sabato 8 aprile 2023

Donne e maghe. Circe, Calipso, Medea, Simeta.


 

 Si deve riconoscere che Calipso, la "nasconditrice"  prende il rifiuto di Odisseo assai meno male e soprattutto in modo molto meno deleterio di quanto faccia la  Medea  di Euripide, l'esperta di farmaci, la quale afferma la naturalezza e, quindi la legittimità della sua furia distruttiva di donna

 offesa nel letto ( ej" eujnh;n hjdikhmevnh, Euripde, Medea, v. 265), un oltraggio, ossia un rifiuto  che la indurrà a uccidere i figli avuti dall'ex amante suscitandone l'orrore .

Giasone  la apostrofa chiamandola leonessa, non donna, con l'indole più feroce della Tirrenia Scilla:"levainan, ouj gunai'ka, th'" Turshnivdo"-Skuvllh" e[cousan ajgriwtevran fuvsin"(vv. 1342-1343). Costei è un mostro con sei teste e tre file di denti in ogni bocca con i quali ghermisce sei compagni di Ulisse ( Odissea , XII, vv. 85 e sgg.)

Dunque Scilla è una satanessa primordiale, qualcosa di simile al Leviathan: “che ha tutto il corpo circondato da terribili denti e le cui squame sono come scudi di bronzo”[1].

 Medea è una maga nipote del sole ma, come Euripide, anche Seneca  trae dal suo comportamento una legge valida pure per le femmine umane:"Nulla vis flammae tumidique venti/tanta, nec teli metuenda torti,/quanta, cum coniux viduata taedis /ardet et odit "(Medea , vv. 580-583), non c'è forza di fiamma e di vento impetuoso tanto violenta, e non è così tremenda quella di un dardo scagliato, quanto allorché brucia e odia una moglie privata dell'amore.

Medea è un’allieva di Ecate. Seneca ne mette in rilievo la   

La nutrice racconta come la nipote del Sole prepara i veleni c:"Mortifera carpit gramina ac serpentium/saniem exprĭmit miscetque et obscenas aves/maestique cor bubonis et raucae strigis/exsecta vivae viscera…Addit venenis verba non illis minus/ metuenda. Sonuit ecce vesano gradu/canitque. Mundus vocibus primis tremit " ( Medea, vv. 731-734 e 737-740), sminuzza le erbe micidiali e spreme la bava dei serpenti e mescola anche uccelli di cattivo augurio e il cuore di un lugubre gufo e le viscere strappate da stridula strige ancora viva…Ai veleni aggiunge parole non meno tremende di quelle. Eccola che ha fatto risuonare il suo passo furioso e canta. Il mondo trema solo a udirne la voce. 

"In verità è difficile leggere il resoconto dei preparativi di Medea (670-739) senza riandare con la mente agli incantesimi del Macbeth "[2].

 

 Calipso diversamente da  questa donna furente è assai moderata, poiché, quando riceve la notizia che deve lasciar partire l'amante scontento, si limita a rabbrividire ("rJivghsen", Odissea , V, 116) e ad accusare gli dèi, ma senza dare in escandescenze; anzi, nei confronti di Odisseo, cui non piaceva più (v. 153) è benefica e generosa.

 

La donna maga esperta di droghe.

Nel IV canto dell’Odissea, Telemaco e Pisistrato, figlio di Nestore, partiti da Pilo, arrivano a Sparta

 I regnanti Elena e Menelao sono seduti a un banchetto di nozze, allietati (terpovmenoi) dall’aedo, divino cantore (qei`o~ ajoidov~, v. 17). C’erano anche due acrobati che roteavano in mezzo (ejdivneuon kata; mevssou~, v. 19). I due “stranieri” vengono annunciati e l’Atride ordina che vengano subito accolti, come capitava a lui quando era un errante sulla lunga e difficile via del ritorno.  

Menelao li fa lavare, li invita a tavola e offre loro del cibo; una volta sazi i due ragazzi diranno chi sono. Mentre gli ospiti mangiano l’Atride racconta che  aveva vagato per otto anni prima di raggiungere Sparta. Ha raccolto grandi ricchezze, è vero, ma rimpiange i compagni e amici a partire dal fratello assassinato e da Odisseo del quale non conosce la sorte.  Telemaco a queste parole si commuove e versa lacrime, cercando di non darlo a vedere con il rialzare il mantello purpureo davanti agli occhi.

 In questo momento arriva Elena, simile ad Artemide, la dea vergine.

L’adultera, tornata a casa, si era rifatta una verginità.

  La figlia di Zeus riconosce Telemaco dall’aria di famiglia con la stirpe regnante su Itaca e Pisistrato conferma l’’dentità del figlio di Odisseo.

Il Nestoride rivela anche le difficoltà nelle quali si trova  l’amico.

 Il re di Sparta risponde con parole di affetto e gratitudine per Odisseo compianto come eroe "ajnovstimon"(v. 182), senza ritorno. Quindi tutti piansero: Elena, Telemaco, Menelao e Pisistrato che ricordava il fratello Antiloco (v. 187) caduto a Troia. Poi il figlio di Nestore parlò, e pur ricordando il fratello morto, invitò a non piangere dopo la cena. Il dolore dell'anima infelice infatti se coltivato troppo a lungo e fuori luogo diventa, per dirlo con parole di Seneca, un piacere depravato:"fit infelicis animi prava voluptas dolor "[3]. Nietzsche lo chiama Schadenfreude,  gioia maligna

 

 Il convito deve essere qualche cosa di festivo e piacevole, altrimenti è un festino guasto e degenerato. Menelao approva la saggezza di Pisistrato nel quale si riconosce il vero figlio di Nestore. Quindi riprendono tutti a mangiare. Poi interviene Elena gettando nel vino un farmaco  quale antidoto al dolore, all'ira, e oblio di tutti i mali (vv. 220-221). L'aveva avuto in Egitto la cui terra produce farmaci, molti buoni e molti tristi mescolati ("favrmaka, polla; me;n ejsqla; memigmevna, polla; de; lugrav", v. 230).

 

Qui la droga non sembra  creare effetti permanenti poiché chi la prende si anestetizza per un giorno ("ejfhmevrio"", v. 223). Buoni sono i favrmaka (v. 718) contro la sterilità promessi a Egeo  da Medea , la madre furente, la strega nipote di Circe, terribile maga esperta di "kaka; favrmak j e favrmaka luvgr j"[4] , farmachi cattivi e tristi, anche questi forieri di oblio.

Circe e Medea sono indicate quali modelli da superare da  Simeta nelle Incantatrici  di Teocrito.

 Simeta  vuole avvincere l'uomo che le sfugge (v. 3). Sono streghe o maghe, denominazioni non necessariamente vituperose:"Persarum lingua magus est qui nostra sacerdos " si difende dall'accusa di esserlo Apuleio nel De Magia  (25), nella lingua dei Persiani è mago quello che nella nostra il sacerdote. Nel romanzo dello stesso Apuleio del resto ci sono maghe terribili come quella ostessa anziana ma alquanto graziosa che mutò un suo amante fedifrago in un castoro "quod ea bestia captivitati metuens ab insequentibus se praecisione genitalium liberat "[5] , poiché questo animale, temendo di essere preso, si libera dagli inseguitori con il recidersi i testicoli. Comunque queste donne, maghe o streghe o sacerdotesse, o addirittura mezze dèe, propinano quasi sempre droghe le quali portano dimenticanza all'uomo che per un motivo o per l'altro non deve ricordare.

Ma Odisseo il quale sa bene che, se ricordare è dolore, pure dimenticare è penoso, evita le droghe e costruisce la sua identità sulla pienezza della coscienza.

Simeta, nell’Idilio II di Teocrito. Le incantatrici,  vuole avvincere l'uomo che l’ha abbandonata , il bell'atleta Delfi,  con filtri (favrmaka) degni di Circe (vv. 15- 16), di  Medea, nipote di Circe, figlia del sole, e della maga Perimede,  nel prepararli chiede l'assistenza di Ecate tremenda, Ecate sotterranea che atterrisce anche i cani (v. 12) .

Pure Didone, lasciata da Enea, invoca, con l'Erebo e il Caos, Ecate triplice ( tergeminamque Hecaten,  Eneide IV, 511) la dea "nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes " (Eneide, IV, 609) chiamata a ululati nei trivi notturni per le città.

 

Ecate compare anche nel Macbeth: si rivolge alle streghe (the weird women, the weird sisters, le donne, le sorelle fatali) rimproverandole di non averla consultata, dato il suo ruolo:"And I, the mistress of your charms,/the close contriver of all harms,/was never called to bear my part,/or show the glory of our art?" (III, 5), e io, la signora dei vostri incantesimi, la segreta progettatrice di tutti i mali, non sono mai stata chiamata a fare la mia parte, o a mostrare la gloria dell'arte nostra?  

 

D’altra parte: “Tutte le donne sono un po’ fattucchiere quando sono innamorate”[6].

 

 

Sentiamo P. Citati a proposito di Circe e di altre maghe: “Questa dea che tesse e canta con grazia è figlia del Sole e di Perse: due divinità preolimpiche. Immaginiamo che la luce del sole si intrecci nella sua figura, risuoni nella sua voce[7], colmi la sua casa, come illumina il paesaggio boscoso e marino che Ulisse scorge dalla collina. Ma il Sole, nella mitologia greca, è una figura ambigua: sebbene dia luce e veda nitidamente le cose dall’alto, un rapporto segreto lo lega con tutto ciò che, nell’universo, è tenebroso, infernale, stregonesco. Inoltre, con ogni probabilità, mentre narra la storia di Circe, il “secondo Omero” ricorda un’altra figura: Ištar, la grande dea babilonese, il demone erotico, la regina delle prostitute, posseduta da una furia vendicatrice verso gli uomini che ama e trasforma in animali. Tutte le dee-streghe della letteratura occidentale discendono da Ištar e Circe: Medea e Circe in Apollonio Rodio, Circe in Ovidio, Erittone in Lucano, Armida in Tasso; con il loro dono dei filtri, l’arte di domare il fuoco, fermare l’acqua dei fiumi, incantare la luna e gli astri, spargere veleni, chiamare a raccolta gli dèi della tenebra, far svolazzare le anime dei morti, cambiare gli uomini in bestie, avviano la natura animata verso la notte e il caos. Così, fin dalla prima parola, il “secondo Omero” ci dice che Circe è una “dea terribile”[8] e che il fratello, Aiete, signore del pericolosissimo Oriente, è “funesto”[9] come un altro Titano, Atlante, padre di Calipso. Il mondo dell’ombra si apre davanti alla mente di Circe. Come Ištar, è una strega: conosce le droghe che trasformano gli uomini in animali, quelle che cambiano la natura degli animali…Senza muoversi dall’isola di Eea conosce l’Ade: la sapienza, i segreti, le rive, le selve, i fiumi, i sacrifici infernali; guida nell’Ade chi debba compiere il più pericoloso tra i viaggi. Congiungersi con lei è pericoloso, perché una parte della furia erotica di Ištar è passata nelle sue membra. Come Calipso, appartiene a un tempo antichissimo: perché dietro le amabili parole umane che noi ascoltiamo, nasconde forse la voce, umana e terrificante, degli dèi titanici…La dea più prossima a Circe è Calipso. Con scrupolosa attenzione, il “secondo Omero” ne elenca le somiglianze: indossano la stessa veste; sono “terribili”, “ingannatrici”, e hanno quella strana voce. Ma questo gioco di somiglianze mette in luce la differenza che le divide. Circe non vive nell’irraggiungibile centro: non concede la vita immortale. E, soprattutto, Calipso appartiene al regno del malakós, come i prati del suo giardino: dolce, morbida, umida, voluttuosa, affettuosa; mentre Circe non è morbida né possiede la parola di miele. Forse Ulisse ama la sua eleganza: fredda, distante, cristallina, senza pathos; mai sentimentale”[10].

Circe droga i compagni di Ulisse mischiando  favrmak j lugrav al cibo e alla bevanda (X, 136).

“Questa droga fa dimenticare Itaca e il ritorno: come i Lotofagi, le Sirene, Calipso (e Elena), Circe incarna la forza della dimenticanza, il veleno dell’oblio che attraversa l’Odissea, e contro il quale Ulisse lotta con la sua memoria vigilissima”[11].

 

Odisseo va al grande palazzo di Circe per liberare i compagni trasformati in porci dei quali ha avuto notizia da Euriloco che non si è fidato di entrare e ha visto da fuori la metamorfosi dei compagni. Quando Ulisse sta per giungere gli va incontro Ermes e gli dà un favrmakon ejsqlovn (X, 287, 292), come antidoto alla droga di Circe.

Si tratta dell’erba che gli dèi chiamano mw'lu: ha la radice nera e il fiore simile al latte (vv. 304-305).

 

“La pianta più famosa della farmacopea magica d’Occidente, che ha suscitato moltissime interpretazioni, pagane, cristiane ed alchemiche. Quest’erba non appartiene al mondo degli uomini: solo gli dèi la conoscono e possono strapparla dal suolo: il nome appartiene alla lingua divina e non viene trascritto, come di solito accade nei testi epici, in quella umana. Il “secondo Omero” si rifiuta di violare il segreto che l’avvolge, lasciando un velo attorno a lei. Noi possiamo soltanto immaginare che contenga in sé stessa, equamente divisi, l’elemento tenebroso della terra e di Circe (la radice nera) e l’elemento luminoso, che distingue il sole e gli dèi olimpici (il fiore bianco)”[12].   

Bologna 8 aprile 2023 ore 16, 58 giovanni ghiselli

 

p. s

Presenterò queste donne, con altre, il 5 maggio alla notte dei licei del classico Aldo Moro di Manfredonia.

 

 

 

 

 



[1] T.Mann, Il giovane Giuseppe, p. 313.

[2] Bradley, La tragedia di Shakespeare,., p. 418.

[3]Ad Marciam de consolatione , 1, 7.

[4]Odissea , X, 213 e 236.

[5]Metamorfosi , I, 9.

 

[6] S. Màrai, La donna giusta, p. 204.

[7] Nel quarto libro delle Argonautiche (vv. 727-729) Apollonio Rodio racconta della visita che Giasone e Medea fanno a Circe per  purificarsi dell’assassinio di Assirto: ebbene zia e nipote hanno qualcosa in comune nello sguardo: tutta la stirpe del sole infatti era ben riconoscibile poiché con il bagliore degli occhi lanciavano lontano come un raggio d’oro guardando di fronte. Ndr. 

 

[8] Deinh; qeov~ aujdhvessa, terribile dea con voce umana Odissea, X, 136. Ndr.

[9] aujtokasignhvth ojloovfrono~ Aijhvtao (X, 137), sorella germana di Eèta funesto. Ndr.

[10] P. Citati, La mente colorata, pp. 182-183.

[11] P. Citati, La mente colorata, p. 183.

[12] P. Citati, La mente colorata, p. 185.

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