NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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domenica 3 maggio 2020

La storia di Päivi. Capitolo 25. Attraverso la sofferenza la comprensione


Attraverso la sofferenza la comprensione

L’amore tra noi con l’abortimento della nostra creatura era finito, e non solo l’amore. Non avevamo più niente da fare insieme, niente da dirci,
Päivi mi aveva già dato e detto tutto quanto doveva per farmi comprendere che lo studio disciplinato dei libri buoni poteva aiutarmi a vivere meglio, a essere meno meschino, vuoto, insignificante.
Non mi doveva più niente e non voleva più niente da me.
Non volle nemmeno dirmi se aveva abortito. Io, per sapere questo, le scrissi durante l’autunno, l’inverno e la primavera: una volta ogni due settimane per diversi mesi, invitandola sempre a rispondere almeno alle domande sulla salute e sui sentimenti suoi; inoltre rimasi sessualmente fedele alla sua immagine per centosettantadue giorni, fino all’11 marzo del 1975, quando conobbi una collega giovane, attraente e ben disposta nei miei confronti, seppure sposata, malmaritata probabilmente, mentre lei, Päivi dico, non aveva cura di me e non rispondeva alle lettere mie. Telefonai, anche, diverse volte, nel monolocale di Yväskylä dove mi aveva ospitato in settembre, ma quella donna, ferocemente, si faceva negare, oppure alle mie domande angosciose e incalzanti rispondeva in maniera generica, elusiva, evasiva.

Ora mi chiedo: se quando abbiamo concepito il bambino, e poi per un mese, ci siamo amati e siamo stati felici, perché non abbiamo fatto nascere la nostra creatura?
Rispondo: perché non ci amavamo abbastanza a vicenda, perché ciascuno di noi non amava se stesso e la vita tanto da creare la vita. E questa carenza di amore in me era causata da un sentimento di insufficienza: mi sentivo intelligente a metà, buono a metà, bello a metà. Il sentimento del cinque che probabilmente angosciava anche lei. Eravamo due dimidiati amantes che l’unione non aveva portato a una sufficiente simpatia per la vita. Soltanto egoisti eravamo del tutto ambedue. Ciascuno di noi aveva amato non la persona dell’altro, e nemmeno la propria, ma la stranezza, l’esoticità dell’amante, il proprio sentimento, e la bella cornice di tutta la storia: l’Università di Debrecen, la “grande foresta” con il ponticello sul lago dove gracidava la rana lontana, il sangue di toro di Eger, la palinka all’albicocca e così via.
Insomma abbiamo funzionato benissimo per un mese bello in una vacanza bella. Poi basta.
Più di così non era possibile, non era destino.
La funzione di quell’amore diventato fictus era finita.

giovanni ghiselli

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