Presentazione: l’autore di questo studio è Francesco
Scozzaro studente dell’Università di Palermo che entrò in contatto con me
quando era ancora un liceale nel classico Luigi Pirandello di Bivona.
E’ un giovane studioso molto bravo, come si può vedere
da questo suo scritto. Lo saluto e lo
ringrazio.
giovanni
ghiselli
Le variae tigres:
l’anticipazione dell’horridus nel prologo
della Phaedra senecana
di Francesco Scozzaro
Tra i prologhi delle tragedie senecane, quello della Phaedra è molto particolare e colpisce fin
dall’inizio: Ippolito è nel suo mondo, in silvas,
e ordina, da buon cacciatore, ai compagni, di perlustrare i luoghi dei boschi
dell’Attica e trovare le prede da cacciare. Soltanto in questa atmosfera si
sente sicuro, lontano dal furor, dall’aura populi, dal vulgus
infidum, dall'invidia e dal fragilis favor, che regnano in
moenibus.[1] Si
affida soltanto a una dea, che ama fedelmente, la dea della caccia, Diana, montium domina…/silvarumque virentium/saltuumque reconditorum.[2]
A lei tutte le fiere si sottomettono, i leoni di Getulia, le cerve cretesi, i
danai veloci, i bisonti, gli uri selvatici e le tigri maculate (variae): così si apre l’aretalogia che Ippolito
pronuncia ai versi 57 s.
A chiusura del prologo, Ippolito fa un’ennesima
richiesta a Diana, di assisterlo durante la battuta di caccia (En, diva, fave!…/vocor in silvas./hac, hac pergam qua via
longum/ compensat iter). Ha bisogno di lei, della sua protezione e
desidera che questo avvenga celermente. Diana deve essere la sua alleata[3],
solo allora potrà essere tutus. Ma sarà
davvero come crede Ippolito o la sua è solo un’illusione nata dal furor che lo pervade[4]?
In realtà, l'atmosfera idillica che descrive Ippolito
è solo apparente, e ogni elemento della natura nasconde in sé qualcosa di
sinistro, fino a rivelarsi una vera e propria rete di caccia, nella quale
rimarrà impigliato in validos nodos,[5] impossibili da rompere.
Vorrei focalizzare la mia attenzione su quei termini
che contribuiscono a delineare il locus in
cui si trova Ippolito, fuori dalle mura, come horridus,
soprattutto soffermandomi sulla figura delle tigri variae,
mettendo in evidenza come questo aggettivo assuma una connotazione negativa
nella tragedia senecana.
Il primo verso della Phaedra si
apre con l’ordine di Ippolito ai compagni di circondare le umbrosae
silvae, ambiente pervaso da un’ombra infernale che caratterizza
l’Ade, come è ben chiaro dalle parole di Teseo, che tornato sulla terra,
afferma tandem profugi noctis aeternae plagam/vastoque
manes carcere umbrantem polum, senza sapere che il vero
inferno lo troverà proprio lì, tanto che più avanti sarà costretto a dire ereptos mihi/restitue manes.[6]
Nell’Oedipus ai
versi 530 s. Creonte descrive il luogo in cui Tiresia e Manto si recano per
avere un responso sulla verità riguardo all’uccisione di Laio, e qui medio stat ingens arbor atque umbra gravi/silvas
minores urguet, sotto il quale albero ristagnano acque eternamente
gelate e una palude piena di fango, un ambiente ombroso come le silvae di Ippolito, che ben evidenzia quale sia la
caratteristica dell’umbra,
esatto contrario dell’ombra degli ambienti idillici delle Ecloghe virgiliane, dove era elemento di serenità
per i pastori e per le greggi stesse.[7]
Il primo coro dell’Agamemnon, soffermandosi
sulla sorte di Agamennone, delinea un'atmosfera di turbamento che a un certo
punto tocca persino gli elementi della natura stessa, in cui densasque nemus spargens umbras/annosa videt robora
frangi: un bosco che cresce sempre di più portando un’ombra
rovinosa. La stessa ombra rovinosa sembra presentarsi anche in Thyestes: nella
descrizione del penetrale regni, in cui avrà
luogo il nefas di Atreo, il nuntius parla così: fons
stat sub umbra tristis et nigra piger/haeret palude, una
fonte coperta da un’ombra che la rende triste e lenta (piger).
Altro aggettivo questo, che ritroviamo nel prologo
della Phaedra, dove a essere piger è l’Ilisso che bagna la sabbia
infeconda (steriles harenas), aggettivi
tipici della descrizione di una natura morta, triste e pallida, e
caratteristici dell’Ade, come è ben chiaro dalla descrizione che ne fa Teseo ai
versi 698 s. in Herc. f.:
<< Non prata viridi laeta facie germinant
nec adulta leni fluctuat Zephyro seges;
non ulla ramos silva pomiferos habet:
sterili profundi vastitas squalet soli
et foeda tellus torpet aeterno situ.
[rerumque maestus finis et mundi ultima]
immotus aer haeret
et pigro sedet
nox atra mundo…>>
Un’aria immobile e una notte nera che soccombe sul
mondo piger, in cui ogni cosa è senza vita e
la terra stessa giace abbandonata in un’eterna putredine: in questo scenario
l’aggettivo piger si inserisce perfettamente
e ci dà conferma di un’altra caratteristica negativa del locus
tanto caro a Ippolito, sempre più oscuro, come appare ben
chiaro anche dal verso 10, in cui nemus altaItexitur alno. L’uso del verbo texo, che qui indica l’intrecciarsi dell’alto
ontano che copre i boschi, anticipa quell’atmosfera notturna che Teseo invocherà
nel momento in cui, preso da furor, maledirà il figlio: nunc
atra ventis nubila impellentibus/subtexe noctem, sidera et caelum eripe.
Teseo supplica il padre Nettuno chiedendogli di portare via le
stelle, il cielo, e coprirlo di una nera notte: questo il significato di subtexo.
Ai versi 740 s. Medea, nell’omonima tragedia, sempre
più infuriata, prega (comprecor) ancora una
volta i ferales deos, il Chaos
caecum e l’opacam domum Ditis, e
ricordando i suoi poteri, attraverso i quali era stata capace di invertire il
ritmo delle stagioni (Temporum flexi vices),
invoca la Luna (Phoebe) promettendole che per
lei intreccerà (texuntur) con mani
piene di sangue le corone: il verbo texo è
ancora una volta inserito nello scenario linguistico di una preghiera “al nero”.[8]
A conferma del significato negativo che sembra
assumere nella tragedia senecana è utilizzato anche dall’umbra
Thyestis nell’Agamemnon, quando
racconta la sorte che toccherà al re dei re: ductor
Agamemnon ducum/cuius secutae mille vexillum rates/Iliaca velis maria texerunt
suis,/post decima Phoebi lustra devicto Ilio/ adest daturus coniugi iugulum
suae. Le navi greche che hanno coperto e oscurato i mari Troiani,
credendo di aver vinto, possono tornare in patria. Ma per Agamennone non è
finita, anzi si trova nella stessa situazione di Troia, come afferma lui stesso
in Troades,[9]
e l’umbra Thyestis, da buon προλογίζων, lo preannuncia, delineando un’atmosfera
di apparente sollievo che sfocierà in un esito totalmente negativo, ben reso
dal participio futuro daturus. In questo
contesto è conveniente l’uso di texo, come
anticipazione dell’arrivo di una notte eterna che oscura tutto, quasi come una
sorta di contrappasso: le navi greche hanno coperto i mari di Troia, la casa di
Agamennone inonderà nel sangue e ne sarà coperta. Dunque il significato da
attribuire al verbo texo nella tragedia
senecana potrebbe essere proprio quello di coprire, oscurare e quindi
eliminare, come testimonia un passo delle Naturales
Quaestiones, in cui Seneca, parlando dei fenomeni atmosferici, in
particolare di tuoni e fulmini, racconta che Cambise avrebbe inviato, presso il
tempio del dio Ammone, il suo esercito, il quale venne ricoperto ed eliminato
dalla sabbia, mossa dal vento ([...] quem harena austro
mota et more nivis incidens texit, deinde obruit).[10]
Il prologo continua a essere ricco di aggettivi
negativi che esprimono bene il senso del locus in
cui Ippolito morirà, in cui le bestie cercano pascoli notturni (nocturna petunt pabula), le quali sembrano proprio
svolgere un importante ruolo nell’anticipazione alla καταστροφή,
data dal locus horridus; infatti
ai versi 60 s. Ippolito, elencando gli animali che si sottometteranno alla dea
della caccia, afferma tibi dant variae pectora
tigres: l’aggettivo varius,
attribuito a un animale, indica il tipo di pelle maculata o screziata, che
caratterizza le tigri e in generale i felini feroci,[11]
che simboleggiano la forza selvaggia della natura. Ma c’è di più: varius può essere utilizzato anche nel senso di
incostante, variabile e multiformis,[12]
a significare qualcosa che muta, e nel suo mutare causa il vacillare
della bona mens e della valetudo,
come un passo del Satyricon evidenzia bene.
Durante la cena Trimalchionis nei capitoli 61
s. Nicerote racconta una fabula, soltanto
dopo che i commensali si augurarono (sibi optarunt)
bona mens e bona
valetudo, destinate a crollare appunto, in particolare nel momento
in cui, quando luna lucebat tamquam meridie,
il miles che accompagnava Nicerote dopo
essersi spogliato della sua identità (questo è il significato dell’espressione
latina exuit se et omnia vestimenta sua secundum viam
posuit) lupus factus est, destando
una grandissima paura a Nicerote. Il miles diventa
versipellis, che certamente è sinonimo di multiformis.
Cicerone in De finibus bonorum
et malorum riflette sulla voluptas e
a un certo punto si sofferma sul significato del termine varietas
e afferma:
<< varietas Latinum
verbum est, idque proprie quidem in disparibus coloribus dicitur: sed transfertur in multa disparia; […]
voluptas etiam varia dici potest, cum percipitur ex
multis dissimilibus rebus efficientibus voluptatem.>>[13]
Il piacere può essere vario quando la sensazione di
esso risulta da molti elementi diversi che producono piaceri diversi, ma la voluptas proprio per essere varia è breve e
incostante; così si esprime il terzo coro del Thyestes:
Nulla sors longa est: dolor ac voluptas/invicem cedunt;
brevior voluptas.[14]
Proprio l’aggettivo varius viene
usato varie volte da Seneca per indicare la fortuna incostante: Agamennone in Troades 260 s. consiglia ai potenti e a lui stesso,
che sono al culmine della fortuna, di essere moderati e preoccuparsi dei varios casus.
Medea, nell’omonima tragedia, cercando di convincere
Creonte a farla rimanere ancora per poco, si appella, attraverso una climax, alle vicende dei regni sempre in balia di
una Fortuna varia, incerta e incostante, come
si potrebbero definire le vicende di Medea stessa; proprio lei afferma ai versi
567 s., cercando la collaborazione della nutrice, tu
fida nutrix, socia maeroris mei/variique casus, misera consilia adiuva. L’aggetivo
varius qui ha proprio il significato di
incertezza, un’incertezza che caratterizza il personaggio di Medea, che ai
versi 937 s. si chiede perché stia dubitando e perché sia in preda alla fluctuatio, resa proprio con il termine variam (variamque
nunc ira, nunc illuc amor/diducit?).
Una fluctuatio simile
sembra quella di cui soffre Fedra e che la nutrice descrive con queste parole: nil idem dubiae placet,/artusque varie iactat incertus
dolor.[15]
L’avverbio varie indica la
sofferenza di Fedra che sfocia nella dimensione fisica di una vera e propria νόσος, come sembra essere anche quella di
Clitennestra in Agamemnon, in cui la sposa
del re degli Achei è trasportata fluctibus variis.[16]
Un altro contesto, prettamente negativo, in cui
l’aggettivo varius trova un posto ben
preciso, è la descrizione che il nuntius della
Phaedra fa del mostro, con il quale Ippolito
si dovrà scontrare:
<< Quis habitus ille
corporis vasti fuit!
caerulea taurus colla sublimi
gerens
erexit altam fronte viridanti
iubam;
stant hispidae aures, orbibus
varius color…>>
Un toro con un’imponente criniera, come doveva essere
quella dei leoni di Getulia,[17]
le orecchie ispide e diritte e il colore delle orbite cangiante, in latino varius, come variae erano
le tigri, che Varrone paragona ai leoni.[18]
Il mostro potrebbe proprio essere il risultato dei vari elementi della natura e
sopratutto degli animali che si sarebbero sottomessi a Diana, ma questo adesso
non può più accadere; Diana non potrà assistere Ippolito in questa ultima
battuta di caccia. L’aggettivo varius qui,
che connota gli occhi del mostro, si presenta come caratteristica
preponderante: bastava guardarlo negli occhi per provarne tremor.
La varietas dunque
sembra caratteristica connotante i mostri e lo dimostra bene l’aggettivo con
cui Creonte nell’ Edipo re di Sofocle
definisce la sfinge, e cioè ποικιλῳδός,[19]
dal canto variopinto, dove la ποικιλία greca corrisponde alla varietas latina. Ma non sono solo i mostri a essere
variopinti: nel Mimiambo 5 (Ζηλότυπος) Eronda presenta come protagonista
femminile Bitinna, la quale, accusa il proprio schiavo- amante Gastrone di
rivolgere le sue attenzioni ad un’altra
donna, di nome Anfitea. Per questa grave imputazione Gastrone dovrà subire una
punizione esemplare: mille frustate sulla schiena e mille sul ventre. La
conseguenza sarà che Gastrone diventerà ποικίλον,[20]a
conferma di come tale aggettivo venga utilizzato, anche in ambito ellenistico,
in certi contesti, secondo una connotazione negativa.
Come ulteriore conferma sembra essere illuminante un
verso del sesto libro della Pharsalia di
Lucano: Sesto Pompeo si reca dalla strega Erictho per avere un responso
sull’esito dello scontro, e la strega, racconta Lucano, discolor
et vario furialis cultus amictu/induitur, vultusque aperitur crine
remoto/ et coma vipereis substringitur horrida sertis.[21]
Il mantello è variopinto furialis cultus,
confacendosi perfettamente all’habitus di
Erictho, a darci l’idea di una varietà di colori che sono solo apparenti e
illusionistici, come i colori dell’arcobaleno che descrive Manto in Oedipus, definiti appunto varios.[22]
Anche i colori della reggia di Atreo in Thyeste, hanno la funzione di nascondere qualcosa
di oscuro: le colonne che sostengono il soffitto sono variis
maculis,[23]
ma non appena avverrà il nefas, i colori
mostreranno la loro vera facies impallidita.
Saranno proprio questi colori che faranno dire alla
figlia di Tiresia horresco intuens. Questa
varietà di colori dunque, che caratterizza le tigri del prologo pronunciato da
Ippolito, e che sfocerà nel mostro, risulta essere un altro dei tanti aggettivi
che delineano il locus horridus, in cui
Ippolito rimarrà impigliato nella rete inestricabile da lui stesso tesa.
Francesco
Scozzaro
[3] Cf. Saffo c. 1, 28 in cui la poetessa chiede
ad Afrodite di essere sua alleata, cercandone quasi un diretto contatto.
[4] Il fatto che Ippolito non è padrone di sé è chiaro
dall’uso del verbo passivo al verso 81 (vocor in silvas).
Riguardo alle caratteristiche del furor nella
Phaedra cf. G. Mazzoli, Dinamiche del furor nella Fedra di seneca, Il
chaos e le sue forme, Palermo 2016, pp. 279-294.
[5] Così Lucrezio in De rerum
natura 4, 1148 invitandoci a cercare di non cadere nella rete
d’amore. Ippolito non riesce a fuggire da un amore ossessionato per la caccia,
e cadrà nella stessa rete con la quale catturava le prede. Lo stesso motivo
della rete d’amore si ritrova in Ibico (fr. 287 P. - Dav.) in cui la rete è
definita senza fine, inestricabile “ἀπείρονα δίκτυα”.
[7] Cf. Virg. Ec. 1, 4;
2, 8; l’ombra si presenta come elemento tipico di serenità e riposo anche in
Saffo: cf. fr. 2, 6-7 in
Saffo, Poesie, frammenti e testimonianze a
cura di Camillo Neri e Federico Cinti.
[8] PETRONE, La Medea
di Seneca tra paradigma retorico e tradizione letteraria, in Scritti a margine di letteratura e teatro antichi, Lo
sperimentalismo di Seneca, a cura di Gianna Petrone, Palermo,1999.
[12] Ernout et Meillet, Dictionnaire
Étymologique de la langue latine, Histoire de mots. Paris,
Klincksieck, 2001.
[23] Sen. Thy. 647.
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