Nel
settimanale “il venerdì di Repubblica” del primo maggio c’è un articolo di
Tomaso Montanari intitolato “Lassù c’è la Giustizia: riportiamola per le
strade”. L’autore, storico dell’arte, mi piace perché scrive non solo con
sensibilità e competenza ma anche politicamente, secondo un’idea, cioè una
visione politica che mi è congeniale e credo lo sia a tutte le persone buone.
Montanari
dunque parte da un nuovo sguardo della Colonna della Giustizia situata in
piazza Santa Trinita a Firenze.
“La volle Cosimo, primo duca e
granduca: sempre all’inseguimento del modello romano, imperiale”. Questo Cosimo
de’ Medici, meno noto ai più del patriarca detto “il Vecchio”, era figlio di
Giovanni dalle bande nere.
“Cosimo se lo fece regalare da un
papa, che lo tolse alle Terme di Caracalla. Quando arrivò in piazza - era il 27
settembre 1563, dopo quasi un Anno e mezzo che era partito da Roma - si aprì un
barile di vino per dar da bere a tutte le maestranze impegnate in quella
straordinaria impresa. Poi Bartolomeo Ammannati le costruì la testa e il piede:
quest’ultimo davvero magnifico, con una panca elegantissima che per fortuna
nessuno ha pensato di transennare. Infine Francesco del Tadda, l’unico capace
di scolpire il durissimo porfido, dette forma alla statua della Giustizia che
la corona”
Veniamo alla riflessione politica e
morale ispirata a Montanari dalle presenze umane che significavano invece
l’ingiustizia della società e del sistema di oggi.
“Solo girandole intorno, poi, mi
accorsi che sulla sua panca sedevano, in compostissimo silenzio, cinque riders,
provenienti a occhio da ogni continente: nelle loro divise di plastica
variopinta, le biciclette parcheggiate lì accanto, aspettavano evidentemente di
poter consegnare, per qualche centesimo, un ordine di qualche ristorante
vicino. Era come se mi fossero apparsi i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini,
Piero Calamandrei: che, proprio qua, ai piedi della Colonna della Giustizia, il
31 dicembre del 1924 videro bruciare i libri del loro Circolo di Cultura dai
fascisti. Sì, perché c’è una cosa che unisce i padri della nostra Costituzione,
i quali vollero fondare la Repubblica sul lavoro che oggi si festeggia, e
questi lavoratori senza diritti che solo con un grande sforzo riusciamo a
vedere anche se sono ogni giorno sotto il nostro naso. E quella cosa è la
Giustizia: che un granduca vole far volare alta sopra le nostre teste, e che
oggi invece spetta a noi far camminare sopra le nostre strade”.
Parole piene di significati buoni.
Non retoriche ma politiche e morali.
Voglio commentare Montanari con due
autori che mi hanno educato su tanti aspetti della vita, compresa la Giustizia.
Sono tra i massimi profeti di Divkh.
Solone, il legislatore ateniese del
VI secolo a. C. è il più antico dei due.
La giustizia in Omero era ancora Il diritto (qevmi~) di
una società aristocratica nella quale le norme sono concepite come
espressione di una volontà soprannaturale e sono fatte osservare, sono imposte
da una classe superiore il cui
predominio deriva da un'investitura divina. Ma già nel VII secolo, cominciano
gli elogi di una giustizia nuova (la divkh appunto),
mostrata a tutti (cfr. deivknumi, lat. dico), tale che
comprende l'idea dell'uguaglianza.
Esiodo per primo dà voce a questa
esigenza. Egli nel poema più
recente (Opere
e giorni, vv. 202 e sgg.)
ne fa l'apologia raccontando
la favola dello sparviero e dell'usignolo. La legge del più forte che annienta
il più debole vale per gli animali, non per gli uomini. Viene
raccomandata la giustizia che trionfa sulla prepotenza. Dove manca dike imperversano
peste, fame e sterilità. C'è un
invito a evitare i giudizi contorti poiché procura il male a se stesso chi lo
prepara per un altro, e il progetto malvagio è pessimo per chi l'ha progettato (Opere, vv.265 - 266). La
giustizia esiodea è una forza solo in parte umana, per molti aspetti
sovrannaturale, ma essa già contiene
una premessa di isonomìa (uguaglianza
davanti alla legge) e moralità, anche se la piena scoperta e valorizzazione del
cosmo morale avviene con Socrate, condannato a morte da un tribunale ateniese
nel 399.
Con
Solone comunque l'idea di giustizia progredisce e si politicizza, ossia entra
nella costituzione della polis. Così, pur
rimanendo alcunché di trascendente nella Giustizia del legislatore ateniese,
essa si storicizza e perde qualche cosa del suo carattere mitico.
Partiamo dai primi versi dall'Elegia così detta alle Muse (fr.
1D, vv. 1 - 16)
Ne do la mia traduzione
"Splendide figlie della
Memoria e di Zeus Olimpio,
Muse Pieridi, ascoltate la mia
preghiera:
concedetemi il benessere (o[lbon) da parte degli dei beati, e di
avere una buona/
reputazione (dovxan e[cein ajgaqhvn) da parte di tutti
gli uomini sempre;
in modo che così possa essere dolce
per gli amici e amaro per i nemici, 5
rispettato da gli uni, temibile a
vedersi per gli altri.
Ricchezze desidero averne, ma
possederle ingiustamente non voglio:
in ogni caso più tardi è solita
arrivare Giustizia (pavntw~ u{steron h\lqe
divkh).
La ricchezza che danno gli dèi, è
solida
per l'uomo dall'ultimo fondo alla
cima;10
quella cui vanno dietro gli
uomini spinti dalla prepotenza (uJy j
u{brio~), non arriva/
con ordine (kata; kovsmon), ma siccome obbedisce alle
azioni ingiuste,
segue di malavoglia, e presto vi si
mescola l'accecamento (ajnamivsgetai a[th).
L'inizio nasce da piccola cosa,
come il principio di un incendio,
e dapprima è insignificante, ma
l'esito è penoso15;
infatti non durano a lungo le opere
della prepotenza - u{brio~ e[rga - per
i mortali.
L’elegia
di Solone forse più nota, e di contenuto in gran parte politico è quella così
detta del Buon
Governo (fr. 3 D). In questi versi cresce la responsabilità dell'uomo
relativamente al proprio destino. Traduco tutto il frammento pervenuto:
"La
nostra città non andrà mai in rovina per destino
di
Zeus e volontà dei beati dèi immortali:
infatti
tale custode magnanima, figlia di padre potente
Pallade
Atena le tiene sopra le mani.
Ma
i cittadini stessi con la loro follia vogliono distruggere la grande città
sedotti dalle ricchezze,
e
ingiusta è la mente dei capi del popolo, cui è destinato
soffrire
molti dolori in seguito alla gran prepotenza:
infatti
non sanno trattenere l'avidità né godere
con
ordine le gioie presenti nella serenità del convito. 10
Ma
si arricchiscono fidando in opere ingiuste
e
non risparmiando le proprietà sacre nè in alcun modo le ricchezze/
pubbliche:
rubano per arraffare chi da una parte chi dall'altra
né
osservano i venerandi fondamenti di Giustizia,
che,
pur mentre tace, conosce il passato e il presente 15,
e
con il tempo in ogni caso giunge a fare pagare.
Questa
piaga ineludibile oramai arriva su tutta la città,
ed
essa subito cade nella squallida servitù,
che
risveglia la lotta dentro la stirpe e la guerra dormiente,
la
quale distrugge l'amabile giovinezza di molti: 20
infatti
per opera dei malevoli tosto la città molto amata
si
rovina nei partiti cari agli ingiusti.
Questi
mali nel popolo si aggirano: e dei poveri
molti
giungono in terra straniera
venduti
e legati con ceppi indegni 25
Così
il danno comune entra in casa a ciascuno:
né
valgono più le porte del cortile a trattenerlo,
e
salta oltre il recinto pur alto, e trova in ogni caso,
anche
se uno sia rifugiato nel fondo del talamo.
Questi
precetti l'animo mi spinge ad insegnare agli Ateniesi, 30
che
il Malgoverno procura moltissimi mali alla città, kaka; plei'sta povlei Dusnomivh parevcei
mentre
il Buongoverno mostra ogni cosa ordinata e armonizzata
Eujnomivh
d j eu[kosma kai; a[rtia pavnt j ajpofaivnei
e
spesso mette i ceppi addosso agli ingiusti:
leviga
le asperità, fa cessare l'insolenza, oscura la prepotenza,
dissecca
i fiori nascenti dell'acciecamento, 35
raddrizza
i giudizi tortuosi, mitiga le azioni
superbe,
e fa cessare le opere della discordia,
e
fa cessare la rabbia della contesa terribile, e sono sotto di lui
tutte
le cose tra gli uomini armonizzate e assennate".
Questi
versi dovrebbero indurre a riflettere quanti, passati i Saturnali e il breve
allentamento delle catene degli schiavi tornati al rango di cose, cose ordinarie,
continuano a fare festa e a sputare sentenze intese a penalizzare la povera
gente.
Ricavo
questa immagine dall’ elegantiae arbiter di
Nerone: "itaque
populus minutus laborat; nam istae maiores maxillae semper Saturnalia agunt"
(Satyricon,
44, 3), e così il popolino sta male; infatti questi ganascioni festeggiano
sempre.
Solone, si ricorderà, non era stato
preso dalla vertigine davanti alle smisurate ricchezze del pacchiano re di
Lidia Creso che gliele indicava con immensa volgarità.
Passo
a Eschilo e concludo
Nell'Agamennone troviamo
l'idea che dalla ricchezza rifugge la Giustizia la quale"brilla nelle case
dal povero fumo e onora la vita onesta" (Divka de, lavmpei me;n ejn - duskavpnoiς dwvmasin - tovn t j ejnavsimon tivei - bivon (
secondo stasimo, vv.773 - 775).
Il
terzo stasimo poi suggerisce di gettare dallo scafo, con misurato lancio (sfendovna~ ajp j eujmevtrou , v. 1010), addirittura parte della
proprietà acquistata, per salvare la nave, e la casa, dall’affondamento. La
dismisura dunque, e non solo quella dei mali, provoca l’inabissamento.
Pochi versi più avanti il
coro indica uno degli effetti della dismisura: una volta caduto a terra, nero/sangue mortale di quello
che prima era un uomo chi/potrebbe farlo tornare indietro cantando?"(vv.
1019 - 1021).
Nelle Eumenidi, la
terza tragedia della trilogia del 458 (la seconda è le Coefore ),
le stesse Erinni, nemiche dell'ordine statale e patriarcale, divinizzano la
Giustizia ammonendo:"Rispetta l'altare di Dike e non prenderlo a calci con
piede ateo, poiché dopo incombe la pena"(vv. 539 - 541).
Bologna
2 maggio 2020 giovanni ghiselli
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