NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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martedì 19 maggio 2020

Commento l’appello dei 16 professori

L’appello dei 16 professori

Voglio commentare l’appello di Massimo Cacciari firmato da  15 studiosi  contro la prospettiva di un “modello in remoto” (“La Stampa”, 18 maggio 2020)
Sono  persone di scuola allarmate dai messaggi che ci raggiungono in questa fase 2 a proposito dell’insegnamento.
Ho passato quasi tutta la vita a scuola: ho frequentato istituti scolastici  di ogni ordine e grado, dal lontano autunno del 1950.
Il documento dice che i messaggi pervenuti, per quanto ancora frammentari e non univoci sono più che allarmanti.
L’allarme è dato dalla minaccia di una ancor più pervasiva estensione delle modalità telematiche di insegnamento.
La prospettiva che emerge è quella di una definitiva e irreversibile liquidazione della scuola nella sua configurazione tradizionale, sostituita da un’ulteriore generalizzazione e da una ancor più pervasiva estensione delle modalità telematiche di insegnamento. Non si tratterà soltanto di utilizzare le tecnologie da remoto per trasmettere i contenuti delle varie discipline, ma piuttosto di dar vita ad un nuovo modo di concepire la scuola, ben diverso da quello tradizionale.

Sono d’accordo sul fatto che l’insegnamento  non può ridursi all’unica dimensione della ripetizione di dati letti nei libri o nel computer.
Me lo fecero già intuire gli studenti della scuola media Ugo Foscolo di Carmignano di Brenta dove cominciai a insegnare nel 1969, poi, me lo hanno fatto capire del tutto quelli del liceo classico Benvenuto Rambaldi di Imola, dove iniziai con il greco e il latino, senza smettere più.
Però dovetti  modificare il metodo appreso al Mamiani di Pesaro e all’Università di Bologna.
Avevo 30 anni quando feci questo debutto e vidi che ragazze e ragazzi, pur manifestandomi simpatia umana, non mi ascoltavano punto quando ripetevo le nozioni del manuale, o traducevo l’Edipo re di Sofocle commentandolo solo grammaticalmente. Chiesi loro perché. Risposero con garbo ma senza reticenze che i manuali potevano studiarli  a casa, che la grammatica l’avevano già fatta al ginnasio, che le traduzioni stampate si trovano in biblioteca e che i paradigmi sono tutti nel vocabolario. Volevano un commento che derivasse da una visione d’insieme delle tragedie di Sofocle, della letteratura greca e latina comparate tra loro e con le altre letterature europee, poi commmentate con le vicende storiche, con la critica dei filosofi che avevano scritto parole rivelatrici sulla tragedia, come Platone, Aristotele, Hegel, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger. Avevano un bravo insegnante di filosofia. Ne sapevano più di me. Mi spaventai. Non conoscevo le opere di questi filosofi, poi nessuno mi aveva mai insegnato tale metodo comparativo che allora nemmeno esisteva, non nella scuola. Ma compresi che avevano ragione i miei allievi e cercai di meritarmi il ruolo di professore, e restituire l’educazione da loro ricevuta.
Perciò mi suttoposi a una disciplina di ferro per leggere e imparare quello di cui avevamo bisogno, io e i ragazzi.
Affrontai settimane, poi mesi e anni di studio, ogni giorno, per diverse ore al giorno, prima con fatica e spavento, poi, a mano a mano che i risultati venivano, con soddisfazione, con piacere, con gioia. Ho ricevuto da quei giovani tanti stimoli a imparare quanti nessun professore mi aveva mai dato.
Dopo qualche settimana quegli allievi cominciarono ad ascoltarmi, poi a prendere appunti. Via via, nei decenni la visione d’insieme si è ampliata pur senza arrivare a uno sguardo pan-oramico per il quale gli anni di vita e di studio concessi a noi poveri mortali non sono sufficienti.  
Comunque con il volgersi  di tante stagioni la visione è diventata sempre più vasta.
La letteratura dunque va collegata e associata alla filosofia, alla storia, alle arti e pure alla vita, quella politica e quella psicologia. All’estetica e all’etica  
Torniamo al documento dei 16 professori
“Si può certamente riconoscere – come da più parti nel corso degli ultimi anni si è sostenuto in maniera argomentata – che la scuola italiana avrebbe bisogno di interventi mirati, collocati su piani diversi, tali da investire gli stessi modelli della formazione e lo statuto epistemologico delle varie discipline. Ma altro è porre all’ordine del giorno un complessivo e articolato processo di riforma, frutto di una preventiva e meditata elaborazione teorica, tutt’altra cosa è appiattire il complesso processo dell’educazione sulla dimensione riduttiva dell’istruzione. Basterebbe mettere il naso oltre le Alpi per avvedersi che quasi tutti i Paesi europei, in prima fila i nostri competitors sul piano economico, hanno già riaperto (o stanno riaprendo) le scuole, pur permanendo condizioni sanitarie analoghe a quella italiana. Francia e Germania, Belgio, Danimarca e Olanda, Norvegia e Repubblica ceca, Austria e Svizzera, e in parte perfino il Regno Unito, sono ripartiti, sia pure con prudenza e gradualità, mentre anche la Spagna, ormai più tormentata di noi dal flagello del virus, sta valutando di svolgere almeno qualche settimana di scuola prima della pausa estiva. Per quanto riguarda il prossimo anno scolastico, nessuno sottovaluta i vincoli oggettivi che potrebbero persistere anche in autunno, rendendo troppo rischioso il tentativo di ritorno alla normalità. Ma dare superficialmente per assodata l’intercambiabilità fra le due modalità di insegnamento – in presenza o da remoto – vuol dire non aver colto il fondamento culturale e civile della scuola, dimostrandosi immemori di una tradizione che dura da più di due millenni e mezzo e che non può essere allegramente rimpiazzata dai monitor dei computer o dalla distribuzione di tablet. È probabilmente superfluo ricordare che il termine greco scholé, dal quale derivano i termini che nelle lingue moderne descrivono la scuola, indica originariamente quella dimensione di tempo che è liberata dalle necessità del lavoro servile, e può dunque essere impegnata per lo svolgimento di attività più nobili, più corrispondenti alla dignità dell’uomo.
Ne consegue che la scuola non vuol dire meccanico apprendimento di nozioni, non coincide con lo smanettamento di una tastiera, con la sudditanza a motori di ricerca. Vuol dire anzitutto socialità, in senso orizzontale (fra allievi) e verticale (con i docenti), dinamiche di formazione onnilaterale, crescita intellettuale e morale, maturazione di una coscienza civile e politica. Insomma, qualcosa di appena più importante e incisivo di una messa in piega o di un cappuccino”.

* I firmatari dell’appello
Alberto Asor Rosa
Maurizio Bettini
Luciano Canfora
Umberto Curi
Donatella Di Cesare
Roberto Esposito
Nadia Fusini
Sergio Givone
Giancarlo Guarino
Giacomo Marramao
Caterina Resta
Pier Aldo Rovatti
Carlo Sini
Nicla Vassallo
Federico Vercellone

Aggiungo qualche altra parola di commento. Non condivido la fretta di riaprire la scuola come altre attività.
 Sottoscrivo invece queste parole anche se non ne sono stato richiesto: “a scuola non vuol dire meccanico apprendimento di nozioni, non coincide con lo smanettamento di una tastiera, con la sudditanza a motori di ricerca. Vuol dire anzitutto socialità, in senso orizzontale (fra allievi) e verticale (con i docenti), dinamiche di formazione onnilaterale, crescita intellettuale e morale, maturazione di una coscienza civile e politica”.
Voglio commentarle aggiungendo qualche esempio per accrescerne la concretezza e  toccare anche la sfera emotiva di chi mi leggerà.
Uscire dalla socialità significa regredire verso un’esistenza da Ciclope omerico o da misantropo menandreo, o shakespiriano. Penso a Polifemo del IX canto dell’Odissea, al Dyskolos di Menandro,  al Timone ateniese di Plutarco (nella Vita di Alcibiade) ripreso e drammatizzato da Shakespeare.
Se dovessi farne una lezione utilizzerei questi testi.
Le dinamiche di formazione onnilaterale non può essere tuttologia, bensì ampiezza di visione della disciplina insegnata e collegata con le discipline analoghe, a quanto costituisce l’Umanesimo.
La crescita intellettuale  deve partire da una conoscenza precisa, rigorosa, etimologica di quello che può la lingua nostra, cosa improbabile se non si conoscono il greco e il latino.
La coscienza civile e politica è parte grande di quello che distingue l’uomo dagli altri animali che vivono su questo pianeta.
Nel dialogo Protagora di Platone, il sofista che ne è eponimo racconta che Prometeo donò all’umanità il fuoco e ogni sapienza tecnica, ma non diede loro la sapienza politica. Allora i mortali commettevano ingiustizie reciproche (hjdivkoun ajllhvlou" ) in quanto non possedevano l'arte politica (a{te oujk e[conte" th;n politikh;n tevcnhn, 322b). Senza questa, che deve essere fondata sul rispetto e sulla giustizia, gli umani si disperdevano e perivano; quindi Zeus, temendo l'annientamento della nostra specie, mandò Ermes a portare tra gli uomini rispetto e giustizia perché costituissero gli ordini delle città: " JErmh'n pevmpei a[gonta eij" ajnqrwvpou" aijdw' te kai; divkhn, i{n ei\en povlewn kovsmoi" (322c). Chi non le avesse accettate, doveva essere ucciso come malattia della città (322d).
Secondo questo personaggio l’educazione deve essere politica, ossia preparare a un ruolo significativo nella vita della polis: i giovani devono diventare validi nel parlare e nell’agire (crhvsimoi eij~ to; levgein te kai; pravttein).
Per giunta tutta la vita dell’uomo ha bisogno di ritmo e di armonia (pa`~ ga;r oJ bivo~ tou` ajnqrwvpou eujruqmiva~ te kai; eujarmostiva~ dei`tai, 326b).  Per questo i maestri fanno suonare sulla cetra ai bambini le poesie dei buoni poeti lirici e costringono i ritmi e le armonie ad accordarsi con le anime degli alunni. Aggiungo questo in ricordo di Ezio Bosso.

Lascio in chiusura di commento la crescita morale, perché mi sta molto a cuore ed è stata troppo trascurata. Utilizzo degli esempi tratti dai miei auctores per dare piena evidenza a quanto scrivo
 Il sapere non è sapienza (to; sofo;n d’ ouj sofiva)  avverte il coro delle Baccanti di Euripide nel I stasimo (v. 395).
 Questa sentenza può venire commentata con quanto dice Socrate nell’Alcibiade II di Platone

SW`Or´j oânÓte gœfhn kinduneÚein tÒ ge tîn ¥llwn
™pisthmîn ktÁma™£n tij ¥neu tÁj toà belt…stou ™pist»mhj
kekthmšnoj ÏÑlig£kij mn çfelenbl£ptein d t¦ plew
tÕn œconta aÙtÒ«roÙcˆ tù Ônti Ñrqîj ™fainÒmhn lšgwn;  

vedi dunque- fa Socrate ad Alcibiade- quando dicevo che il possesso delle altre scienze se uno non possiede la scienza di quanto è ottimo[1] , di rado giova, mentre per lo più danneggia chi ce l'ha, non ti sembra che io parlavo dicendo quanto è sostanzialmente corretto? 
Alcibiade  dà ragione a Socrate il quale aggiunge

Рd d¾ t¾n kaloumšnhn polumaqan te kaˆ polutecnan
kekthmšnoj, ÑrfanÕj d ín taÚthj tÁj pist»mhj, ¢gÒ-
menoj d ØpÕ mi©j ˜k£sthj tîn ¥llwn, «r' oÙcˆ tù Ônti
dika…wj pollù ceimîni cr»setai, ¤te omai ¥neu kubern»tou
diatelîn ™n pel£gei, crÒnon oÙ makrÕn b…ou qšwn; éste
sumba…nein moi doke‹ kaˆ ™ntaàqa tÕ toà poihtoà, Ö lšgei
kathgorîn poÚ tinoj, æj ¥ra poll¦ mn ºpstato
œrga, kakîj dš, fhs…n, ºp…stato p£nta.  (Alcibiade II 147b)

 e chi possiede la cosiddetta conoscenza enciclopedica e politecnica , ma sia privo di questa scienza 1, e venga spinto da ciascuna delle altre, non farà uso sostanzialmente di una grande tempesta senza un nocchiero, continuando a correre sul mare, non a lungo del resto? Sicché mi sembra che anche qui capiti a proposito quello che dice il poeta criticando uno che effettivamente sapeva molte cose ma le sapeva tutte male 

Saluti affettuosi a tutti i miei allievi.
giovanni ghiselli





[1] mevgiston mavqhma, il massimo oggetto di scienza è l'idea del Bene, (cfr.Platone, Repubblica, 505a:"hJ tou' ajgaqou' ijdeva mevgiston mavqhma".).

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