Giuseppe Antonio Borgese |
Giuseppe Moscatt
Un genio, due traduttori, un mondo
(A
70 anni dalla nascita del mito di Wolfang Goethe per mano
del
genero di Thomas Mann, Giuseppe Antonio Borgese)
Nel
giugno del 1950, veniva pubblicato uno degli ultimi scritti di un famosissimo
critico letterario
oggi
quasi dimenticato, Giuseppe Antonio Borgese - intitolato “Il mito di Goethe” -
giunto ormai
alla
fine della sua lunga vita di giornalista, traduttore, poeta, scrittore, ma
soprattutto di critico
letterario.
Una passione su tutte, la Germania. Illuminista, romantica, decadente e
liberale, ma anche
quella
imperiale, poi di Weimar e antirazzista, in esilio perché antinazista e poi
dalla Costituzione di
Bonn
alla repubblica comunista dell'Est, di cui previde, insieme al suocero, Thomas
Mann,
l'ineluttabile
caduta. Fu un liberale in ogni suo aspetto, perché fu aperto al nuovo, ma
ritornò spesso
al
classico e lo rilesse alla luce del mondo contemporaneo, non risparmiandosi al
confronto con i
suoi
compagni di pensiero al di là delle Alpi, primo fra tutti un altro intellettuale
nondimeno oggi
poco
ricordato, Otto von Taube. Due speciali traduttori, dunque, sul genio di
Francoforte di nuovo
sulla
scena mondiale, in un'epoca di grandi cambiamenti, quando Borgese e von Taube
lo misero al
centro
della loro vita e quando promossero l'ultima idea di quel genio, a metà del
'900, cioè una
costituzione
mondiale figlia di quella letteratura globale che il Vate di Weimar aveva
proclamato
quasi
sul letto di morte. Giuseppe Antonio Borgese era nato nel 1882 a Polizzi
Generosa, in
provincia
di Palermo, in una famiglia democratica - il padre, avvocato, mazziniano e
garibaldino -
studiò
al liceo il tedesco, poi seguì diciottenne a Firenze nel 1900 le lezioni di
storia di Pasquale
Villari,
maestro di democrazia e fine cultore di storia moderna, corrispondente del
Mommsen, che il
giovane
Giuseppe apprezzò per la lettura classica corretta dalle regole interpretative
della scuola
storicista.
Lo spirito liberale e modernista lo portò subito ad avvicinarsi al circolo
culturale degli
amici
di Papini che aveva fondato un giornale letterario, “Il Leonardo”, cui Borgese
collaborò in
modo
massiccio, palesando la costante capacità di direzione giornalistica e il
metodo semplice di
divulgazione
che lo accompagnerà fino alla morte. Diffusore delle ricerche etnografiche
dell'amico
Pitré,
trovò un grande sostenitore in Benedetto Croce, che lo lodò nelle pagine della
sua “Critica”
per
la capacità mediatica e intuitiva nel riproporre i grandi letterati italiani
romantici, tanto che la
tesi
di laurea del giovane pubblicista venne pubblicata a Napoli nel 1905,
significativamente
dedicata
alla storia della critica romantica in Italia. Qui - con il patrocinio del
Croce - nasceva un
primo
mito letterario, avallato dalle comuni idee del De Sanctis, quello cioè delle
assonanze di
pensiero
fra Schopenhauer e Leopardi. Non parve vero al maturo Benedetto quello di avere
un
discepolo
bravissimo in tedesco e cultore di quella letteratura, accettata
entusiasticamente sia per il
marcato
storicismo, sia per il concetto cardine di libertà delle arti, legata alla
spiritualità delle
forme,
mai come all'epoca in materia lontana da esasperate istanze materialiste.
Caporedattore del
Mattino
di Napoli per la cultura, fu inviato speciale in Germania per due anni - 1907 e
1908 - dove
conobbe
i letterati li più in voga, quali Hauptmann, Wedekind, Zweig e Hofmannsthal,
che poco
dopo
si metterà a tradurre con successo in Italia. Ma in quegli anni intreccia un
particolare rapporto
con
un intellettuale a lui simile per capacità interpretativa del sentimento
antipositivista che portò
non
a caso l'attribuzione del premo Nobel per la letteratura al filosofo morale
Rudolf Eucken.
Quello
scrittore era il già citato Otto von Taube, estone di Tallin, di estrazione
borghese, tedesco in
una
zona di confine circondata dalla cultura ebraica e slava, nipote di Keyserling,
appartenente alla
cerchia
del poeta lirico George. Nelle fredde sere del Baltico - dove Giuseppe Antonio
si recava per
conoscere
la cultura mitica del nord, anche per capire dal vivo il contesto del giovane
Mann, ancora
reduce
dall'aver pubblicato i Buddenbrook - Otto gli leggeva versi affabulatori del
vate George e il
Nostro
proprio lì ritrovava le rime del D'Annunzio, che già a Firenze aveva avuto modo
di udire da
Prezzolini
nella redazione della “Voce”. Fu un’amicizia letteraria e personale che
intrattennero fino
agli
anni '50, come testimonia un fitto carteggio divenuto di pubblico dominio nel
2002, quando ci
fu
una delle sue saltuarie resurrezioni dal passato per merito di Mariarosa
Olivieri. Ma non fu una
solitaria
discussione fra due pure soggettività poetiche, né un semplice scambio di idee
per
aggiornarsi
sulle rispettive lingue e letterature. Se si va a vedere chi fossero il loro
autori preferiti,
scopriamo
il primo passo comune verso una Costituzione mondiale, effetto di una
letteratura
transnazionale,
che ambedue perseguirono, soprattutto in campo europeo. Se von Taube conobbe e
tradusse
S. Francesco, Boccaccio, D'Annunzio; Borgese scoprì Goethe nella lezione però
di George
e
di Nietzsche, fattore che non va sottovaluto nelle cose che si dirà fra poco.
Tornato in Italia,
imbevuto
di lirica nazionalista, divenuto uno dei maggiori fautori di D'annunzio e di
Wagner, ma
anche
di Nietzsche, pubblicò un saggio sul primo, opera che, insieme
all'importantissima raccolta di
saggi
scritta in Germania, anche col sempre vivo appoggio del Croce, lo porterà a
ricoprire
giovanissimo
nel 1909 la cattedra di letteratura tedesca alla Regia Università di Roma che
reggerà
fino
al 1917. Per quasi un decennio, non solo rinforzerà il mito di Goethe e di
Schiller padri della
nazione
tedesca, ma comporrà poesie e scriverà una massa di commenti e recensioni,
dirigerà collane
di
libri, intreccerà rapporti conviviali con classici e moderni, senza contare che
tra i suoi studenti
siederanno
il fior fiore dei germanisti italiani del secolo, primo fra tutti Bonaventura
Tecchi. Chi
voglia
conoscere la sua prolifica produzione letteraria - dove lo scrivere
giornalistico sembrò al De
Lollis,
suo diffidente collega che portò in Italia molte ballate di von Platen, un
modello dispersivo e
dilettantistico
- basterà che scorra il mensile "La lettura", allegato al “Corriere
della sera”, appena
fondato
e di cui a periodi il Borgese fu sempre fedele critico nelle pagine culturali.
Eppure, ben
presto
arrivò la rottura con Croce (1911). Non fu una scelta imponderata. Giuseppe
Antonio, forse
invasato
dalle correnti moderniste e nazionaliste legate alle enfasi dannunziane, ma
sicuramente
portato
ad un umanesimo etico che aveva visto emergere nella cultura laica toscana e
che aveva
ritrovato
nell'amico von Taube quando assieme avevano riletto S. Francesco; vide in Croce
un
immenso
erudito, umanamente non brillante, piccolo borghese e pacifista della domenica.
In altri
termini,
il “trentenne giornalista della cattedra”, un po’ egocentrico, da una parte
comprendeva di
essere
arrivato al tempo di edificare e dall'altra di lottare veramente contro
l'accademia neutralista e
filistea.
Un eroico furore che elaborò uno Sturm und Drang all'italiana, dove il
sentimento, la
ragione,
l'esaltazione dei valori della tradizioni e dell'ordine classico irrompevano ad
un tempo nella
poesia
e nella carica, dove mistica e metafisica venivano evidenziate nelle stesse
opere di autori
formalmente
fino ad allora differenziati. Quasi che la storia della letteratura procedesse
per gruppi e
non
per autore. Da tale metodo emergeva la nuova figura mitica di Goethe, sempre
con lo stesso
senso
di umanità del Werther, del Faust, del Götz, del Wilhelm, delle Affinità
Elettive, fino alla
Weltliteratur.
Una unità di vita e di fede - laica e religiosa allo stesso tempo! - che
Giuseppe Antonio
prediligeva
con un eroico furore schilleriano, coerente e costante, in ogni ramo della vita
culturale e
poi
politico. Questa complessità di pensiero, che lo vede prediligere Gianbattista
Vico, lo pose
contro
le teorie frammentarie dello stesso Croce, primo maestro, di cui non condivise
più quelle
posizioni
soggettive che lo avevano convinto agli inizi dei suoi studi. Il titanismo del
giovane
Goethe
- che sarà il metro di lettura della critica letteraria goethiana del
dopoguerra - sarà il suo
titanismo
antifascista e non più nazionalista che Giuseppe Antonio sconfesserà sul suo
Corriere
della
sera nel 1920, in un suo intervento finalmente politico e non più culturale,
quando difenderà il
diritto
della Jugoslavia al mantenimento della Dalmazia. Il suo antifiumanesimo, col
relativo
distacco
da D'Annunzio, lo pose accanto al vecchio maestro Salvemini, firmando l'appello
alla sua
scarcerazione
nel 1925, di fronte al suo arresto per attività sovversive contro il governo
fascista. Nel
frattempo,
la perdita del fratello al fronte, il licenziamento dal Corriere, gli
innumerevoli diverbi a
lezione
- peraltro era passato all'Università di Milano, dove trovò come assistente
Lavinia
Mazzucchetti
che lo rimise in contatto con Thomas Mann - lo portarono lontano dalla politica
e a
rinnovare
l'impegno per la letteratura. E qui non solo dalla parte del lettore critico,
ma dal versante
dello
scrittore. Scrive un romanzo di forte spessore, “Rubè” (1901), dove il
protagonista, un
avvocaticchio
preso molto di sé, solo perfetto nelle forme, ma estremamente critico degli
altri e di
se
stesso - preso a modello forse dallo Zeno di Svevo e dall'Uomo senza qualità di
Musil - esprime
tutti
i tormenti dell'uomo contemporaneo, in un turbinio di eventi che lo porteranno
alla tragica
morte
durante una manifestazione antifascista, dopo aver subito ferite di guerra, il
morbo della
“Spagnola”
e il licenziamento dallo studio legale dove aveva lavorato, per arrricchire un
suocero e
una
moglie che lo avevano scaricato quando si era opposto alle loro truffe. Un
romanzo non molto
dissimile
dal “Faust” che aveva interpretato ad uso e consumo della scalata della
borghesia postunitaria.
Ripeteva
il messaggio dei Viceré di un Federico de Roberto ostracizzato dalla cultura
Crociana
e che perciò Borgese osò ripresentare al pubblico che non cessava di leggerlo.
Divenuto
ormai
uno scrittore “freelance”, più amato dai lettori che non dal Regime, Borgese
era però un
punto
fermo della "Mondadori" di Milano e da consulente editoriale promosse
giovani scrittori della
taglia
di Moravia, Soldati, Piovene, che lo seguirà da unico solidale fino alla morte
e che poi non lo
dimenticherà
nei primi anni '60. Le definizioni di autori di Borgese come “crepuscolari” -
per
esempio,
Gozzano - o come “calligrafi” - per esempio, Soldati e tutti i registi del
cinema c.d. dei
telefoni
bianchi, fino a Blasetti e al primo De Sica - campeggiano ancora nelle varie
edizioni
scolastiche
della storia e della letteratura italiana. Ma il suo insegnamento a Milano fu
ridotto alla
mera
cattedra di estetica. Unico suo protettore fu il cattolico e quasi eretico
Piero Martinetti, fu
inviso
a Gentile, tollerato ancora per poco da Mussolini, svalutato da Croce, ma amato
da Mann,
fermamente
difeso da von Taube di fronte a un Goebbels alquanto indeciso. Ci voleva una
scappatoia
per Borgese, ormai un esiliato interno, sempre più vittima di aggressioni da
parte di
studenti
fascisti, con lettori che però insistevano a leggerlo perché aveva anticipato
nelle tecniche di
traduzione
lo spirito soggettivista che Vittorini e Pavese avevano appreso dalla
letteratura
americana,
quando Steinbeck, Hemingway e Dos Passos, proprio per la Mondadori, erano
apparsi in
libreria
in forma italiana e con uno spirito soggettivo problematico dell'uomo della
strada, come
aveva
teorizzato proprio Borgese per la letteratura tedesca. Rompendo quindi con la
famiglia, che
lo
voleva “casa e chiesa”, buono a godersi i diritti d'autore e uno stipendio più
che sufficiente;
Borgese
accettò l'incarico di “professore in visita” all'Università di Berkeley in
California. Era
ormai
l'inverno del 1931 e in quei mesi i professori universitari dovevano giurare
fedeltà al Regime.
Quasi
tutti firmarono, tranne Martinetti e pochi altri, che si ritirarono a vita
privata. L'obbligo non
riguardava
i professori italiani all'estero e Borgese tergiverserà, finché dopo tre anni
di mancata
risposta
e lungo un periodo di ripensamento anche per la famiglia rimasta in Italia,
dopo aver
conosciuto
direttamente tanti esuli tedeschi proprio in California; scrisse un dossier di
rifiuto a
sottomettersi
a Mussolini. Il passo fu grave per sé e per la famiglia, ma aveva raggiunto
finalmente
l'equilibrio
della maturità, consigliato dal vecchio amico Salvemini, entrato in “Giustizia
e libertà”,
fin
dal 1936. Borgese comunque mandò articoli dagli States, poi raccolti
nell'interessantissimo
breviario
di un italiano all'estero che è l'Atlante americano (1946), che da Calvino fu
riproposto nel
1981
e che lo ricordò fra i suoi maestri. Non mancò l'impegno antifascista
condensato in cinque
diari
americani, ancora una volta riapparsi nel marzo del 2020, dove riemerge la sua
continua
tensione
morale, la sua battaglia contro il passato, non più però egocentrico dalla sua
resurrezione
americana.
In questa fase della sua vita, rinnegò le sue stravaganze soggettiviste,
rilesse l'ultimo
Goethe
che aveva superficialmente mitizzato, operazione di autocorrezione come un
sogno
malsano
da scacciare prima della morte. Il Faust secondo, pentito come Dante quando
scrisse la sua
Commedia,
fu la sua personale rinascita. Trovò in America il suo Virgilio in Thomas Mann
e la sua
Beatrice,
cioè Elisabeth Mann. Continuò a dialogare con il suo Sordello, cioé il sempre
amico von
Taube;
scrisse infine la sua Utopia, cioè il Preliminary Draft of World Costitution,
"Il disegno
preliminare
di costituzione mondiale”, pubblicato a Chicago nel 1948 e poi tradotto
nell'Italia del
primissimo
dopoguerra. Frutto di una visione universalista derivata dalle ultime
riflessioni del
vecchio
Goethe, cui si stava identificando sempre di più, espose un progetto oggi
attualissimo in
questa
tragedia pandemiale, proponendo un'ipotesi strettamente federalista, partendo
da un modello
europeo
anticipatore di De Gasperi, Adenauer e Schumann. Già il suocero Mann lo andava
esponendo
in Germania dalla villa svizzera dove si era riunchiuso al rientro in Europa
nel 1945,
quando
la sua figura sembrava appannarsi nel suo paese d'origine, circostanza che
sembrerà incidere
anche
nella vita del genero. In un recentissimo articolo sulla “lettura” - allegato
al Corriere della
sera
del 3 aprile 2020 - Sabino Cassese ne ha ripercorso le linee e a questo
facciamo rinvio.
Dell'ultimo
Borgese ci piace infine ripercorrere l'ultimo anello che lo ricongiunge al Vate
di
Francoforte
e al suocero Mann, che avevano toccato lo stesso tasto. Infatti, quest'ultimo
in età più
che
matura aveva scritto su un amore senile di Goethe, “Lotte in Weimar” (1939),
veramente
accaduto
e raccontato ad Eckermann nelle famose “Conversazioni” del 1836, nella raccolta
di
episodi
ed eventi del Maestro negli ultimi anni di vita, vale a dire l'apice della
cultura europea
attraverso
la vita e il pensiero di un uomo a cavallo fra due secoli. Fra questi ricordi,
Mann ritrovò e
pubblicò
in forma di romanzo un amore senile di Goethe per la giovanissima allieva di
Weimar,
Carlotta,
da cui appunto il titolo. Scritto da Mann, ormai anziano, che viveva da esule
in California,
circondato
dai familiari e amici, uno dei quali era appunto il nostro Giuseppe Antonio. La
frequentazione
familiare, unita alla vita da esuli e l'identificazione di Borgese a Mann -
come questi
al
grande Goethe – spinsero Borgese più di un decennio dopo a riprenderne il tema.
Tutto lo
riportava
a Thomas, il problema della decadenza, l'ambiguità borghese, l'umanesimo, la
musica, la
crisi
del romanzo, la seduzione della morte. Temi che i due discussero attraverso la
mediazione
della
figlia Elisabeth, divenuta seconda moglie di Giuseppe Antonio. Il mito genuino
era lo stesso,
Goethe
da Francoforte a Weimar, dalla Sicilia (la California) di nuovo in Germania, un
eterno
ritorno
alla vita di genio fino alla morte. Ed ecco allora “da Dante a Mann (postumo
1958)” e
soprattutto,
la novella “la Siracusana”, uscito dalla Treves a Milano nel 1950. Una fuga
inevitabile
dopo
i contrasti con Mondadori nel secondo dopoguerra, quando Borgese non solo si
vide negare il
suo
capolavoro politico, “Goliath the March of Fascism”, stampato a New York nel
1937; ma anche
quando
il precedente “Disegno” ebbe uno scarso successo editoriale, perché inviso alle
culture
socialcomuniste
e cattoliche negli anni '50. Nella “Siracusana”, che piacque a Vittorini non
solo per
ragioni
territoriali, il protagonista, il vecchio Alberto, narrava la storia della
morte tragica ad
Augusta
di una sua giovane zia di cui si era infatuato. Giuseppe Antonio rivide un
mondo restato
come
lui l'aveva lasciato. Un quadro di ricordi che si sovrappone alla sua realtà di
essere prossimo
alla
morte, un bilancio spassionato di una realtà che non è stata e non poteva
essere più. Forse un
rimpianto?
Forse un mondo che è stato graziato dall'usura del tempo? La pallida bellezza
di quella
giovane
donna che lui non poté conquistare e che in quelle ore di breve ritorno,
insieme a
quell'orrido
marito che le fu dato contro la sua volontà e che la condusse alla morte per
una
gravidanza
che non aveva voluto; rappresentano archetipi letterari che Borgese rimuginava
dai
tempi
di “Rubé” fino alla “Morte a Venezia” di Mann. Aspetti che lo rendono ancora
vivo da
scrittore,
ben al di là delle suggestive quanto utopiche rievocazioni del suo progetto
politico e ne
fanno
un degno continuatore della tradizione letteraria europea, soprattutto per la
costante ecletticità
con
cui riscostruisce i suoi personaggi, siano essi scrittori, nobili, popolani o
borghesi, nelle loro
illusioni,
nelle loro amarezze, nelle loro gioie e perfino nei rimpianti e nei pentimenti.
Giuseppe Moscatt
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