NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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mercoledì 12 aprile 2023

Donne in Euripide. Alcesti.

Alcesti l’ottima moglie.  Prima parte

 

Partiamo dalla tragedia Alcesti del 438.

La vidi rappresentata a Siracusa il

12 giugno del 2013

 

Pregi e difetti della rappresentazione

 

Il funus acerbum della sposa di Admeto è anticipato con un lungo corteo e una croce cristiana.

Un grande velo nero ricopre il coro.

Nel prologo recitato da Apollo e Thanatos, la Morte rinfaccia ad Apollo "Stabilisci la legge, o Febo, per gli abbienti" (pro;~ tw`n ejcovntwn, Foi`be, ton novmon tivqh",  v. 57).  Le leggi degli dèi non sono migliori di quelle scritte dagli uomini, anzi. Polemica con Sofocle.

Ebbene questo verso ideologico è stato saltato nella rappresentazione suracusana. Apollo dunque secondo Euripide ha pure questa funzione di parteggiare per i ricchi. L’oracolo delfico ricorda Gaetano De Sanctis spartaneggiava poi addirittura filippizzò, dunque la pretaglia delfica che verrà criminalizzata nell’Andromaca (429) è malvista da Euripide siccome contraria alla democrazia ateniese

 

Polemica antidelfica in Euripide

Nell’Andromaca "il ragazzo di Achille"(v.1119) domanda:

"per quale ragione mi uccidete mentre percorro il cammino della pietà? per quale causa muoio? Nessuno di quelli, che erano migliaia e stavano vicini, mandò fuori la voce, ma gettavano pietre dalle mani"(vv. 1125-1128). Il clero non è estraneo a questo “crimine sacro”: a un certo punto, dai recessi dl tempio rimbombò una voce terribile e raccapricciante che aizzò quel manipolo e lo spinse a combattere (vv. 1146-1148).

 Il messo alla fine della rJh'si" accusa Apollo di essere w{sper a[nqrwpo" kakov" (v.1164), come un uomo malvagio, e domanda:"pw'"  a]n ou\n ei[h sofov";" (v. 1165), come potrebbe essere saggio?

 

Altri versi nodali spariti dalla rappresentazione dell’Alcesti

dell’Inda sono quelli che sconsigliano le nozze: il Coro formato da vecchi di Fere, amici del re, conclude il primo stasimo cantando: “ou[pote fhvsw gavmon eujfraivnein-plevon h] lupei'n, toi'" te pavroiqen-tevkmairovmeno" kai; tavsde tuvca"-leuvsswn basilevw",  o}sti" ajrivsth"-ajplakw;n ajlovcou th'sd j, ajbivwton-to;n e[peita crovnon bioteuvsei”, (vv. 238-242), non dirò mai che le nozze portino gioia più che dolore, argomentandolo dai fatti passati e vedendo questa sorte del re, il quale, persa l'ottima sposa, vivrà in futuro una vita non vita.

 

Buona la trovata della musichetta allegra suonata all’arrivo di Eracle e ripetuta alla fine. Dopo la resurrezione di Alcesti, Eracle raccoglie la croce e la butta sul feretro vuoto. I due sposi si allontanano mano nella mano.

  La traduzione è nel complesso accettabile, ma, oltre le omissioni di cui sopra, sono da biasimare alcune banalizzazioni come p. e. l’aggettivo ajpovtomo" (“scosceso”, v. 118) riferito a movro" (“parte, destino, morte”) tradotto e banalizzato con “terribile”. Nell’insieme lo spettacolo è buono.

Ottima la recitazione di Graziosi nella parte pur secondaria di Ferete. Buffo e divertente  Eracle (Santospago) con il suo epicureismo ante Epicurum

 

Veniamo al testo dell’Alcesti Tragedia rappresentata per la prima volta nel 438.

 Il significato di fondo del dramma credo sia contenuto nei versi con i quali Admeto riconosce il suo sbaglio.

 Alla resipiscenza segue un lieto fine.

Admeto, sentendo il peso della  solitudine dopo avere chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare la propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice:"lupro;n diavxw bivoton: a[rti manqavnw"(v.940), condurrò una vita penosa: ora comprendo In seguito, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle. Il tw`/ pavqei mavqo~ risale a Eschilo (Agamennone, 177) e avrà un lungo seguito nella letteratura europea: da Menandro a Proust.

Da Alcesti morta, come da Edipo a Colono, dovrebbe spirare il bene: il coro nel terzo stasimo formula questa preghiera che verrà ripetuta dai passanti, sull’obliquo sentiero accanto alla tomba: “Au[ta pote; prouvqan j ajndrov~,-nu'n dj e[sti mavkaira daivmwn:-cai'r j w\ povtni j eu\ de; doivh~.-toi'aiv nin proserou'si- fh'mai” ( Alcesti, vv.1002-1005), questa una volta morì per il marito, ora è una divintà beata: salve, signora, dacci del bene. Tali parole le diranno. 

Il potere assoluto dell'  jjjjAnavgkh  viene apertamente affermato dal coro  Il terzo Stasimo della tragedia è un inno alla Necessità vista come la divinità massima, quella che vincola e subordina tutti, compresi gli dèi:

"Io attraverso le Muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi ragionamenti (pleivstwn aJyavmeno" lovgwn),/ma non ho trovato niente più forte/della Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde;n  jAnavgka"-hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti rimedi/diede agli Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali afflitti dalle malattie"(vv. 962-972).

Da questi versi si vede che la Necessità è più forte del lovgo" , della poesia, dell'arte medica.

La Necessità non è meno forte di Zeus: “kai; ga;r Zeu;~  o{ti neuvsh/-su;n soi; tou'to teleuta'/” (Alcesti,  978-979), e infatti qualunque cosa Zeus approvi, con te lo porta a compimento,  dice il coro dei vecchi di Fere.

Alcuni versi prima, nel terzo episodio, Eracle aveva affermato l’impotenza della tevcnh nei confronti della tuvch: “non è chiaro dove procederà il passo della sorte (to; th'" tuvch"), e non è insegnabile (ouj didaktovn) e non si lascia prendere dalla tecnica (oujd j aJlivsketai tevcnh/ )” (Alcesti, vv. 785-786)

 

Questo predominio del fato non risparmia nessuno, e  il martire Prometeo afferma, consolandosene, che nemmeno Zeus "potrebbe in alcun modo sfuggire alla parte che gli ha dato il destino (ou[koun a]n ejkfuvgoi ge th;n peprwmevnhn, Eschilo, Prometeo incatenato,  v. 518).

Destino  e Necessità sono le divinità supreme.

 

E’ il fatalismo ellenico che fece dire a Maria Callas: io credo nel destino perché sono greca.

 

Un  topos gestuale, tra l’erotico e il disperato, è il bacio della donna al letto, anzi al letto della propria morte per amore.

Alcesti poco prima di morire vi si getta sopra, lo bacia e lo bagna tutto con il torrente di lacrime che le sgorga dagli occhi (kunei' de; prospivtnousa, pa'n de; devmnion-ofqalmotevgktw/ deuvetai plhmmurivdi, Alcesti, vv. 183-184.).

Un gesto ripetuto da Didone la quale muore imprimendo la bocca sul letto (os impressa toro, Eneide , IV, 659).

 

La Medea di Apollonio Rodio bacia il letto della sua camera di ragazza nell’abbandonarla: “Kuvsse d j eJovn te levco~” (Argonautiche, 4, 26), quindi baciò anche i battenti, accarezzò le pareti, e dopo essersi strappata un ricciolo lo lasciò nella stanza della madre, ricordo della sua vita di vergine. 

Per kuvsse da kunevo, aor.  [ekusa, cfr. inglese to kiss e tedesco küssen

 

Nel Simposio   Platone pone Alcesti tra i primi eroi quando fa dire a Diotima che Alcesti, Achille e Codro hanno dato la vita , non tanto per gli amati e la patria, quanto per la gloria:  convinti che immortale sarebbe stata la memoria della loro virtù ("ajqavnaton mnhvmhn ajreth'" pevri eJautw'n e[sesqai", 208d). Tutti  fanno ogni cosa per la virtù immortale e tale rinomanza gloriosa ("uJpe;r ajreth'" ajqanavtou kai; toiauvth" dovxh" eujkleou'""). Alcesti dunque è avvicinabile per il desiderio di onore e di gloria ad Achille, come Medea per il suo tolmhtevon tavd ' , v. 1051, bisogna osare questo! è comparabile con il non cederò del Pelide cedere nescius

L'eroe non fa niente che non stimi degno della sua natura:  Achille , cedere nescius,  non si lascia bloccare dalla profezia di sventura del cavallo fatato Xanto,  e gli risponde:"ouj lhvxw"[1], non cederò.

 

Orazio, Odi , I, 6, 5- 6:" gravem /Pelidae stomachum cedere nescii ", la funesta  ira di Achille incapace di cedere. 

 

Della definizione oraziana dell'eroe si ricorda Leopardi nel Bruto Minore :" Guerra mortale, eterna, o fato indegno,/teco il prode guerreggia,/ di cedere inesperto"(vv. 38-40).

 

 In effetti il coro dell'Alcesti  elogia l'eroina morente con queste parole:" i[stw nun eujklehv" ge katqanoumevnh-gunhv t  j ajrivsth tw'n uJf j hjlivw/ makrw'/"( Alcesti, vv. 150-151), sappia dunque che morrà gloriosa/di gran lunga la migliore delle donne sotto il sole.

Una gloria che la stessa moribonda rivendica, biasimando i genitori di Admeto ("oJ fuvsa" chJ tekou'sa",v. 290),  poiché hanno perso l'occasione di salvare nobilmente il figlio e morire con gloria ("kalw'" de; sw'sai pai'da keujklew'" qanei'n", v. 292).

Platone nel Simposio  fa dire a Fedro il quale parla per primo che Orfeo non piacque agli dèi e non riebbe l'amata Euridice"   o{ti malqakivzesqai ejdovkei...kai; ouj tolma'n e{neka tou' e[rwto" ajpovqnh/skein w{sper  [Alkhsti"".(179d) poiché sembrava essere vile e non osare morire per amore come Alcesti.

 

“Euripide è stato straordinariamente  perfido”, afferma Kott, "Admeto non solo dimentica che il cantore trace non è riuscito a recuperare la moglie, ma non gli viene in mente di assomigliargli per la sua codardia"(p.133).

 

Euripide tratta Admeto da cretino oltre che da vigliacco quando gli fa dire

"E se io avessi la lingua e il canto di Orfeo

così da poterti strappare all'Ade affascinando

con i canti o la figlia di Demetra o lo sposo di quella,

vi scenderei e il cane di Plutone né

Caronte, il traghettatore di anime curvo sul remo

potrebbero trattenermi, prima che avessi riportato la tua vita alla luce"(vv. 357-362).

In questa evocazione del cantore tracio, Kott trova dell'ironia:"anche il più ignorante degli spettatori sapeva che Orfeo non era riuscito a portare Euridice fuori dagli inferi".

 

Nel prologo Thanatos, la morte, entrando in scena vede Apollo, rabbrividisce e lo accusa:

"Ahi, ahi,/che fai tu presso il palazzo? perché tu ti aggiri qui/Febo? commetti ingiustizia di nuovo limitando/e annullando gli onori degli inferi?/Non ti bastò avere impedito la sorte/di Admeto avendo ingannato le Moire/con arte dolosa? E ora, armata/la mano di arco fai la guardia su costei,/che si sobbarcò, liberando lo sposo:/di morire al suo posto lei stessa, la figlia di Pelia?(vv. 28-37). Euripide rappresenta spesso Apollo senza simpatia.

Nel contrasto con Apollo la Morte, pur corredata di ali nere (cfr. v. 843: a[nakta to;n melavmpteron nekrw`n, la signora dei morti dalle ali nere) risulta per lo meno più democratica del dio delfico.

 

Nella Parodo (vv.77-135) il coro esprime la speranza che il trapasso dell'amata regina non sia già avvenuto e si chiede come sia possibile evitarlo:

"Perché mai questa calma (hJsuciva) davanti al palazzo?

perché tace la casa di Admeto?

Non c'è nessuno degli amici vicino,

che possa dire se bisogna

che io pianga la regina come morta, o se ancora viva

veda questa luce la figlia di Pelia

Alcesti che a me e a tutti

è parsa essere ottima moglie (ajrivsth gunhv)

verso il suo sposo"(77-85).

Ecco dunque che il "misogino" Euripide ci presenta la migliore delle donne.

 

Bologna 10 aprile 2023 ore 18, 47 giovanni ghiselli o

giovanni ghiselli

 

 

 

Alcesti 2. L’ambiguità nella drammaturgia.

 

 Tutto è problematico. Vita, morte, uomo donna, perfino il genere drammatico è problematico, per non dire quello degli umani.

 

Il Primo Episodio (136-212) inizia con l'ingresso in scena di una delle ancelle di Alcesti. Il corifèo le domanda se la padrona sia ancora viva o già morta.

E la qeravpaina risponde:

"Ti è possibile dire che è viva e che è morta"( kai; zw`san eijpei`n kai; qanou`san e[sti soi 141).

Euripide e i suoi personaggi non hanno nessuna sicurezza: nemmeno quella della vita e della morte.

Nel Frisso (fr. 833) e nel Poliido (fr. 638) compare tale questione: “tiv" d  j oi\den eij to; zh'n mevn ejsti katqanei'n, --to; katqanei'n de; zh'n kavtw nomivzetai;”, chi sa se il vivere non sia  essere morti,/ ed essere morti invece laggiù non venga considerato vivere?

 

Jan Kott in Mangiare Dio  commenta l’ incertezza dell’ancella sostenendo che "l'ambiguità è il cardine dell'Alcesti " (p.142).

Del resto l'ambiguità è una delle caratteristiche dell'affabulazione tragica:"il tappeto rosso di Agamennone è il più vivo e il più ambiguo dei segni teatrali"(p. 142).

L'Alcesti  poi è un dramma ambiguo anche come genere: non si capisce se sia una tragedia o una commedia.

Schopenhauer sostiene che molti drammi antichi come l'Alcesti  e l'Ifigenia fra i Tauri  di Euripide non hanno alcuna tendenza tragica[2]; Woody Allen fa dire a un personaggio del film Crimini e misfatti (1989): “Comedy is tragedy plus time”, la commedia è la tragedia più del tempo, nel senso che con il passare del tempo i fatti tragici possono diventare ridicoli.

 

Euripide dunque apre la via a questa mescolanza di generi che  nella cultura classica ha un seguito.

 Alla fine del Simposio platonico solo Agatone, Aristofane e Socrate erano svegli e bevevano.

 Socrate allora costrinse i due drammaturghi ad ammettere che è compito dello stesso uomo saper comporre tragedie e commedie e chi è tragediografo per arte è anche commediografo (kai; to;n tevcnh/ tragw/dopoio;n o[nta kai; kwmwdopoio;n ei\nai  233d)

 Quindi il commediografo e il tragediografo si addormentarono. Socrate invece, seguito da Aristodemo che racconterà questi fatti ad Apollodoro da cui li abbiamo conosciuti in questa narrazione, si recò al Liceo dove si lavò e trascorse la giornata. Verso sera finalmente tornò a casa a riposare.  

 

  Nel prologo dell’Anfitrione  di Plauto Mercurio dice:

" Eandem hanc, si voltis, faciam ex tragoedia

comoedia ut sit omnibus isdem versibus (vv. 54-55).

Questa medesima, se volete, farò in modo che da tragedia

diventi commedia con tutti gli stessi versi.

E, subito dopo:

"faciam ut commixta sit tragico comoedia "(v.59), farò in modo che la commedia sia commista di tragico.

Per quanto riguarda i generi femminile e maschile,

Dione Crisostomo 21, 3 (II 267 Arn.) riferisce queste parole di Crizia “o[ti kavlliston e[fh ei|do~ ejn toi`~ a[rresi to; qh`lu, ejn d j au\ tai`~ qhleivai~ tou\nantivon”, diceva che nei maschi è bellissimo il  tocco femminile, nelle femmine il contrario. Sono convinto che i donnaioli sono i maschi più vicini e simili alle femmine.

Bologna 12 aprile 2023  ore 9, 43 giovanni ghiselli

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[1] Iliade , XIX, v. 423.

[2] A. Schopenhauer, Supplementi, p. 113.

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