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lunedì 10 aprile 2023

Donne in Euripide per la notte dei licei al classico di Manfredonia


Prima parte

 

Euripide non è antifemminista

 

 

Nelle Tesmoforiazuse  (del 411 a. C.) di Aristofane che  rappresenta le donne alla festa di Demetra, una battuta attribuita al personaggio del tragediografo manifesta il suo timore  delle femmine umane decise a vendicarsi per tutte le maldicenze, più o meno giustamente, subite  :  mevllousi m  j aiJ gunai'ke~ ajpolei'n thvmeron-toi'~ Qesmoforivoi~, o[ti kakw'~ aujta;~ levgw "(vv. 181-182),  oggi alle Tesmoforie le donne vogliono uccidermi poiché dico male di loro[1].

 

Invero nell’opera di Euripide come nella vita si trova una varietà, una vasta gamma di donne.

 

Donne tremende come Medea; miti  come AndromacaAndromaca e Troiane-che è sottomessa a Ettore eppure rinfaccia ai Greci di essere loro i veri barbari; generose fino all’abnegazione come Alcesti che però chiede un contraccambio (Alcesti);   frivole, sfacciate  e bugiarde come Elena (Troiane, Elettra e pure Elena con i suoi ospiti Egiziani il re Teoclimeno e la sorella Teonoe);   cangianti come Ifigenia, quella prima spaventata poi eroica in  Aulide,  mentre in Tauride è  sororale con Oreste;  dolenti come Ecuba (Troiane, Ecuba) . Macaria (Eraclidi430)  incarna l’abnegazione assoluta in favore dei fratelli; Polissena nell’Ecuba (425) è la giovane nobile che sceglie di morire piuttosto che sopravvivere nella volgarità.  Giocasta nelle Fenicie 409 è la mater dolorosa di due figli che si odiano e si uccidono a vicenda. Anche lei si uccide mentre Antigone rinunzia alle nozze per seguire il padre nell’esilio

Mi fermo qui perché svilupperò questo tema con altri esempi, varie citazioni e commenti più avanti.

 

Nemmeno gli uomini sono tutti uguali.

Euripide nella vasta gamma delle sue tragedie presenta donne e uomini di vario tipo.

Uomini miserabili come Giasone (Medea. 431) , stupidi e vili come Admeto (Al cesti, 438), maniaci come Ippolito (Ippolito, 428) , scemi e morbosi come Penteo ( Baccanti, 404), irrisoluti come Agamennone (Ifigenia in Aulide, 405), scaltri furfanti come Odisseo nell’Ecuba e nell’Ifigenia in Aulide, prepotenti e tirannici come Creonte (Supplici 422)

Poi  e altri, pochi altri invero, valorosi e generosi come Teseo che è il paradigma mitico di Pericle nelle Supplici (422) e nell’Eracle (414)  o Pilade il prototipo dell’ottimo amico nell’Ifigenia in Tauride (414)  o Achille un giovane coraggioso e generoso opposto a Odisseo, l’intrigante demagogo spietato nell’ Ifigenia in Aulide (405), il figlio di Creonte Meneceo che si immola per la salvezza di Tebe (Fenicie 409)  

 

In effetti non è facile trovare maschi ammirevoli nelle tragedie di Euripide e la fama di nemico delle donne è del tutto immeritata come quella di affossatore del mito e della tragedia: un’incomprensione critica da Aristofane a Nietzsche.

 

 

 

 

Euripide ha subìto la taccia calunniosa di antifemminista.

La commedia Tesmoforiazuse di Aristofane ha contribuito a diffonderla.

Nella lezione che terrò a Manfredonia mostrerò che la diffamazione delle donne non è opera di Euripide ma, eventualmente, di alcuni personaggi femminili delle sue tragedie.

Sentiamo Andromaca e la più giovane Ermione nella tragedia Andromaca del 429.

La vedova di Ettore conclude il primo episodio scagliando un anatema contro tutte le donne immorali, o contro tutte le donne esclusa se stessa, se vogliamo dare credito all’immeritata nomea di antifemminismo del suo creatore:

"E' terribile che uno degli dèi abbia concesso rimedi

ai mortali anche contro i morsi dei serpenti velenosi,

mentre per ciò che va oltre la vipera e il fuoco,

per la donna, nessuno ha trovato ancora dei rimedi-favrmaka-

se è cattiva: così grande male siamo noi per gli uomini"(269-273).

Un antifemminismo ribadito da Andromaca nel secondo episodio:

"non bisogna preparare grandi mali per piccole cose

né, se noi donne siamo un male pernicioso, ajthro;n kakovn-

gli uomini devono assimilarsi alla nostra natura"(352-354).

 

Del resto Andromaca nelle Troiane del 415 accusa di barbarie i Greci che ammazzano i bambini eppure presumono di essere gli unici non barbari tra gli uomini.

 

Ma torniamo alla precedente tragedia Andromaca, quando Ermione, parlando con Oreste, deplora la rovina subìta dalle visite delle cattive comari:" kakw'n gunaikw'n ei[sodoi   m j  ajjpwvlesan" ( v. 930). La sposa che permette a tale genìa di guastare la sua intesa coniugale, viene come trascinata da un vento di demenza.

Sentiamo la figlia di Menelao pentita di essersi lasciata montare la testa da queste Sirene maligne che hanno provocato la rovina del suo matrimonio con Neottolemo:

" Ed io ascoltando queste parole di Sirene ,/ scaltre, maligne, variopinte, chiacchierone,/ fui trascinata da un vento di follia. Che bisogno c'era infatti che io/controllassi il mio sposo, io che avevo quanto mi occorreva?/grande era la mia prosperità, ero padrona della casa,/e avrei generato figli legittimi,/quella invece (Andromaca) dei mezzi schiavi e bastardi servi dei miei./ Mai, mai, infatti non lo dirò una sola volta,/ bisogna che quelli che hanno senno, e hanno una moglie,/ lascino andare e venire dalla moglie che è in casa/ le donne: queste infatti sono maestre di mali- didavskaloi kakw`n-:/ una per guadagnare qualcosa contribuisce a corrompere il letto,/ un'altra, siccome ha commesso una colpa vuole che diventi guasta con lei,/ molte poi per dissolutezza; quindi sono malate/ le case degli uomini. Considerando questo, custodite bene/ con serrature e sbarre le porte delle case;/ infatti nulla di sano producono le visite/ dall'esterno delle donne ma molte brutture e anche dei mali (vv. 936-953).

Credo che anche oggi le peggiori diffamatrici delle donne siano certe femministe che mettono un genere intero dalla parte delle persone brave e buone, e l’altro, quello dei maschi nella categoria dei mostri tutti stupratori almeno potenziali.

 

 

Concludo con l’affermazione che maschilismo e femminismo sono categorie che vanno pensate con spirito critico, non ripetendo luoghi comuni, seguendo quanto viene detto dai maschilisti e femministi cretini, impotenti e dalle femministe e maschiliste deluse, frustrate.

 

 

Alcesti l’ottima moglie.  Prima parte

 

Partiamo dalla tragedia Alcesti del 438.

La vidi rappresentata a Siracusa il

12 giugno del 2013

 

Pregi e difetti della rappresentazione

 

Il funus acerbum della sposa di Admeto è anticipato con un lungo corteo e una croce cristiana.

Un grande velo nero ricopre il coro.

Nel prologo recitato da Apollo e Thanatos, la Morte rinfaccia ad Apollo "Stabilisci la legge, o Febo, per gli abbienti" (pro;~ tw`n ejcovntwn, Foi`be, ton novmon tivqh",  v. 57).  Le leggi degli dèi non sono migliori di quelle scritte dagli uomini, anzi. Polemica con Sofocle.

Ebbene questo verso ideologico è stato saltato nella rappresentazione suracusana. Apollo dunque secondo Euripide ha pure questa funzione di parteggiare per i ricchi. L’oracolo delfico ricorda Gaetano De Sanctis spartaneggiava poi addirittura filippizzò, dunque la pretaglia delfica che verrà criminalizzata nell’Andromaca (429) è malvista da Euripide siccome contraria alla democrazia ateniese

 

Polemica antidelfica in Euripide

Nell’Andromaca "il ragazzo di Achille"(v.1119) domanda:

"per quale ragione mi uccidete mentre percorro il cammino della pietà? per quale causa muoio? Nessuno di quelli, che erano migliaia e stavano vicini, mandò fuori la voce, ma gettavano pietre dalle mani"(vv. 1125-1128). Il clero non è estraneo a questo “crimine sacro”: a un certo punto, dai recessi dl tempio rimbombò una voce terribile e raccapricciante che aizzò quel manipolo e lo spinse a combattere (vv. 1146-1148).

 Il messo alla fine della rJh'si" accusa Apollo di essere w{sper a[nqrwpo" kakov" (v.1164), come un uomo malvagio, e domanda:"pw'"  a]n ou\n ei[h sofov";" (v. 1165), come potrebbe essere saggio?

 

Altri versi nodali spariti dalla rappresentazione dell’Alcesti

dell’Inda sono quelli che sconsigliano le nozze: il Coro formato da vecchi di Fere, amici del re, conclude il primo stasimo cantando: “ou[pote fhvsw gavmon eujfraivnein-plevon h] lupei'n, toi'" te pavroiqen-tevkmairovmeno" kai; tavsde tuvca"-leuvsswn basilevw",  o}sti" ajrivsth"-ajplakw;n ajlovcou th'sd j, ajbivwton-to;n e[peita crovnon bioteuvsei”, (vv. 238-242), non dirò mai che le nozze portino gioia più che dolore, argomentandolo dai fatti passati e vedendo questa sorte del re, il quale, persa l'ottima sposa, vivrà in futuro una vita non vita.

 

Buona la trovata della musichetta allegra suonata all’arrivo di Eracle e ripetuta alla fine. Dopo la resurrezione di Alcesti, Eracle raccoglie la croce e la butta sul feretro vuoto. I due sposi si allontanano mano nella mano.

  La traduzione è nel complesso accettabile, ma, oltre le omissioni di cui sopra, sono da biasimare alcune banalizzazioni come p. e. l’aggettivo ajpovtomo" (“scosceso”, v. 118) riferito a movro" (“parte, destino, morte”) tradotto e banalizzato con “terribile”. Nell’insieme lo spettacolo è buono.

Ottima la recitazione di Graziosi nella parte pur secondaria di Ferete. Buffo e divertente  Eracle (Santospago) con il suo epicureismo ante Epicurum

 

Veniamo al testo dell’Alcesti Tragedia rappresentata per la prima volta nel 438.

 Il significato di fondo del dramma credo sia contenuto nei versi con i quali Admeto riconosce il suo sbaglio.

 Alla resipiscenza segue un lieto fine.

Admeto, sentendo il peso della  solitudine dopo avere chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare la propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice:"lupro;n diavxw bivoton: a[rti manqavnw"(v.940), condurrò una vita penosa: ora comprendo In seguito, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle. Il tw`/ pavqei mavqo~ risale a Eschilo (Agamennone, 177) e avrà un lungo seguito nella letteratura europea: da Menandro a Proust.

Da Alcesti morta, come da Edipo a Colono, dovrebbe spirare il bene: il coro nel terzo stasimo formula questa preghiera che verrà ripetuta dai passanti, sull’obliquo sentiero accanto alla tomba: “Au[ta pote; prouvqan j ajndrov~,-nu'n dj e[sti mavkaira daivmwn:-cai'r j w\ povtni j eu\ de; doivh~.-toi'aiv nin proserou'si- fh'mai” ( Alcesti, vv.1002-1005), questa una volta morì per il marito, ora è una divintà beata: salve, signora, dacci del bene. Tali parole le diranno. 

Il potere assoluto dell'  jjjjAnavgkh  viene apertamente affermato dal coro  Il terzo Stasimo della tragedia è un inno alla Necessità vista come la divinità massima, quella che vincola e subordina tutti, compresi gli dèi:

"Io attraverso le Muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi ragionamenti (pleivstwn aJyavmeno" lovgwn),/ma non ho trovato niente più forte/della Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde;n  jAnavgka"-hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti rimedi/diede agli Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali afflitti dalle malattie"(vv. 962-972).

Da questi versi si vede che la Necessità è più forte del lovgo" , della poesia, dell'arte medica.

La Necessità non è meno forte di Zeus: “kai; ga;r Zeu;~  o{ti neuvsh/-su;n soi; tou'to teleuta'/” (Alcesti,  978-979), e infatti qualunque cosa Zeus approvi, con te lo porta a compimento,  dice il coro dei vecchi di Fere.

Alcuni versi prima, nel terzo episodio, Eracle aveva affermato l’impotenza della tevcnh nei confronti della tuvch: “non è chiaro dove procederà il passo della sorte (to; th'" tuvch"), e non è insegnabile (ouj didaktovn) e non si lascia prendere dalla tecnica (oujd j aJlivsketai tevcnh/ )” (Alcesti, vv. 785-786)

 

Questo predominio del fato non risparmia nessuno, e  il martire Prometeo afferma, consolandosene, che nemmeno Zeus "potrebbe in alcun modo sfuggire alla parte che gli ha dato il destino (ou[koun a]n ejkfuvgoi ge th;n peprwmevnhn, Eschilo, Prometeo incatenato,  v. 518).

Destino  e Necessità sono le divinità supreme.

 

E’ il fatalismo ellenico che fece dire a Maria Callas: io credo nel destino perché sono greca.

 

Un  topos gestuale, tra l’erotico e il disperato, è il bacio della donna al letto, anzi al letto della propria morte per amore.

Alcesti poco prima di morire vi si getta sopra, lo bacia e lo bagna tutto con il torrente di lacrime che le sgorga dagli occhi (kunei' de; prospivtnousa, pa'n de; devmnion-ofqalmotevgktw/ deuvetai plhmmurivdi, Alcesti, vv. 183-184.).

Un gesto ripetuto da Didone la quale muore imprimendo la bocca sul letto (os impressa toro, Eneide , IV, 659).

 

La Medea di Apollonio Rodio bacia il letto della sua camera di ragazza nell’abbandonarla: “Kuvsse d j eJovn te levco~” (Argonautiche, 4, 26), quindi baciò anche i battenti, accarezzò le pareti, e dopo essersi strappata un ricciolo lo lasciò nella stanza della madre, ricordo della sua vita di vergine. 

Per kuvsse da kunevo, aor.  [ekusa, cfr. inglese to kiss e tedesco küssen

 

Nel Simposio   Platone pone Alcesti tra i primi eroi quando fa dire a Diotima che Alcesti, Achille e Codro hanno dato la vita , non tanto per gli amati e la patria, quanto per la gloria:  convinti che immortale sarebbe stata la memoria della loro virtù ("ajqavnaton mnhvmhn ajreth'" pevri eJautw'n e[sesqai", 208d). Tutti  fanno ogni cosa per la virtù immortale e tale rinomanza gloriosa ("uJpe;r ajreth'" ajqanavtou kai; toiauvth" dovxh" eujkleou'""). Alcesti dunque è avvicinabile per il desiderio di onore e di gloria ad Achille, come Medea per il suo tolmhtevon tavd ' , v. 1051, bisogna osare questo! è comparabile con il non cederò del Pelide cedere nescius

L'eroe non fa niente che non stimi degno della sua natura:  Achille , cedere nescius,  non si lascia bloccare dalla profezia di sventura del cavallo fatato Xanto,  e gli risponde:"ouj lhvxw"[2], non cederò.

 

Orazio, Odi , I, 6, 5- 6:" gravem /Pelidae stomachum cedere nescii ", la funesta  ira di Achille incapace di cedere. 

 

Della definizione oraziana dell'eroe si ricorda Leopardi nel Bruto Minore :" Guerra mortale, eterna, o fato indegno,/teco il prode guerreggia,/ di cedere inesperto"(vv. 38-40).

 

 In effetti il coro dell'Alcesti  elogia l'eroina morente con queste parole:" i[stw nun eujklehv" ge katqanoumevnh-gunhv t  j ajrivsth tw'n uJf j hjlivw/ makrw'/"( Alcesti, vv. 150-151), sappia dunque che morrà gloriosa/di gran lunga la migliore delle donne sotto il sole.

Una gloria che la stessa moribonda rivendica, biasimando i genitori di Admeto ("oJ fuvsa" chJ tekou'sa",v. 290),  poiché hanno perso l'occasione di salvare nobilmente il figlio e morire con gloria ("kalw'" de; sw'sai pai'da keujklew'" qanei'n", v. 292).

Platone nel Simposio  fa dire a Fedro il quale parla per primo che Orfeo non piacque agli dèi e non riebbe l'amata Euridice"   o{ti malqakivzesqai ejdovkei...kai; ouj tolma'n e{neka tou' e[rwto" ajpovqnh/skein w{sper  [Alkhsti"".(179d) poiché sembrava essere vile e non osare morire per amore come Alcesti.

 

“Euripide è stato straordinariamente  perfido”, afferma Kott, "Admeto non solo dimentica che il cantore trace non è riuscito a recuperare la moglie, ma non gli viene in mente di assomigliargli per la sua codardia"(p.133).

 

Euripide tratta Admeto da cretino oltre che da vigliacco quando gli fa dire

"E se io avessi la lingua e il canto di Orfeo

così da poterti strappare all'Ade affascinando

con i canti o la figlia di Demetra o lo sposo di quella,

vi scenderei e il cane di Plutone né

Caronte, il traghettatore di anime curvo sul remo

potrebbero trattenermi, prima che avessi riportato la tua vita alla luce"(vv. 357-362).

In questa evocazione del cantore tracio, Kott trova dell'ironia:"anche il più ignorante degli spettatori sapeva che Orfeo non era riuscito a portare Euridice fuori dagli inferi".

 

Nel prologo Thanatos, la morte, entrando in scena vede Apollo, rabbrividisce e lo accusa:

"Ahi, ahi,/che fai tu presso il palazzo? perché tu ti aggiri qui/Febo? commetti ingiustizia di nuovo limitando/e annullando gli onori degli inferi?/Non ti bastò avere impedito la sorte/di Admeto avendo ingannato le Moire/con arte dolosa? E ora, armata/la mano di arco fai la guardia su costei,/che si sobbarcò, liberando lo sposo:/di morire al suo posto lei stessa, la figlia di Pelia?(vv. 28-37). Euripide rappresenta spesso Apollo senza simpatia.

Nel contrasto con Apollo la Morte, pur corredata di ali nere (cfr. v. 843: a[nakta to;n melavmpteron nekrw`n, la signora dei morti dalle ali nere) risulta per lo meno più democratica del dio delfico.

 

Nella Parodo (vv.77-135) il coro esprime la speranza che il trapasso dell'amata regina non sia già avvenuto e si chiede come sia possibile evitarlo:

"Perché mai questa calma (hJsuciva) davanti al palazzo?

perché tace la casa di Admeto?

Non c'è nessuno degli amici vicino,

che possa dire se bisogna

che io pianga la regina come morta, o se ancora viva

veda questa luce la figlia di Pelia

Alcesti che a me e a tutti

è parsa essere ottima moglie (ajrivsth gunhv)

verso il suo sposo"(77-85).

Ecco dunque che il "misogino" Euripide ci presenta la migliore delle donne.

 

Bologna 10 aprile 2023 ore 18, 47 giovanni ghiselli o

giovanni ghiselli

 

 

 

 



[1] Il parente che si reca alla festa travestito da donna per difendere Euripide, risponde all’accusatrice la quale  lo rimprovera  poiché fa  il paladino di un tragediografo che non ha rappresentato mai una  Penelope, gunh; swvfrwn (Tesmoforiazuse, v. 548), una signora per bene :"io infatti conosco la causa: ché, tra le donne di ora, non potresti menzionarmi una sola Penelope, sono tutte Fedre, dalla prima all'ultima"( vv. 549-550). Con questo nome si intende la moglie infedele, anzi sgualdrina come viene chiamata Fedra in compagnia di Stenebea  nelle Rane (v. 1043). Ma la creatura di Euripide è un'altra cosa. Casomai donna favorevole ai facili costumi nell’Ippolito  è la  nutrice di Fedra che cerca di favorire il soddisfacimento della libidine della sua signora in varie maniere: prima spingendola a non curarsi dell'integrità morale: "chi è nato per morire non deve passare la vita affaticandosi troppo" (Ippolito, v. 467); quindi tentando di chiarirle di quale cosa veramente necessiti:"tu non hai bisogno di parole piene di decoro, ma di quell'uomo"(490-491); e infine

 rivelando quell'amore  a Ippolito il quale, dedito principalmente a intrecciare ghirlande con fiori colti da prati immacolati (vv.73-74) per donarle ad Artemide, una dea vergine, dà in escandescenze, e si scaglia contro  le femmine umane tutte, biasimate in ogni possibile versione, tanto che per ciascuna viene auspicata come naturale la convivenza con le bestie mute (v.646).

Leggiamo l’intera invettiva: “:

"O Zeus perché ponesti nella luce del sole le donne,

un male ingannatore per gli uomini?

 Se infatti volevi seminare la stirpe mortale,

  non era necessario ottenere questo dalle donne , ma bastava che i mortali mettendo in cambio nei tuoi templi oro e ferro o un peso di bronzo, comprassero il seme dei figli, ciascuno del valore del dono offerto, e vivessero in case libere, senza le femmine. Ora invece quando dapprima stiamo per portare in casa quel malanno, sperperiamo la prosperità della casa. Con questo è chiaro che la donna è un gran malanno: infatti il padre che l'ha generata e allevata, dopo avere aggiunto la dote la colloca altrove, per liberarsi da un male. Quello che ha preso in casa la pianta perniciosa invece, gode nel caricare di ornamenti belli l'idolo pessimo e si affatica per i pepli, infelice, distruggendo la ricchezza della casa. Ma è costretto al punto che, se si è imparentato bene, si tiene lieto un letto amaro, mentre, se ha preso buoni letti ma parenti inutili stringe con il bene una sciagura. E' più facile per quello con il quale si è messa in casa una nullità, che del resto è una donna inutile per la stoltezza. La saccente poi la detesto; che non stia in casa con me una donna la quale pensi più di quanto a una donna convenga. Infatti l'operare malvagio Cipride lo fa nascere più nelle saccenti; mentre una donna sprovveduta è sottratta alla pazzia dalla sua mente corta. Bisognerebbe poi che dalla donna non andasse una serva ma che con loro vivessero le mute bestie feroci tra i bruti, affinché non potessero parlare ad alcuno né ricevessero a loro volta voce da quelle. Ma ora le scellerate che sono in casa filano tele scellerate e le serve le portano fuori. Come anche tu, certo, scellerata testa, sei venuta da me per trafficare il letto inviolabile del padre, infamie che io ripulirò con acque correnti, versandole nelle orecchie. Come dunque potrei essere cattivo io che avendo udito tali infamie ritengo di essere impuro? Sappi bene o donna che ti salva la mia religiosità: se infatti non fossi stato preso alla sprovvista da giuramenti sugli dèi, non mi sarei mai trattenuto dal rilevare questo al padre. Ma ora me ne vado al palazzo finché Teseo è lontano dalla regione, e terrò la bocca in silenzio. Poi, tornato con il piede del padre, osserverò come lo guarderai tu e la tua padrona; e mi renderò conto, avendola assaggiata, della tua sfrontatezza. Possiate morire! Non mi sazierò mai di odiare le donne, neppure se uno dice che io lo ripeto sempre; infatti quelle appunto sono sempre malvagie in una maniera o nell'altra. Dunque o qualuno insegna loro a essere sagge, oppure lasci che io le calpesti sempre (Ippolito   vv. 616-668).

 

 

[2] Iliade , XIX, v. 423.

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