lunedì 18 maggio 2020

"Un genio, due traduttori, un mondo". di Giuseppe Moscatt

Giuseppe Antonio Borgese

Giuseppe Moscatt
Un genio, due traduttori, un mondo
(A 70 anni dalla nascita del mito di Wolfang Goethe per mano
del genero di Thomas Mann, Giuseppe Antonio Borgese)

Nel giugno del 1950, veniva pubblicato uno degli ultimi scritti di un famosissimo critico letterario
oggi quasi dimenticato, Giuseppe Antonio Borgese - intitolato “Il mito di Goethe” - giunto ormai
alla fine della sua lunga vita di giornalista, traduttore, poeta, scrittore, ma soprattutto di critico
letterario. Una passione su tutte, la Germania. Illuminista, romantica, decadente e liberale, ma anche
quella imperiale, poi di Weimar e antirazzista, in esilio perché antinazista e poi dalla Costituzione di
Bonn alla repubblica comunista dell'Est, di cui previde, insieme al suocero, Thomas Mann,
l'ineluttabile caduta. Fu un liberale in ogni suo aspetto, perché fu aperto al nuovo, ma ritornò spesso
al classico e lo rilesse alla luce del mondo contemporaneo, non risparmiandosi al confronto con i
suoi compagni di pensiero al di là delle Alpi, primo fra tutti un altro intellettuale nondimeno oggi
poco ricordato, Otto von Taube. Due speciali traduttori, dunque, sul genio di Francoforte di nuovo
sulla scena mondiale, in un'epoca di grandi cambiamenti, quando Borgese e von Taube lo misero al
centro della loro vita e quando promossero l'ultima idea di quel genio, a metà del '900, cioè una
costituzione mondiale figlia di quella letteratura globale che il Vate di Weimar aveva proclamato
quasi sul letto di morte. Giuseppe Antonio Borgese era nato nel 1882 a Polizzi Generosa, in
provincia di Palermo, in una famiglia democratica - il padre, avvocato, mazziniano e garibaldino -
studiò al liceo il tedesco, poi seguì diciottenne a Firenze nel 1900 le lezioni di storia di Pasquale
Villari, maestro di democrazia e fine cultore di storia moderna, corrispondente del Mommsen, che il
giovane Giuseppe apprezzò per la lettura classica corretta dalle regole interpretative della scuola
storicista. Lo spirito liberale e modernista lo portò subito ad avvicinarsi al circolo culturale degli
amici di Papini che aveva fondato un giornale letterario, “Il Leonardo”, cui Borgese collaborò in
modo massiccio, palesando la costante capacità di direzione giornalistica e il metodo semplice di
divulgazione che lo accompagnerà fino alla morte. Diffusore delle ricerche etnografiche dell'amico
Pitré, trovò un grande sostenitore in Benedetto Croce, che lo lodò nelle pagine della sua “Critica”
per la capacità mediatica e intuitiva nel riproporre i grandi letterati italiani romantici, tanto che la
tesi di laurea del giovane pubblicista venne pubblicata a Napoli nel 1905, significativamente
dedicata alla storia della critica romantica in Italia. Qui - con il patrocinio del Croce - nasceva un
primo mito letterario, avallato dalle comuni idee del De Sanctis, quello cioè delle assonanze di
pensiero fra Schopenhauer e Leopardi. Non parve vero al maturo Benedetto quello di avere un
discepolo bravissimo in tedesco e cultore di quella letteratura, accettata entusiasticamente sia per il
marcato storicismo, sia per il concetto cardine di libertà delle arti, legata alla spiritualità delle
forme, mai come all'epoca in materia lontana da esasperate istanze materialiste. Caporedattore del
Mattino di Napoli per la cultura, fu inviato speciale in Germania per due anni - 1907 e 1908 - dove
conobbe i letterati li più in voga, quali Hauptmann, Wedekind, Zweig e Hofmannsthal, che poco
dopo si metterà a tradurre con successo in Italia. Ma in quegli anni intreccia un particolare rapporto
con un intellettuale a lui simile per capacità interpretativa del sentimento antipositivista che portò
non a caso l'attribuzione del premo Nobel per la letteratura al filosofo morale Rudolf Eucken.
Quello scrittore era il già citato Otto von Taube, estone di Tallin, di estrazione borghese, tedesco in
una zona di confine circondata dalla cultura ebraica e slava, nipote di Keyserling, appartenente alla
cerchia del poeta lirico George. Nelle fredde sere del Baltico - dove Giuseppe Antonio si recava per
conoscere la cultura mitica del nord, anche per capire dal vivo il contesto del giovane Mann, ancora
reduce dall'aver pubblicato i Buddenbrook - Otto gli leggeva versi affabulatori del vate George e il
Nostro proprio lì ritrovava le rime del D'Annunzio, che già a Firenze aveva avuto modo di udire da
Prezzolini nella redazione della “Voce”. Fu un’amicizia letteraria e personale che intrattennero fino
agli anni '50, come testimonia un fitto carteggio divenuto di pubblico dominio nel 2002, quando ci
fu una delle sue saltuarie resurrezioni dal passato per merito di Mariarosa Olivieri. Ma non fu una
solitaria discussione fra due pure soggettività poetiche, né un semplice scambio di idee per
aggiornarsi sulle rispettive lingue e letterature. Se si va a vedere chi fossero il loro autori preferiti,
scopriamo il primo passo comune verso una Costituzione mondiale, effetto di una letteratura
transnazionale, che ambedue perseguirono, soprattutto in campo europeo. Se von Taube conobbe e
tradusse S. Francesco, Boccaccio, D'Annunzio; Borgese scoprì Goethe nella lezione però di George
e di Nietzsche, fattore che non va sottovaluto nelle cose che si dirà fra poco. Tornato in Italia,
imbevuto di lirica nazionalista, divenuto uno dei maggiori fautori di D'annunzio e di Wagner, ma
anche di Nietzsche, pubblicò un saggio sul primo, opera che, insieme all'importantissima raccolta di
saggi scritta in Germania, anche col sempre vivo appoggio del Croce, lo porterà a ricoprire
giovanissimo nel 1909 la cattedra di letteratura tedesca alla Regia Università di Roma che reggerà
fino al 1917. Per quasi un decennio, non solo rinforzerà il mito di Goethe e di Schiller padri della
nazione tedesca, ma comporrà poesie e scriverà una massa di commenti e recensioni, dirigerà collane
di libri, intreccerà rapporti conviviali con classici e moderni, senza contare che tra i suoi studenti
siederanno il fior fiore dei germanisti italiani del secolo, primo fra tutti Bonaventura Tecchi. Chi
voglia conoscere la sua prolifica produzione letteraria - dove lo scrivere giornalistico sembrò al De
Lollis, suo diffidente collega che portò in Italia molte ballate di von Platen, un modello dispersivo e
dilettantistico - basterà che scorra il mensile "La lettura", allegato al “Corriere della sera”, appena
fondato e di cui a periodi il Borgese fu sempre fedele critico nelle pagine culturali. Eppure, ben
presto arrivò la rottura con Croce (1911). Non fu una scelta imponderata. Giuseppe Antonio, forse
invasato dalle correnti moderniste e nazionaliste legate alle enfasi dannunziane, ma sicuramente
portato ad un umanesimo etico che aveva visto emergere nella cultura laica toscana e che aveva
ritrovato nell'amico von Taube quando assieme avevano riletto S. Francesco; vide in Croce un
immenso erudito, umanamente non brillante, piccolo borghese e pacifista della domenica. In altri
termini, il “trentenne giornalista della cattedra”, un po’ egocentrico, da una parte comprendeva di
essere arrivato al tempo di edificare e dall'altra di lottare veramente contro l'accademia neutralista e
filistea. Un eroico furore che elaborò uno Sturm und Drang all'italiana, dove il sentimento, la
ragione, l'esaltazione dei valori della tradizioni e dell'ordine classico irrompevano ad un tempo nella
poesia e nella carica, dove mistica e metafisica venivano evidenziate nelle stesse opere di autori
formalmente fino ad allora differenziati. Quasi che la storia della letteratura procedesse per gruppi e
non per autore. Da tale metodo emergeva la nuova figura mitica di Goethe, sempre con lo stesso
senso di umanità del Werther, del Faust, del Götz, del Wilhelm, delle Affinità Elettive, fino alla
Weltliteratur. Una unità di vita e di fede - laica e religiosa allo stesso tempo! - che Giuseppe Antonio
prediligeva con un eroico furore schilleriano, coerente e costante, in ogni ramo della vita culturale e
poi politico. Questa complessità di pensiero, che lo vede prediligere Gianbattista Vico, lo pose
contro le teorie frammentarie dello stesso Croce, primo maestro, di cui non condivise più quelle
posizioni soggettive che lo avevano convinto agli inizi dei suoi studi. Il titanismo del giovane
Goethe - che sarà il metro di lettura della critica letteraria goethiana del dopoguerra - sarà il suo
titanismo antifascista e non più nazionalista che Giuseppe Antonio sconfesserà sul suo Corriere
della sera nel 1920, in un suo intervento finalmente politico e non più culturale, quando difenderà il
diritto della Jugoslavia al mantenimento della Dalmazia. Il suo antifiumanesimo, col relativo
distacco da D'Annunzio, lo pose accanto al vecchio maestro Salvemini, firmando l'appello alla sua
scarcerazione nel 1925, di fronte al suo arresto per attività sovversive contro il governo fascista. Nel
frattempo, la perdita del fratello al fronte, il licenziamento dal Corriere, gli innumerevoli diverbi a
lezione - peraltro era passato all'Università di Milano, dove trovò come assistente Lavinia
Mazzucchetti che lo rimise in contatto con Thomas Mann - lo portarono lontano dalla politica e a
rinnovare l'impegno per la letteratura. E qui non solo dalla parte del lettore critico, ma dal versante
dello scrittore. Scrive un romanzo di forte spessore, “Rubè” (1901), dove il protagonista, un
avvocaticchio preso molto di sé, solo perfetto nelle forme, ma estremamente critico degli altri e di
se stesso - preso a modello forse dallo Zeno di Svevo e dall'Uomo senza qualità di Musil - esprime
tutti i tormenti dell'uomo contemporaneo, in un turbinio di eventi che lo porteranno alla tragica
morte durante una manifestazione antifascista, dopo aver subito ferite di guerra, il morbo della
“Spagnola” e il licenziamento dallo studio legale dove aveva lavorato, per arrricchire un suocero e
una moglie che lo avevano scaricato quando si era opposto alle loro truffe. Un romanzo non molto
dissimile dal “Faust” che aveva interpretato ad uso e consumo della scalata della borghesia postunitaria.
Ripeteva il messaggio dei Viceré di un Federico de Roberto ostracizzato dalla cultura
Crociana e che perciò Borgese osò ripresentare al pubblico che non cessava di leggerlo. Divenuto
ormai uno scrittore “freelance”, più amato dai lettori che non dal Regime, Borgese era però un
punto fermo della "Mondadori" di Milano e da consulente editoriale promosse giovani scrittori della
taglia di Moravia, Soldati, Piovene, che lo seguirà da unico solidale fino alla morte e che poi non lo
dimenticherà nei primi anni '60. Le definizioni di autori di Borgese come “crepuscolari” - per
esempio, Gozzano - o come “calligrafi” - per esempio, Soldati e tutti i registi del cinema c.d. dei
telefoni bianchi, fino a Blasetti e al primo De Sica - campeggiano ancora nelle varie edizioni
scolastiche della storia e della letteratura italiana. Ma il suo insegnamento a Milano fu ridotto alla
mera cattedra di estetica. Unico suo protettore fu il cattolico e quasi eretico Piero Martinetti, fu
inviso a Gentile, tollerato ancora per poco da Mussolini, svalutato da Croce, ma amato da Mann,
fermamente difeso da von Taube di fronte a un Goebbels alquanto indeciso. Ci voleva una
scappatoia per Borgese, ormai un esiliato interno, sempre più vittima di aggressioni da parte di
studenti fascisti, con lettori che però insistevano a leggerlo perché aveva anticipato nelle tecniche di
traduzione lo spirito soggettivista che Vittorini e Pavese avevano appreso dalla letteratura
americana, quando Steinbeck, Hemingway e Dos Passos, proprio per la Mondadori, erano apparsi in
libreria in forma italiana e con uno spirito soggettivo problematico dell'uomo della strada, come
aveva teorizzato proprio Borgese per la letteratura tedesca. Rompendo quindi con la famiglia, che
lo voleva “casa e chiesa”, buono a godersi i diritti d'autore e uno stipendio più che sufficiente;
Borgese accettò l'incarico di “professore in visita” all'Università di Berkeley in California. Era
ormai l'inverno del 1931 e in quei mesi i professori universitari dovevano giurare fedeltà al Regime.
Quasi tutti firmarono, tranne Martinetti e pochi altri, che si ritirarono a vita privata. L'obbligo non
riguardava i professori italiani all'estero e Borgese tergiverserà, finché dopo tre anni di mancata
risposta e lungo un periodo di ripensamento anche per la famiglia rimasta in Italia, dopo aver
conosciuto direttamente tanti esuli tedeschi proprio in California; scrisse un dossier di rifiuto a
sottomettersi a Mussolini. Il passo fu grave per sé e per la famiglia, ma aveva raggiunto finalmente
l'equilibrio della maturità, consigliato dal vecchio amico Salvemini, entrato in “Giustizia e libertà”,
fin dal 1936. Borgese comunque mandò articoli dagli States, poi raccolti nell'interessantissimo
breviario di un italiano all'estero che è l'Atlante americano (1946), che da Calvino fu riproposto nel
1981 e che lo ricordò fra i suoi maestri. Non mancò l'impegno antifascista condensato in cinque
diari americani, ancora una volta riapparsi nel marzo del 2020, dove riemerge la sua continua
tensione morale, la sua battaglia contro il passato, non più però egocentrico dalla sua resurrezione
americana. In questa fase della sua vita, rinnegò le sue stravaganze soggettiviste, rilesse l'ultimo
Goethe che aveva superficialmente mitizzato, operazione di autocorrezione come un sogno
malsano da scacciare prima della morte. Il Faust secondo, pentito come Dante quando scrisse la sua
Commedia, fu la sua personale rinascita. Trovò in America il suo Virgilio in Thomas Mann e la sua
Beatrice, cioè Elisabeth Mann. Continuò a dialogare con il suo Sordello, cioé il sempre amico von
Taube; scrisse infine la sua Utopia, cioè il Preliminary Draft of World Costitution, "Il disegno
preliminare di costituzione mondiale”, pubblicato a Chicago nel 1948 e poi tradotto nell'Italia del
primissimo dopoguerra. Frutto di una visione universalista derivata dalle ultime riflessioni del
vecchio Goethe, cui si stava identificando sempre di più, espose un progetto oggi attualissimo in
questa tragedia pandemiale, proponendo un'ipotesi strettamente federalista, partendo da un modello
europeo anticipatore di De Gasperi, Adenauer e Schumann. Già il suocero Mann lo andava
esponendo in Germania dalla villa svizzera dove si era riunchiuso al rientro in Europa nel 1945,
quando la sua figura sembrava appannarsi nel suo paese d'origine, circostanza che sembrerà incidere
anche nella vita del genero. In un recentissimo articolo sulla “lettura” - allegato al Corriere della
sera del 3 aprile 2020 - Sabino Cassese ne ha ripercorso le linee e a questo facciamo rinvio.
Dell'ultimo Borgese ci piace infine ripercorrere l'ultimo anello che lo ricongiunge al Vate di
Francoforte e al suocero Mann, che avevano toccato lo stesso tasto. Infatti, quest'ultimo in età più
che matura aveva scritto su un amore senile di Goethe, “Lotte in Weimar” (1939), veramente
accaduto e raccontato ad Eckermann nelle famose “Conversazioni” del 1836, nella raccolta di
episodi ed eventi del Maestro negli ultimi anni di vita, vale a dire l'apice della cultura europea
attraverso la vita e il pensiero di un uomo a cavallo fra due secoli. Fra questi ricordi, Mann ritrovò e
pubblicò in forma di romanzo un amore senile di Goethe per la giovanissima allieva di Weimar,
Carlotta, da cui appunto il titolo. Scritto da Mann, ormai anziano, che viveva da esule in California,
circondato dai familiari e amici, uno dei quali era appunto il nostro Giuseppe Antonio. La
frequentazione familiare, unita alla vita da esuli e l'identificazione di Borgese a Mann - come questi
al grande Goethe – spinsero Borgese più di un decennio dopo a riprenderne il tema. Tutto lo
riportava a Thomas, il problema della decadenza, l'ambiguità borghese, l'umanesimo, la musica, la
crisi del romanzo, la seduzione della morte. Temi che i due discussero attraverso la mediazione
della figlia Elisabeth, divenuta seconda moglie di Giuseppe Antonio. Il mito genuino era lo stesso,
Goethe da Francoforte a Weimar, dalla Sicilia (la California) di nuovo in Germania, un eterno
ritorno alla vita di genio fino alla morte. Ed ecco allora “da Dante a Mann (postumo 1958)” e
soprattutto, la novella “la Siracusana”, uscito dalla Treves a Milano nel 1950. Una fuga inevitabile
dopo i contrasti con Mondadori nel secondo dopoguerra, quando Borgese non solo si vide negare il
suo capolavoro politico, “Goliath the March of Fascism”, stampato a New York nel 1937; ma anche
quando il precedente “Disegno” ebbe uno scarso successo editoriale, perché inviso alle culture
socialcomuniste e cattoliche negli anni '50. Nella “Siracusana”, che piacque a Vittorini non solo per
ragioni territoriali, il protagonista, il vecchio Alberto, narrava la storia della morte tragica ad
Augusta di una sua giovane zia di cui si era infatuato. Giuseppe Antonio rivide un mondo restato
come lui l'aveva lasciato. Un quadro di ricordi che si sovrappone alla sua realtà di essere prossimo
alla morte, un bilancio spassionato di una realtà che non è stata e non poteva essere più. Forse un
rimpianto? Forse un mondo che è stato graziato dall'usura del tempo? La pallida bellezza di quella
giovane donna che lui non poté conquistare e che in quelle ore di breve ritorno, insieme a
quell'orrido marito che le fu dato contro la sua volontà e che la condusse alla morte per una
gravidanza che non aveva voluto; rappresentano archetipi letterari che Borgese rimuginava dai
tempi di “Rubé” fino alla “Morte a Venezia” di Mann. Aspetti che lo rendono ancora vivo da
scrittore, ben al di là delle suggestive quanto utopiche rievocazioni del suo progetto politico e ne
fanno un degno continuatore della tradizione letteraria europea, soprattutto per la costante ecletticità
con cui riscostruisce i suoi personaggi, siano essi scrittori, nobili, popolani o borghesi, nelle loro
illusioni, nelle loro amarezze, nelle loro gioie e perfino nei rimpianti e nei pentimenti.

Giuseppe Moscatt

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