Edwin Megargee, Hunting dog |
Faina, la buona Ciuvassa e il mio ceffo da cane. Il contrappasso
Durante le
vacanze di Pasqua, Bruno Pera morì in un incidente stradale nel Sudan.
Cominciarono presto le dipartite degli amici di Debrecen. Oggi noi superstiti
siamo ben pochi.
In
quei giorni di ferie, per non dimenticare le sensazioni dell’estate passata,
andai a interrogare la grande facciata grigia del Budaörsi Kollegium e tutti i
luoghi dove ero stato felice con Päivi. Prendevo appunti Meditavo di raccontare
tutta la storia, ma solo dopo avere elaborato il dolore della fine. La pena
doveva diventare intelligenza dei fatti, di me stesso, della donna.
Anche questo
pellegrinaggio a luoghi che consideravo sacri, ebbe del resto un aspetto
egoista e crudele, poiché mentre giravo devoto ed estatico, fuori di me come
l’adoratore di una divinità crudele, tra i locali, per le piazze, lungo le vie,
attraverso le campagne frequentate in agosto con la donna di cui ero pur sempre
follemente innamorato, in quell’aprile lontano mi portavo dietro un’altra
amante: Faina, una Ciuvassa russificata che stava facendo la tesi a Budapest.
Ci eravamo
conosciuti a Debrecen nell’estate già allora lontana del ’72, quella dell’amore
di Kaisa che ho già raccontato nel secondo dramma di questa trilogia finlandese
prossima a terminare. Poi magari tornerò al satiresco su Ifigenia. Scrivo queste
storie perché vengono lette da tanti visitatori del blog cui forse curano
l’anima, e anche con la speranza di ritardare la morte. Faccio tesoro di
sentimenti forti che mantengano viva la memoria dei significati di una vita
vissuta nell’amore, nella gioia e nel dolore. Senza giochi di carte dico, né
visioni, tanto maschili, di partite di calcio, né droga, né fumo e simili
lordure. Un po’ di vino magari sì.
Apollo,
Venere e Bacco senza tabacco.
Faina
dunque, la sera della sua partenza dalla cittadina universitaria ungherese mi
aveva chiesto di accompagnarla alla stazione, poi, siccome il treno per
Samarcanda aveva un grosso ritardo, eravamo andati a parlare e a bere
dell’Egribikavèr[1] all’Arany
bika[2].
Le avevo
esposto la mia visione del mondo nella lingua magiara, in breve e molto
all’ingrosso.
Tuttavia da
quella sera remota, Faina, da vera Ciuvassa russificata e romantica, si era
creata il mito di Gianni il buono, il generoso, l’ingenuo, e lo coltivava senza
ragione, come una delle creature estreme di Dostoevskij. In particolare mi
associava al principe Myskin, l’idiota santo e geniale. Diceva di amarmi perché
nell’anima mia vedeva la forza della bontà. Avrebbe studiato e imparato bene la
lingua italiana per comunicare con me. Mi amava e sperava di venire
contraccambiata.
Tuttavia in
quei giorni della primavera del 1975 non poté non accorgersi che ero innamorato
di un’altra e me lo fece notare con mitezza e mestizia.
Una mattina,
mentre giravamo l’Ungheria con la nera Volkswagen e io andavo a caccia di
ricordi con gli occhi, con le orecchie, fiutando le tracce lasciate da Päivi
con il naso e con tutto il ceffo davvero da cane, Faina notò che avevo un
grosso peso nel cuore e me lo disse.
Non la
smentii, siccome sono stato anche po’ farabutto in questa mia vita mortale, ma
bugiardo per niente. Mi piaccio abbastanza da non dovermi camuffare.
Posso capire
e accettare la dissimulazione, ma non ammetto né mi permetto la simulazione
servile.
Avuta dunque
la mia tacita conferma, Faina si mise a cantare una canzone ciuvassa dalla
melodia triste. Quindi me la tradusse.
Una donna
dice a un uomo: “Amore mio, portami via con te: ti farò da compagna”.
L’uomo
risponde: “Non ti voglio: ho già una compagna”
Lei allora
gli fa: “Caro, portami via con te: ti farò da sorella”
E lui: “Non
ti voglio: ho già una sorella”.
Infine la
donna lo prega: “Ti prego, portami via con te, ti farò da serva straniera”.
“Non ho
bisogno di una serva straniera” - risponde spietatamente l’uomo - Va’ via”.
“Tu sei
quell’uomo, Gianni, io quella donna”, concluse Faina sbirciandomi
malinconicamente con occhi tartari, obliqui.
Mi venne in
mente: “I am your wife il you will marry me;/if not. I’ll die your maid”[3].
Invece
dissi: “Faina, tu sei una cara compagna e io ti vorrò sempre bene”.
Di fatto
però tale rimprovero, seppure mite, mi faceva danzare, dolorosamente, in mezzo
alle Erinni. Io stavo infliggendo ingiustizia e crudeltà a quella creatura
immeritevole di tale maltrattamento.
Ne imploro
perdono a lei e a Dio, chiunque egli sia.
Vero è che
più avanti dovrò scontare queste sofferenze arrecate a Faina con quanti dolori
mi verranno inferti da Ifigenia e altre vendicatrici.
Poiché il
male fatto si paga: prima o poi torna indietro, rimbalza sull’autore secondo il
contrappasso.[4]
Tra gli
altri pregi, quella ragazza ventitreenne aveva quello di essere comunista
convinta. Il regime diceva, perfino al tempo di Stalin, aveva aiutato la gente
e le popolazioni più povere dell’Unione Sovietica. Per questo lei aveva potuto
studiare, viaggiare e fruiva ancora di borse di studio. Dall’autunno seguente
avrebbe lavorato come interprete a Budapest.
Forse con
lei ho perso, per mia stupidità, la donna migliore, la più buona, la più
intelligente e capace che abbia mai incontrato.
Allora avevo
soprattutto bisogno di un’amica buona che mi credesse tanto, tanto buono e mi
desse qualche indicazione e qualche ragione per diventarlo davvero.
Päivi mi
aveva motivato allo studio intelligente e al pensiero cosciente, e io
cominciavo a capire che non si può essere davvero felici se non si è davvero,
profondamente morali.
Faina diceva
che le facevo comunque del bene poiché la aiutavo a pensare con lucido realismo
e la motivavo a studiare la mia bella lingua madre.
E mi amava
perché comunque ero buono e gentile.
A me invece
in certi momenti sembrava di essere un boia perverso che strazia una vittima
innocentissima con crudeltà inaudita.
Perciò,
finita la breve feria d’Aprile, tornai volentieri a Bologna per terminare
decentemente l’anno scolastico.
In luglio
partii per la Finlandia. Dovevo parlare con Päivi, sentirmi dire almeno se
aveva abortito o aveva fatto nascere la nostra bambina.
Bologna 4
maggio 2020 giovanni ghiselli
[2] Toro d’oro. Albergo e ristorante storico di Debrecen. Cfr. la storia
di Helena Sarjantola, quelladi Kaisa e l’arrivo a Debrecen presenti nel blog.
[4] Nel doloroso canto (kommós) che precede l’epilogo dell’Agamennone (vv.
1562 - 1564), il Coro dice queste parole: “paga chi uccide”, ἐκτίνει
δ’ ὁ καίνων, “rimane saldo, finché Zeus rimane sul trono, che chi ha fatto
subisca: infatti è legge divina”, μίμνει δὲ μίμνοντος ἐν θρόνωι Διὸς / παθεῖν τὸν ἔρξαντα·
θέσμιον γάρ. C’è una ripresa di questo nel kommós delle Coefore (vv.
313 - 314): δράσαντα παθεῖν, / τριγέρων μῦθος τάδε φωνεῖ, “subisca chi ha agito, un detto tre volte antico suona così”. Ricordo
anche l’Eracle di Euripide dove Anfitrione indirizza queste parole
a Lico inconsapevolmente incamminato verso la morte (vv. 727 - 728): προσδόκα
δὲ δρῶν κακῶς / κακόν τι
πράξειν, “aspettati facendo del male di averne del male”. Infine l’Oreste di
Euripide. A Menelao che gli domanda τί χρῆμα πάσχεις; τίς σ’ ἀπόλλυσιν
νόσος; (395) “che cosa soffri? quale malattia ti distrugge?”, il nipote
risponde ἡ σύνεσις, ὅτι σύνοιδα δείν’ εἰργασμένος, 396 - “l’intelligenza, poiché sono consapevole di avere
commesso cose terribili”. Oreste dunque è reso sofferente dalla propria σύνεσις
. Menelao allora ricorda al matricida la legge del contrappasso per la quale
deve soffrire (v. 413): οὐ δεινὰ πάσχειν δεινὰ τοὺς εἰργασμένους, “non è terribile che patiscano conseguenze tremende quelli che
hanno compiuto atrocità.
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