NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 18 febbraio 2023

Nietzsche 13 Il diritto dei più numerosi è contro natura ?

“Per strano che suoni: si devono sempre armare i forti contro i deboli, i felici contro i falliti, i sani contro i degenerati e i tarati ereditari (…) Io vedo che quelli inferiori hanno preponderanza grazie al numero, all’avvedutezza. All’astuzia.”[1].

Platone, nel Gorgia, attribuisce a Callicle una critica delle regole democratiche le quali favoriscono i deboli, i peggiori.  Secondo questo personaggio del dialogo  la natura e la legge sono per lo più in contrasto l'una con l'altra:"wJ" ta; polla; de; tau'ta ejnantiv  j ajllhvloi" ejstivn, h{  te fuvsi" kai; oJ novmo"" ( Gorgia, 482e).

 

I novmoi della povli" democratica costituiscono la barriera difensiva che gli ajsqenei'", i deboli, e oiJ polloiv, la massa, erigono per sé e per il loro utile (sumfevron):"  jall j oi\mai oiJ tiqevmenoi tou;" novmou" oiJ ajsqenei'" a[nqrwpoiv eijsin kai; oiJ polloiv. pro;" auJtou;" ou\n kai; to; auJtoi'" sumfevron touv" te novmou" tivqentai kai; tou;" ejpaivnou" ejpainou'sin kai; tou;" yovgou" yevgousin[2]: ejkfobou'nte" tou;" ejrrwmenestavtou" tw'n ajnqrwvpwn kai; dunatou;" o[nta" plevon e[[cein, i{na mh; aujtw'n plevon e[cwsin, levgousin wJ" aijscro;n kai; a[dikon to; pleonektei'n , kai; tou'tov ejstin to; ajdikei'n, to; plevon tw'n a[llwn zhtei'n e[cein: ajgapw'si ga;r oi\mai aujtoi; a]n to; i[son e[cwsin faulovteroi o[nte". dia; tau'ta dh; novmw/ me;n tou'to a[dikon kai; aijscro;n levgetai, to; plevon zhtei'n e[cein tw'n pollw'n , kai; ajdikei'n aujto; kalou'sin”(Gorgia, 483b-c), ma io credo che coloro i quali stabiliscono le leggi sono gli uomini deboli e i più. Per se stessi dunque e per il proprio utile stabiliscono le leggi e spandono gli elogi ed esprimono biasimi: per spaventare i più forti tra gli uomini, e quelli che sarebbero capaci di prevalere, proprio perché non prevalgano, dicono che è brutto e ingiusto avere la meglio e che questo è commettere ingiustizia: cercare di avere più degli altri; infatti loro sono contenti di essere alla pari, lo credo, dal momento che sono inferiori! Per questi motivi dunque secondo la legge proprio questo si chiama ingiusto e vergognoso, cercare di avere la meglio sui più, e questo chiamano commettere ingiustizia. 

 

Socrate riconosce all’avversario dialettico il coraggio e la capacità di parlare francamente senza avere ritegno di farlo- oi|o~ parrhsiavsesqai kai; mh; aijscuvnesqai (Gorgia 487d).

 

 Una critica del genere fa A. Schopenhauer ai filosofi cattedratici del suo tempo. E' loro interesse "far valere in qualche modo quanto è piatto e privo di spirito".  Per soffocare quanto c'è "di autentico, di grande e di profondamente pensato" e "per mettere in circolazione senza ostacoli ciò che non vale, essi si riuniscono, alla maniera di tutti i deboli[3], costituiscono congreghe e partiti, s'impadroniscono dei giornali letterari, in cui, come del resto nei propri libri, parlano con profondo rispetto e sussiego dei loro rispettivi capolavori, traendo in tal modo per il naso il miope pubblico"[4].

Oggi i deboli sono i poveri, gli protetti, i non raccomandati. Io mi schiero con loro.

Il diritto del più forte.

 Comunque sia, la natura secondo Schopenhauer,  mette le cose a posto poiché " la natura è aristocratica, più aristocratica di qualsiasi società feudale basata sulle caste"[5].

Questo è vero. Credo che un talento vero se no si lascia inceppare dagli ostacoli che la maggioranza dei raccomandati privi di genio cerca di mettere sulla sua strada prima o poi arriva alla propria epifania. Magari dolo la morte come Van Gogh ma ci arriva. In pro dell’umanità.

Ricordate Leopardi già citato sopra: “né io sarò meno virtuoso né meno magnanimo (dove ora sia tale) perché un asino di libraio non mi voglia stampare un libro, o una schiuma di giornalista parlarne”.

“Bisogna essere come la natura, né buoni né cattivi”[6].

Nella Repubblica di Platone il sofista Trasimaco sostiene che il giusto non è altro che l’utile del più forte: “fhmi; ga;r ejgw; ei\nai to; divkaion oujk a[llo h] to; tou` kreivttono~ sumfevron ” (338c.)

Il fratello di Platone, Glaucone afferma che nell’uomo è innata la prepotenza e che nessuno è giusto volontariamente ma solo se costretto (360d). Chi sembra giusto senza esserlo, se la passa meglio dell’uomo giusto  quale Anfiarao nei Sette a Tebe di Eschilo (v. 592).

Infine l’altro fratello, Adimanto, ricorda che la virtù è faticosa (Esiodo, Opere, 289), gli dèi sono esorabili (Iliade IX, 497) e che l’apparire violenta anche la verità: “to; dokei`n kai; ta;n ajlavqaian bia`tai”(citazione da Simonide). Allora conviene tracciarsi intorno un chiaroscuro di virtù e tirarsi dietro la volpe scaltra e screziata di Archiloco (365 c).

Queste tre ultime affermazioni possono verificarsi magari nel corso di una effimera vitaumana, ma in un tempo più lungo succede che siano i geni ignorati o sottovalutati da vivi come Leopardi, o addirittura condannati a morte quali criminali come Socrate e Cristo a lasciare un’eredità più grande e importante di quelli che hanno avuto successo. La maggior parte dei premi Nobel che uno scrittore di talento autentico dovrebbe rifiutare, nessuno li legge più, se pure li hanno mai letti, mentre le parole di Cristo e quelle di Scorate redatte dai loro discepoli, vengono ripetute da secoli.

 

 

I rapporti tra gli uomini vengono determinati dal potere.

Nel torneo oratorio con i Meli, gli Ateniesi  affermano il principio che il giusto nel linguaggio umano si giudica partendo da una pari necessità ("divkaia me;n ejn tw'/ ajnqrwpeivw/ lovgw/ ajpo; th'" i[sh" ajnavgkh" krivnetai"), altrimenti i più forti fanno quanto possono, e i deboli cedono ("oiJ ajsqenei'" xugcwrou'sin", Tucidide,  V, 89). 

Nietzsche ribadisce questo concetto con altre parole:"Laddove domina  il diritto, è mantenuto in piedi un certo stato e grado di potenza, e sono impediti una diminuzione e un accrescimento. Il diritto di altri è la concessione che il nostro sentimento di potenza fa al sentimento di potenza di questi altri. Se il nostro potere si mostra profondamente scosso e infranto, cessano i nostri diritti: al contrario, se noi siamo divenuti molto più potenti, cessano i diritti degli altri nei nostri riguardi, come glieli avevamo riconosciuti fino a questo momento".[7]

Questo è vero: perciò è necessario acquisire almento quel tanto di potere che ci consenta di vivere, pensare e parlare come ci pare.

Per questo l'Adriano della Yourcenar ha conquistato il potere sul mondo:"Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire…Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso"[8].

Naturalmente non è necessario diventare imperatore per essere se stesso.

Lo dice  Giuliano Augusto nella commedia di Ibsen: “E che cos’è la felicità se non il vivere in conformità a se stesso? L’aquila chiede forse delle penne d’oro? Il leone ambisce avere artigli d’argento? O forse ilmelograno desidera che i suoi chicchi siano altrettante pietre preziose?”[9]. 

 

 

Pure Spinoza (1632-1677) che punta sulla libertà e sulla democrazia nota la coincidenza del diritto con la potenza: “unusquisque tantum habet juris quantum habet potentiae.” (Tractatus politicus, pubblicato dopo la sua morte).

 

Le provvide difficoltà.

 “L’ideale  cui aspirano con tutte le loro forze è la verde uniformità dei pascoli che costituisce la felicità del gregge e che ad ognuno garantisce una vita sicura, scevra di pericoli, comoda, facile (…) Ma noi che siamo l’opposto, noi che ci siamo dati gli occhi ed una coscienza per domandarci dove e come la pianta “uomo” sia cresciuta finora più rigogliosa in altezza, noi pensiamo che ciò sia sempre avvenuto in condizione di contrarietà[10].

Seneca nel De providentia[11]  trova un significato positivo non solo nel lavoro ma pure nelle disgrazie (incommoda),  nei dolori e nelle perdite, quali prove per esercitare e temprare la virtus :"Marcet sine adversario virtus" (2, 4), senza un avversario la virtù marcisce; e Dio nei confronti degli uomini buoni conserva l'animo di un padre, li ama con forza, e ha questi progetti:"Operibus, inquit, doloribus, damnis exagitentur, ut verum colligant robur" (2, 6), con lavori, disse, dolori, perdite, si affannino per raccogliere la vera forza. "Languent per inertiam saginata nec labore tantum sed motu et ipso sui onere deficiunt", infiacchiscono nell'ozio i corpi ingrassati, e non solo per la fatica, ma per il movimento, e per lo stesso peso di sé vengono meno.

L’ingrassato, il rimpinzato (sagīno=rimpinzo, faccio ingrassare) è certamente di peso a se stesso e lo è anche agli altri che lo sopportano perché ha la mente disordinata.,

Tratta questo tema anche Shakespeare nel Cimbelino[12]  quando Giove “nella teofania che lo vede discendere cavalcando l’aquila fra tuoni e fulmini (l’equivalente pagano del “turbine” dal quale Dio parla a Giobbe), disegna con fermezza il confine fra le competenze umane e quelle divine, formulando la legge che governa l’insondabile giustizia e la segreta caritas provvidenziale della divinità: “Non v’angustiate di pene mortali:/non è vostra, ma nostra la cura./Chi più amo più metto alla prova,/per far che i miei doni, più attesi,/siano ancor più graditi (whom best I love I cross; to make my gift,/The more delay’d, delighted). Tranquilli,/la nostra grande divina potenza/solleverà vostro figlio umiliato”[13].

 

Questa non è più soltanto la comparsa in scena del tradizionale, risolutorio deus ex machina. Si tratta, invece, di una vera e propria teodicea. Le “pene mortali” sono preoccupazioni esclusive della divinità, e gli uomini non se ne devono angustiare. “Chi più amo, più metto in croce”, sembra dire Giove usando la parola “cross”, e offre la chiave teologica di tutto il dramma; la felicità si ottien soltanto dopo grandi, dolorose prove, ed è un dono gratuito di Dio, che lo ritarda perché gli uomini vi trovino ancor maggiore diletto”[14].E' la medesima impostazione del Giobbe biblico.

 

Nietzsche e Odisseo.

La curiosità

Nietzsche si iscrive nella categoria dei curiosi “noi curiosi fino al vizio, indagatori crudeli, con mani spietate tese all’inafferrabile, con denti e stomaco per sfidare ogni cibo più indigesto, pronti a compiere qualsiasi lavoro che richiedesse acume d’ingegno e di sensi, disposti a ogni audacia grazie a un eccesso di “libero volere”[15].

Nietzsche è un Ulissìde

Anche Ulisse infatti  è un uomo  curioso.

Apuleio  ne fa  una prefigurazione del suo Lucio, il protagonista delle Metamorfosi il quale nel mezzo delle tribolazioni asinine, pensa:" Nec ullum uspiam cruciabilis vitae solacium aderat, nisi quod ingenita mihi curiositate recreabar... Nec immerito priscae poeticae divinus auctor apud Graios summae prudentiae virum monstrare cupiens multarum civitatium obitu et variorum populorum cognitu summas adeptum virtutes cecinit " (IX, 13), né vi era da qualche parte alcun conforto di quella vita tribolata se non il fatto che mi sollevavo con la mia innata curiosità...e non a torto quel divino creatore dell'antica poesia dei Greci volendo raffigurare un uomo di somma saggezza, narrò che egli raggiunse i sommi valori visitando molte città e conoscendo popoli diversi.

Il desiderio di conoscere, l’amore della sapienza di fatto nasce anche dalla curiosità.

 

Ancora Odisseo come modello.

“Bisogna prendere congedo dalla vita come Odisseo da Nausicaa-benedicendola,  più che restandone innamorati"[16].

 

 

Ideale greco. Che cosa ammiravano i Greci in Odisseo? Innanzitutto la capacità di mentire e quella della scaltra e terribile rappresaglia; il suo essere all’altezza delle circostanze; l’apparire-all’occorrenza-più nobile dei nobilissimi; il poter essere quel che si vuole; l’eroica perseveranza[17]; il procurarsi la disponibilità di ogni mezzo; l’avere spirito-il suo spirito riscuote l’ammirazione degli dèi, essi sorridono nel pensarci: tutto questo è l’ideale greco!”[18]. 

 

“Ulisse è l'eroe polùmetis  (scaltro) come è polùtropos  (versatile) e poluméchanos  nel senso che non manca mai di espediento, di pòroi , per trarsi d'impaccio in ogni genere di difficoltà, aporìa (...) La varietà, il cambiamento della metis, sottolineano la sua parentela con il mondo multiplo, diviso, ondeggiante dove essa è immersa per esercitare la sua azione. E' questa complicità con il reale che assicura la sua efficacia"[19].

Bologna 18 febbraio 2023 19, 20 giovanni ghiselli

p. s.

Sempre1325206

 

 



[1] Frammenti postumi primavera 1888, 14 (123)

[2] Questi due accusativi dell’oggetto interno denunciano il circolo chiuso che esclude i capaci dal giro dei deboli e degli incapaci i quali si danno forza reciproca con questi girotondi esclusivi e viziosi

[3] Cfr. oiJ ajsqenei'" a[nqrwpoiv del Gorgia di Platone (n.d. r.).

 

[4] Parerga e paralipomena (del 1851), Tomo I, p. 227.

[5] Parerga e paralipomena (del 1851), Tomo I, p. 275.

[6] Nietzsche, Frammenti postumi, settembre 1876 (2)

[7]Aurora, libro secondo, 112.

[8] M. Yourcenar, Memorie di Adriano, p. 84.

[9] L’imperatore Giuliano, Atto III, quadro primo.

[10] Di là dal bene e dal male, Lo spirito libero, 44

[11] Risale ai primi anni del disimpegno politico (62-63 d. C.)

[12] 1609-1610

[13] V iv 99-103: “Be not with mortal accidents opprest;/No care of yours it is; You know ‘tis ours./Whom best I love I cross; to make my gift,/The more delay’d, delighted. Be content;/Your low-laid son our godhead will uplift”.

[14] P. Boitani, Il Vangelo Secondo Shakespeare, p. 95.

[15] Di là dal bene e dal male, Lo spirito libero, 44.

[16]Di là dal bene e dal male , Aforismi e interludi, 96

[17] Cfr, poluvtla~ (Odissea, 5, 354)

[18] Nietzsche, Aurora, libro quarto, 306-

[19]M. Detienne-J. P. Vernant, Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia , p. 3 e sgg.

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