giovedì 28 maggio 2020

Le "variae tigres". Di Francesco Scozzaro


Presentazione: l’autore di questo studio è Francesco Scozzaro studente dell’Università di Palermo che entrò in contatto con me quando era ancora un liceale nel classico Luigi Pirandello di Bivona.
E’ un giovane studioso molto bravo, come si può vedere da questo suo scritto.  Lo saluto e lo ringrazio.
giovanni ghiselli


Le variae tigres: l’anticipazione dell’horridus nel prologo della Phaedra senecana
di Francesco Scozzaro


Tra i prologhi delle tragedie senecane, quello della Phaedra è molto particolare e colpisce fin dall’inizio: Ippolito è nel suo mondo, in silvas, e ordina, da buon cacciatore, ai compagni, di perlustrare i luoghi dei boschi dell’Attica e trovare le prede da cacciare. Soltanto in questa atmosfera si sente sicuro, lontano dal furor, dall’aura populi, dal vulgus infidum, dall'invidia e dal fragilis favor, che regnano in moenibus.[1] Si affida soltanto a una dea, che ama fedelmente, la dea della caccia, Diana, montium domina…/silvarumque virentium/saltuumque reconditorum.[2] A lei tutte le fiere si sottomettono, i leoni di Getulia, le cerve cretesi, i danai veloci, i bisonti, gli uri selvatici e le tigri maculate (variae): così si apre l’aretalogia che Ippolito pronuncia ai versi 57 s.
A chiusura del prologo, Ippolito fa un’ennesima richiesta a Diana, di assisterlo durante la battuta di caccia (En, diva, fave!…/vocor in silvas./hac, hac pergam qua via longum/ compensat iter). Ha bisogno di lei, della sua protezione e desidera che questo avvenga celermente. Diana deve essere la sua alleata[3], solo allora potrà essere tutus. Ma sarà davvero come crede Ippolito o la sua è solo un’illusione nata dal furor che lo pervade[4]?
In realtà, l'atmosfera idillica che descrive Ippolito è solo apparente, e ogni elemento della natura nasconde in sé qualcosa di sinistro, fino a rivelarsi una vera e propria rete di caccia, nella quale rimarrà impigliato in validos nodos,[5] impossibili da rompere.
Vorrei focalizzare la mia attenzione su quei termini che contribuiscono a delineare il locus in cui si trova Ippolito, fuori dalle mura, come horridus, soprattutto soffermandomi sulla figura delle tigri variae, mettendo in evidenza come questo aggettivo assuma una connotazione negativa nella tragedia senecana.
Il primo verso della Phaedra si apre con l’ordine di Ippolito ai compagni di circondare le umbrosae silvae, ambiente pervaso da un’ombra infernale che caratterizza l’Ade, come è ben chiaro dalle parole di Teseo, che tornato sulla terra, afferma tandem profugi noctis aeternae plagam/vastoque manes carcere umbrantem polum, senza sapere che il vero inferno lo troverà proprio lì, tanto che più avanti sarà costretto a dire ereptos mihi/restitue manes.[6]
Nell’Oedipus ai versi 530 s. Creonte descrive il luogo in cui Tiresia e Manto si recano per avere un responso sulla verità riguardo all’uccisione di Laio, e qui medio stat ingens arbor atque umbra gravi/silvas minores urguet, sotto il quale albero ristagnano acque eternamente gelate e una palude piena di fango, un ambiente ombroso come le silvae di Ippolito, che ben evidenzia quale sia la caratteristica dell’umbra, esatto contrario dell’ombra degli ambienti idillici delle Ecloghe virgiliane, dove era elemento di serenità per i pastori e per le greggi stesse.[7]
Il primo coro dell’Agamemnon, soffermandosi sulla sorte di Agamennone, delinea un'atmosfera di turbamento che a un certo punto tocca persino gli elementi della natura stessa, in cui densasque nemus spargens umbras/annosa videt robora frangi: un bosco che cresce sempre di più portando un’ombra rovinosa. La stessa ombra rovinosa sembra presentarsi anche in Thyestes: nella descrizione del penetrale regni, in cui avrà luogo il nefas di Atreo, il nuntius parla così: fons stat sub umbra tristis et nigra piger/haeret palude, una fonte coperta da un’ombra che la rende triste e lenta (piger).
Altro aggettivo questo, che ritroviamo nel prologo della Phaedra, dove a essere piger è l’Ilisso che bagna la sabbia infeconda (steriles harenas), aggettivi tipici della descrizione di una natura morta, triste e pallida, e caratteristici dell’Ade, come è ben chiaro dalla descrizione che ne fa Teseo ai versi 698 s. in Herc. f.:

<<  Non prata viridi laeta facie germinant
      nec adulta leni fluctuat Zephyro seges;
      non ulla ramos silva pomiferos habet:
      sterili profundi vastitas squalet soli
      et foeda tellus torpet aeterno situ.
      [rerumque maestus finis et mundi ultima]
      immotus aer haeret et pigro sedet
      nox atra mundo…>>

Un’aria immobile e una notte nera che soccombe sul mondo piger, in cui ogni cosa è senza vita e la terra stessa giace abbandonata in un’eterna putredine: in questo scenario l’aggettivo piger si inserisce perfettamente e ci dà conferma di un’altra caratteristica negativa del locus tanto caro a Ippolito, sempre più oscuro, come appare ben chiaro  anche dal verso 10, in cui nemus altaItexitur alno. L’uso del verbo texo, che qui indica l’intrecciarsi dell’alto ontano che copre i boschi, anticipa quell’atmosfera notturna che Teseo invocherà nel momento in cui, preso da furor, maledirà il figlio: nunc atra ventis nubila impellentibus/subtexe noctem, sidera et caelum eripe. Teseo supplica il padre Nettuno chiedendogli di portare via le stelle, il cielo, e coprirlo di una nera notte: questo il significato di subtexo.
Ai versi 740 s. Medea, nell’omonima tragedia, sempre più infuriata, prega (comprecor) ancora una volta i ferales deos, il Chaos caecum e l’opacam domum Ditis, e ricordando i suoi poteri, attraverso i quali era stata capace di invertire il ritmo delle stagioni (Temporum flexi vices), invoca la Luna (Phoebe) promettendole che per lei intreccerà (texuntur) con mani piene di sangue le corone: il verbo texo è ancora una volta inserito nello scenario linguistico di una preghiera “al nero”.[8]
A conferma del significato negativo che sembra assumere nella tragedia senecana è utilizzato anche dall’umbra Thyestis nell’Agamemnon, quando racconta la sorte che toccherà al re dei re: ductor Agamemnon ducum/cuius secutae mille vexillum rates/Iliaca velis maria texerunt suis,/post decima Phoebi lustra devicto Ilio/ adest daturus coniugi iugulum suae. Le navi greche che hanno coperto e oscurato i mari Troiani, credendo di aver vinto, possono tornare in patria. Ma per Agamennone non è finita, anzi si trova nella stessa situazione di Troia, come afferma lui stesso in Troades,[9] e l’umbra Thyestis, da buon προλογίζων, lo preannuncia, delineando un’atmosfera di apparente sollievo che sfocierà in un esito totalmente negativo, ben reso dal participio futuro daturus. In questo contesto è conveniente l’uso di texo, come anticipazione dell’arrivo di una notte eterna che oscura tutto, quasi come una sorta di contrappasso: le navi greche hanno coperto i mari di Troia, la casa di Agamennone inonderà nel sangue e ne sarà coperta. Dunque il significato da attribuire al verbo texo nella tragedia senecana potrebbe essere proprio quello di coprire, oscurare e quindi eliminare, come testimonia un passo delle Naturales Quaestiones, in cui Seneca, parlando dei fenomeni atmosferici, in particolare di tuoni e fulmini, racconta che Cambise avrebbe inviato, presso il tempio del dio Ammone, il suo esercito, il quale venne ricoperto ed eliminato dalla sabbia, mossa dal vento ([...] quem harena austro mota et more nivis incidens texit, deinde obruit).[10]
Il prologo continua a essere ricco di aggettivi negativi che esprimono bene il senso del locus in cui Ippolito morirà, in cui le bestie cercano pascoli notturni (nocturna petunt pabula), le quali sembrano proprio svolgere un importante ruolo nell’anticipazione alla καταστροφή, data dal locus horridus; infatti ai versi 60 s. Ippolito, elencando gli animali che si sottometteranno alla dea della caccia, afferma tibi dant variae pectora tigres: l’aggettivo varius, attribuito a un animale, indica il tipo di pelle maculata o screziata, che caratterizza le tigri e in generale i felini feroci,[11] che simboleggiano la forza selvaggia della natura. Ma c’è di più: varius può essere utilizzato anche nel senso di incostante, variabile e multiformis,[12] a significare qualcosa che muta, e nel suo mutare causa il vacillare della bona mens e della valetudo, come un passo del Satyricon evidenzia bene. Durante la cena Trimalchionis nei capitoli 61 s. Nicerote racconta una fabula, soltanto dopo che i commensali si augurarono (sibi optarunt) bona mens e bona valetudo, destinate a crollare appunto, in particolare nel momento in cui, quando luna lucebat tamquam meridie, il miles che accompagnava Nicerote dopo essersi spogliato della sua identità (questo è il significato dell’espressione latina exuit se et omnia vestimenta sua secundum viam posuit) lupus factus est, destando una grandissima paura a Nicerote. Il miles diventa versipellis, che certamente è sinonimo di multiformis.
Cicerone in De finibus bonorum et malorum riflette sulla voluptas e a un certo punto si sofferma sul significato del termine varietas e afferma:

<< varietas Latinum verbum est, idque proprie quidem in disparibus coloribus dicitur: sed       transfertur in multa disparia; […] voluptas etiam varia dici potest, cum percipitur ex multis dissimilibus rebus efficientibus voluptatem.>>[13]

Il piacere può essere vario quando la sensazione di esso risulta da molti elementi diversi che producono piaceri diversi, ma la voluptas proprio per essere varia è breve e incostante; così si esprime il terzo coro del Thyestes: Nulla sors longa est: dolor ac voluptas/invicem cedunt; brevior voluptas.[14]
Proprio l’aggettivo varius viene usato varie volte da Seneca per indicare la fortuna incostante: Agamennone in Troades 260 s. consiglia ai potenti e a lui stesso, che sono al culmine della fortuna, di essere moderati e preoccuparsi dei varios casus.
Medea, nell’omonima tragedia, cercando di convincere Creonte a farla rimanere ancora per poco, si appella, attraverso una climax, alle vicende dei regni sempre in balia di una Fortuna varia, incerta e incostante, come si potrebbero definire le vicende di Medea stessa; proprio lei afferma ai versi 567 s., cercando la collaborazione della nutrice, tu fida nutrix, socia maeroris mei/variique casus, misera consilia adiuva. L’aggetivo varius qui ha proprio il significato di incertezza, un’incertezza che caratterizza il personaggio di Medea, che ai versi 937 s. si chiede perché stia dubitando e perché sia in preda alla fluctuatio, resa proprio con il termine variam (variamque nunc ira, nunc illuc amor/diducit?).
Una fluctuatio simile sembra quella di cui soffre Fedra e che la nutrice descrive con queste parole: nil idem dubiae placet,/artusque varie iactat incertus dolor.[15] L’avverbio varie indica la sofferenza di Fedra che sfocia nella dimensione fisica di una vera e propria νόσος, come sembra essere anche quella di Clitennestra in Agamemnon, in cui la sposa del re degli Achei è trasportata fluctibus variis.[16]
Un altro contesto, prettamente negativo, in cui l’aggettivo varius trova un posto ben preciso, è la descrizione che il nuntius della Phaedra fa del mostro, con il quale Ippolito si dovrà scontrare:

<< Quis habitus ille corporis vasti fuit!
     caerulea taurus colla sublimi gerens
     erexit altam fronte viridanti iubam;
     stant hispidae aures, orbibus varius color…>>

Un toro con un’imponente criniera, come doveva essere quella dei leoni di Getulia,[17] le orecchie ispide e diritte e il colore delle orbite cangiante, in latino varius, come variae erano le tigri, che Varrone paragona ai leoni.[18] Il mostro potrebbe proprio essere il risultato dei vari elementi della natura e sopratutto degli animali che si sarebbero sottomessi a Diana, ma questo adesso non può più accadere; Diana non potrà assistere Ippolito in questa ultima battuta di caccia. L’aggettivo varius qui, che connota gli occhi del mostro, si presenta come caratteristica preponderante: bastava guardarlo negli occhi per provarne tremor.
La varietas dunque sembra caratteristica connotante i mostri e lo dimostra bene l’aggettivo con cui Creonte nell’ Edipo re di Sofocle definisce la sfinge, e cioè ποικιλδς,[19] dal canto variopinto, dove la ποικιλία greca corrisponde alla varietas latina. Ma non sono solo i mostri a essere variopinti: nel Mimiambo 5 (Ζηλότυπος) Eronda presenta come protagonista femminile Bitinna, la quale, accusa il proprio schiavo- amante Gastrone di rivolgere le sue attenzioni ad unaltra donna, di nome Anfitea. Per questa grave imputazione Gastrone dovrà subire una punizione esemplare: mille frustate sulla schiena e mille sul ventre. La conseguenza sarà che Gastrone diventerà ποικίλον,[20]a conferma di come tale aggettivo venga utilizzato, anche in ambito ellenistico, in certi contesti, secondo una connotazione negativa.
Come ulteriore conferma sembra essere illuminante un verso del sesto libro della Pharsalia di Lucano: Sesto Pompeo si reca dalla strega Erictho per avere un responso sull’esito dello scontro, e la strega, racconta Lucano, discolor et vario furialis cultus amictu/induitur, vultusque aperitur crine remoto/ et coma vipereis substringitur horrida sertis.[21] Il mantello è variopinto furialis cultus, confacendosi perfettamente all’habitus di Erictho, a darci l’idea di una varietà di colori che sono solo apparenti e illusionistici, come i colori dell’arcobaleno che descrive Manto in Oedipus, definiti appunto varios.[22]
Anche i colori della reggia di Atreo in Thyeste, hanno la funzione di nascondere qualcosa di oscuro: le colonne che sostengono il soffitto sono variis maculis,[23] ma non appena avverrà il nefas, i colori mostreranno la loro vera facies impallidita.
Saranno proprio questi colori che faranno dire alla figlia di Tiresia horresco intuens. Questa varietà di colori dunque, che caratterizza le tigri del prologo pronunciato da Ippolito, e che sfocerà nel mostro, risulta essere un altro dei tanti aggettivi che delineano il locus horridus, in cui Ippolito rimarrà impigliato nella rete inestricabile da lui stesso tesa.

Francesco Scozzaro



[1] Cf. Sen. Phaedr. 483 s.
[2] Così Catullo c. 34, 9-11.
[3] Cf. Saffo c. 1, 28 in cui la poetessa chiede ad Afrodite di essere sua alleata, cercandone quasi un diretto contatto.
[4] Il fatto che Ippolito non è padrone di sé è chiaro dall’uso del verbo passivo al verso 81 (vocor in silvas). Riguardo alle caratteristiche del furor nella Phaedra cf. G. Mazzoli, Dinamiche del furor nella Fedra di seneca, Il chaos e le sue forme, Palermo 2016, pp. 279-294.
[5] Così Lucrezio in De rerum natura 4, 1148 invitandoci a cercare di non cadere nella rete d’amore. Ippolito non riesce a fuggire da un amore ossessionato per la caccia, e cadrà nella stessa rete con la quale catturava le prede. Lo stesso motivo della rete d’amore si ritrova in Ibico (fr. 287 P. - Dav.) in cui la rete è definita senza fine, inestricabile “περονα δκτυα”.
[6] Teseo preferirà proprio l’ombra dell’Ade: cf. Phaedr. 1139.
[7] Cf. Virg. Ec. 1, 4; 2, 8; l’ombra si presenta come elemento tipico di serenità e riposo anche in Saffo: cf. fr. 2, 6-7 in Saffo, Poesie, frammenti e testimonianze a cura di Camillo Neri e Federico Cinti.
[8] PETRONE, La Medea di Seneca tra paradigma retorico e tradizione letteraria, in Scritti a margine di letteratura e teatro antichi, Lo sperimentalismo di Seneca, a cura di Gianna Petrone, Palermo,1999.
[9] Cf. Sen. Ag. 264.
[10] Cf. Sen. QN. 2, 30, 2, 3.
[11] Cf. Virg. Georg. 3, 264.
[12] Ernout et Meillet, Dictionnaire Étymologique de la langue latine, Histoire de mots. Paris, Klincksieck, 2001.
[13] Cic. Fin. 2, 3, 10.
[14] Sen, Thy. 596-7.
[15] Sen. Phaedr. 366.
[16] Sen. Ag. 138.
[17] Cf. HN. 8, 41, 1.
[18] Varro, M. Terentius, LL 5, 100, 1.
[19] Cf. S. OT. 130
[20] Cf. Eronda, Mimiambo 5, 63-7.
[21] Lucan. Phars. 6, 654.
[22] Cf. Sen. Oed. 315.
[23] Sen. Thy. 647.

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