunque perdonare ma solo dopo aver loro impedito di fare altri danni con altri morti.
Ne abbiamo avuti già troppi.

giovanni ghiselli

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