L’appello dei 16 professori
Voglio commentare l’appello di Massimo Cacciari firmato da 15
studiosi contro la prospettiva di un “modello in remoto” (“La
Stampa”, 18 maggio 2020)
Sono persone di scuola allarmate dai messaggi che ci
raggiungono in questa fase 2 a proposito dell’insegnamento.
Ho passato quasi tutta la vita a scuola: ho frequentato istituti
scolastici di ogni ordine e grado, dal lontano autunno del 1950.
Il documento dice che i messaggi pervenuti, per quanto ancora frammentari e
non univoci sono più che allarmanti.
L’allarme è dato dalla minaccia di una ancor più pervasiva estensione delle
modalità telematiche di insegnamento.
La prospettiva che emerge è quella di una definitiva e irreversibile
liquidazione della scuola nella sua configurazione tradizionale, sostituita da
un’ulteriore generalizzazione e da una ancor più pervasiva estensione delle
modalità telematiche di insegnamento. Non si tratterà soltanto di utilizzare le
tecnologie da remoto per trasmettere i contenuti delle varie discipline, ma
piuttosto di dar vita ad un nuovo modo di concepire la scuola, ben diverso da
quello tradizionale.
Sono d’accordo sul fatto che l’insegnamento non può ridursi
all’unica dimensione della ripetizione di dati letti nei libri o nel computer.
Me lo fecero già intuire gli studenti della scuola media Ugo Foscolo di
Carmignano di Brenta dove cominciai a insegnare nel 1969, poi, me lo hanno
fatto capire del tutto quelli del liceo classico Benvenuto Rambaldi di Imola,
dove iniziai con il greco e il latino, senza smettere più.
Però dovetti modificare il metodo appreso al Mamiani di Pesaro e
all’Università di Bologna.
Avevo 30 anni quando feci questo debutto e vidi che ragazze e ragazzi, pur
manifestandomi simpatia umana, non mi ascoltavano punto quando ripetevo le
nozioni del manuale, o traducevo l’Edipo re di Sofocle
commentandolo solo grammaticalmente. Chiesi loro perché. Risposero con garbo ma
senza reticenze che i manuali potevano studiarli a casa, che la
grammatica l’avevano già fatta al ginnasio, che le traduzioni stampate si
trovano in biblioteca e che i paradigmi sono tutti nel vocabolario. Volevano un
commento che derivasse da una visione d’insieme delle tragedie di Sofocle, della
letteratura greca e latina comparate tra loro e con le altre letterature
europee, poi commmentate con le vicende storiche, con la critica dei filosofi
che avevano scritto parole rivelatrici sulla tragedia, come Platone,
Aristotele, Hegel, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger. Avevano un
bravo insegnante di filosofia. Ne sapevano più di me. Mi spaventai. Non
conoscevo le opere di questi filosofi, poi nessuno mi aveva mai insegnato tale
metodo comparativo che allora nemmeno esisteva, non nella scuola. Ma compresi
che avevano ragione i miei allievi e cercai di meritarmi il ruolo di
professore, e restituire l’educazione da loro ricevuta.
Perciò mi suttoposi a una disciplina di ferro per leggere e imparare quello
di cui avevamo bisogno, io e i ragazzi.
Affrontai settimane, poi mesi e anni di studio, ogni giorno, per diverse
ore al giorno, prima con fatica e spavento, poi, a mano a mano che i risultati
venivano, con soddisfazione, con piacere, con gioia. Ho ricevuto da quei
giovani tanti stimoli a imparare quanti nessun professore mi aveva mai dato.
Dopo qualche settimana quegli allievi cominciarono ad ascoltarmi, poi a
prendere appunti. Via via, nei decenni la visione d’insieme si è ampliata pur
senza arrivare a uno sguardo pan-oramico per il quale gli anni di vita e di
studio concessi a noi poveri mortali non sono sufficienti.
Comunque con il volgersi di tante stagioni la visione è
diventata sempre più vasta.
La letteratura dunque va collegata e associata alla filosofia, alla storia,
alle arti e pure alla vita, quella politica e quella psicologia. All’estetica e
all’etica
Torniamo al documento dei 16 professori
“Si può certamente riconoscere – come da più parti nel corso degli ultimi
anni si è sostenuto in maniera argomentata – che la scuola italiana avrebbe
bisogno di interventi mirati, collocati su piani diversi, tali da investire gli
stessi modelli della formazione e lo statuto epistemologico delle varie
discipline. Ma altro è porre all’ordine del giorno un complessivo e articolato
processo di riforma, frutto di una preventiva e meditata elaborazione teorica,
tutt’altra cosa è appiattire il complesso processo dell’educazione sulla
dimensione riduttiva dell’istruzione. Basterebbe mettere il naso oltre
le Alpi per avvedersi che quasi tutti i Paesi europei, in prima fila i nostri competitors sul
piano economico, hanno già riaperto (o stanno riaprendo) le scuole, pur
permanendo condizioni sanitarie analoghe a quella italiana. Francia e Germania,
Belgio, Danimarca e Olanda, Norvegia e Repubblica ceca, Austria e Svizzera, e
in parte perfino il Regno Unito, sono ripartiti, sia pure con prudenza e
gradualità, mentre anche la Spagna, ormai più tormentata di noi dal flagello
del virus, sta valutando di svolgere almeno qualche settimana di scuola prima
della pausa estiva. Per quanto riguarda il prossimo anno scolastico, nessuno
sottovaluta i vincoli oggettivi che potrebbero persistere anche in autunno,
rendendo troppo rischioso il tentativo di ritorno alla normalità. Ma dare
superficialmente per assodata l’intercambiabilità fra le due modalità di
insegnamento – in presenza o da remoto – vuol dire non aver colto il fondamento
culturale e civile della scuola, dimostrandosi immemori di una tradizione che
dura da più di due millenni e mezzo e che non può essere allegramente
rimpiazzata dai monitor dei computer o dalla distribuzione di tablet. È
probabilmente superfluo ricordare che il termine greco scholé, dal
quale derivano i termini che nelle lingue moderne descrivono la scuola, indica
originariamente quella dimensione di tempo che è liberata dalle necessità del
lavoro servile, e può dunque essere impegnata per lo svolgimento di attività
più nobili, più corrispondenti alla dignità dell’uomo.
Ne consegue che la scuola non vuol dire meccanico apprendimento di nozioni,
non coincide con lo smanettamento di una tastiera, con la sudditanza a motori
di ricerca. Vuol dire anzitutto socialità, in senso orizzontale (fra allievi) e
verticale (con i docenti), dinamiche di formazione onnilaterale, crescita
intellettuale e morale, maturazione di una coscienza civile e politica.
Insomma, qualcosa di appena più importante e incisivo di una messa in piega o
di un cappuccino”.
* I firmatari dell’appello
Alberto Asor Rosa
Maurizio Bettini
Luciano Canfora
Umberto Curi
Donatella Di Cesare
Roberto Esposito
Nadia Fusini
Sergio Givone
Giancarlo Guarino
Giacomo Marramao
Caterina Resta
Pier Aldo Rovatti
Carlo Sini
Nicla Vassallo
Federico Vercellone
Aggiungo qualche altra parola di commento. Non condivido la fretta di
riaprire la scuola come altre attività.
Sottoscrivo invece queste parole anche se non ne sono stato
richiesto: “a scuola non vuol dire meccanico apprendimento di nozioni, non
coincide con lo smanettamento di una tastiera, con la sudditanza a motori di
ricerca. Vuol dire anzitutto socialità, in senso orizzontale (fra allievi) e
verticale (con i docenti), dinamiche di formazione onnilaterale, crescita
intellettuale e morale, maturazione di una coscienza civile e politica”.
Voglio commentarle aggiungendo qualche esempio per accrescerne la
concretezza e toccare anche la sfera emotiva di chi mi leggerà.
Uscire dalla socialità significa regredire verso un’esistenza da Ciclope
omerico o da misantropo menandreo, o shakespiriano. Penso a Polifemo del IX
canto dell’Odissea, al Dyskolos di
Menandro, al Timone ateniese di Plutarco (nella Vita di
Alcibiade) ripreso e drammatizzato da Shakespeare.
Se dovessi farne una lezione utilizzerei questi testi.
Le dinamiche di formazione onnilaterale non può essere tuttologia, bensì
ampiezza di visione della disciplina insegnata e collegata con le discipline
analoghe, a quanto costituisce l’Umanesimo.
La crescita intellettuale deve partire da una conoscenza precisa,
rigorosa, etimologica di quello che può la lingua nostra, cosa improbabile se
non si conoscono il greco e il latino.
La coscienza civile e politica è parte grande di quello che distingue
l’uomo dagli altri animali che vivono su questo pianeta.
Nel dialogo Protagora di
Platone, il sofista che ne è eponimo racconta che Prometeo donò all’umanità il
fuoco e ogni sapienza tecnica, ma non diede loro la sapienza politica. Allora i
mortali commettevano ingiustizie reciproche (hjdivkoun
ajllhvlou" ) in quanto non possedevano l'arte
politica (a{te oujk e[conte" th;n politikh;n
tevcnhn, 322b). Senza questa, che deve essere
fondata sul rispetto e sulla giustizia, gli umani si disperdevano e perivano;
quindi Zeus, temendo l'annientamento della nostra specie, mandò Ermes a portare
tra gli uomini rispetto e giustizia perché costituissero gli ordini delle
città: " JErmh'n pevmpei a[gonta eij"
ajnqrwvpou" aijdw' te kai; divkhn, i{n ei\en povlewn kovsmoi" (322c). Chi non le avesse accettate, doveva
essere ucciso come malattia della città (322d).
Secondo questo personaggio l’educazione
deve essere politica, ossia preparare a un ruolo significativo nella vita della
polis: i giovani devono diventare validi nel parlare e nell’agire (crhvsimoi
eij~ to; levgein te kai; pravttein).
Per giunta tutta la vita dell’uomo ha
bisogno di ritmo e di armonia (pa`~ ga;r oJ bivo~ tou` ajnqrwvpou
eujruqmiva~ te kai; eujarmostiva~ dei`tai,
326b). Per questo i maestri fanno suonare sulla cetra ai bambini le poesie dei
buoni poeti lirici e costringono i ritmi e le armonie ad accordarsi con le
anime degli alunni. Aggiungo questo in ricordo di Ezio Bosso.
Lascio in chiusura di commento la crescita morale, perché mi sta molto a
cuore ed è stata troppo trascurata. Utilizzo degli esempi tratti dai miei auctores per
dare piena evidenza a quanto scrivo
Il sapere non è sapienza (to; sofo;n d’ ouj sofiva) avverte il
coro delle Baccanti di Euripide nel I stasimo (v. 395).
Questa sentenza può venire commentata con quanto dice Socrate nell’Alcibiade
II di Platone
SW. `Or´j oân, Óte g' œfhn kinduneÚein tÒ ge tîn ¥llwn
™pisthmîn ktÁma, ™£n tij ¥neu tÁj toà belt…stou ™pist»mhj
kekthmšnoj Ï, Ñlig£kij mn çfele‹n, bl£ptein
d t¦
ple…w
tÕn œconta aÙtÒ, «r' oÙcˆ tù Ônti Ñrqîj ™fainÒmhn lšgwn;
vedi dunque- fa Socrate ad Alcibiade- quando dicevo che il possesso delle
altre scienze se uno non possiede la scienza di quanto è ottimo[1] , di rado giova, mentre per lo più
danneggia chi ce l'ha, non ti sembra che io parlavo dicendo quanto è
sostanzialmente corretto?
Alcibiade dà ragione a Socrate il quale aggiunge
Ð d d¾ t¾n kaloumšnhn
polumaq…an te kaˆ
polutecn…an
kekthmšnoj, ÑrfanÕj d ín taÚthj tÁj ™pist»mhj, ¢gÒ-
menoj d ØpÕ mi©j ˜k£sthj tîn ¥llwn, «r' oÙcˆ tù Ônti
dika…wj pollù ceimîni cr»setai, ¤te omai ¥neu kubern»tou
diatelîn ™n pel£gei, crÒnon oÙ makrÕn b…ou qšwn; éste
sumba…nein moi doke‹ kaˆ ™ntaàqa tÕ toà poihtoà, Ö
lšgei
kathgorîn poÚ tinoj, æj ¥ra poll¦ mn ºp…stato
œrga, kakîj dš, fhs…n, ºp…stato p£nta. (Alcibiade II 147b)
e chi possiede la cosiddetta conoscenza
enciclopedica e politecnica , ma sia privo di questa scienza 1, e
venga spinto da ciascuna delle altre, non farà uso sostanzialmente di una
grande tempesta senza un nocchiero, continuando a correre sul mare, non a lungo
del resto? Sicché mi sembra che anche qui capiti a proposito quello che
dice il poeta criticando uno che effettivamente sapeva molte
cose ma le sapeva tutte male
Saluti affettuosi a tutti i miei allievi.
giovanni ghiselli
[1] mevgiston
mavqhma, il massimo oggetto di scienza è l'idea
del Bene, (cfr.Platone, Repubblica, 505a:"hJ
tou' ajgaqou' ijdeva mevgiston mavqhma".).
Ottimo!margherita
RispondiElimina