Attraverso la sofferenza la comprensione
L’amore tra noi con l’abortimento della nostra creatura era finito, e non solo l’amore. Non avevamo più niente da fare insieme, niente da dirci,
L’amore tra noi con l’abortimento della nostra creatura era finito, e non solo l’amore. Non avevamo più niente da fare insieme, niente da dirci,
Päivi mi aveva già dato e detto
tutto quanto doveva per farmi comprendere che lo studio disciplinato dei libri
buoni poteva aiutarmi a vivere meglio, a essere meno meschino, vuoto,
insignificante.
Non mi doveva più niente e non
voleva più niente da me.
Non volle nemmeno dirmi se aveva
abortito. Io, per sapere questo, le scrissi durante l’autunno, l’inverno e la
primavera: una volta ogni due settimane per diversi mesi, invitandola sempre a
rispondere almeno alle domande sulla salute e sui sentimenti suoi; inoltre
rimasi sessualmente fedele alla sua immagine per centosettantadue giorni, fino
all’11 marzo del 1975, quando conobbi una collega giovane, attraente e ben disposta nei
miei confronti, seppure sposata, malmaritata probabilmente, mentre lei, Päivi
dico, non aveva cura di me e non rispondeva alle lettere mie. Telefonai, anche,
diverse volte, nel monolocale di Yväskylä dove mi aveva ospitato in settembre,
ma quella donna, ferocemente, si faceva negare, oppure alle mie domande
angosciose e incalzanti rispondeva in maniera generica, elusiva, evasiva.
Ora mi chiedo: se quando abbiamo
concepito il bambino, e poi per un mese, ci siamo amati e siamo stati felici,
perché non abbiamo fatto nascere la nostra creatura?
Rispondo: perché non ci amavamo
abbastanza a vicenda, perché ciascuno di noi non amava se stesso e la vita
tanto da creare la vita. E questa carenza di amore in me era causata da un
sentimento di insufficienza: mi sentivo intelligente a metà, buono a metà, bello
a metà. Il sentimento del cinque che probabilmente angosciava anche lei.
Eravamo due dimidiati
amantes che l’unione non aveva portato a una sufficiente simpatia per
la vita. Soltanto egoisti eravamo del tutto ambedue. Ciascuno di noi aveva
amato non la persona dell’altro, e nemmeno la propria, ma la stranezza,
l’esoticità dell’amante, il proprio sentimento, e la bella cornice di tutta la
storia: l’Università di Debrecen, la “grande foresta” con il ponticello sul
lago dove gracidava la rana lontana, il sangue di toro di Eger, la palinka
all’albicocca e così via.
Insomma abbiamo funzionato
benissimo per un mese bello in una vacanza bella. Poi basta.
Più di così non era possibile, non
era destino.
La funzione di quell’amore
diventato fictus era
finita.
giovanni ghiselli
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