NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 18 febbraio 2023

Nietzsche 10. Superstizione e religione. La peccatrix perdonata da Cristo poiché ha amato molto.

Nietzsche 10. Follia  e razionalità. Superstizione e religione. La peccatrix perdonata da Cristo poiché ha amato molto.

Elogio della follia e della creatività

 Mercè la follia i più grandi beni sono venuti alla Grecia”, diceva Platone con tutta l’antica umanità. Facciamo ancora un passo avanti: a tutti quegli uomini superiori che erano irresistibilmente attratti ad infrangere il giogo di una qualche eticità e a dare nuove leggi non restò niente altro, se essi non erano realmente folli, che diventare pazzi o farsi passare per tali; e ciò vale in verità per i novatori in tutti i campi, non soltanto per chi innovava nelle istituzioni sacerdotali e politiche”[1].

Platone nel Fedro sostiene che agli uomini i beni più grandi derivano da una mania data dagli dèi (244a): infatti la profetessa di Delfi, quella di Dodona e la Sibilla procurano benefici agli uomini quando si trovano in stato di mania, mentre quando sono senno non ne procurano alcuno. Gli antichi che hanno coniato i nomi, hanno chiamato manikhv la più bella delle arti che prevede il futuro[2]. Sono stati i moderni, ajpeirokavlw~, con ignoranza del bello, che mettendoci dentro una tau, mantikh;n ejkavlesan (244c), e  l’hanno chiamata mantica. Quindi  Platone aggiunge che gli antichi ritenevano la mania  proveniente da dio più bella della assennatezza  attribuita dagli uomini (244d)  

 

Più avanti (Fedro 265) Socrate prima  distingue due tipi di mania: una che deriva da malattie umane (th;n me;n uJpo; noshmavtwn ajnqrwpivnwn) e un’altra appunto da una divina alterazione delle consuetudini comuni (uJpo; qeiva~ ejxallagh`~ tw`n eijwqovtwn nomivmwn ).

Quindi (265 b) elenca quattro tipi di mania divina: quella mantica mantikhvn, attribuita ad Apollo, la iniziatica che appunto inizia ai misteri- telestikhvn- la apollinea e la dionisiaca con altre parole, poi la poetica poihtikhvn attribuita alle Muse e la quarta erotica ejrwtikhvn, quella di Afrodite e di Eros che è la migliore ajrivsthn.

 

E’ appunto una follia del secondo genere, la “follia iniziatica”, che costituisce la trama delle Baccanti di Euripide: essa si può definire come una forma di esaltazione collettiva,ottenuta attraverso un rituale estatico e posta sotto il patrocinio di una divinità.”[3].

Ma torniamo a Nietzsche. alla sua Aurora e commentiamo la follia simulata da quelli che se non erano davvero folli si facevano passare per tali

Il finto pazzo, Bruto o Amleto è l’ossimoro vivente: si finge pazzo per attuare un suo piano, con una follia che ha del metodo.

Tra i simulatori di follia, Nietzsche ricorda Solone: “allorché pungolava gli Ateniesi alla conquista di Salamina”[4].

Solone uscì invece in pubblico "deformis habitu more vecordium" tutto malvestito alla maniera dei pazzi[5]

Del resto Solone può fare parte dei “veri filosofi che sono dominatori e legislatori (…) Il  loro “conoscere” equivale a creare, il loro atto creativo è una legislazione ”. I vari Kant e Hegel sono “operai della filosofia” i quali “ hanno il compito di accertare e ridurre in formule una vasta gamma di valutazioni- cioè di antiche determinazioni di valori, creazioni di valori che sono diventate dominanti  e che per un certo periodo hanno avuto il nome di “verità” sia nel campo della logica, sia in quello della politica (morale) e dell’arte”[6]. Alcuni “grandi filosofi”  insomma sono soltanto dei funzionari “cui spetta il compito di abbreviare tutto ciò che è lungo, perfino il “tempo” e di soggiogare tutto il passato”.

 Personalmente considero gli insegnanti che non educano quali impiegati funzionari della scuola, posto che almeno informino, e ritengo che siano  funzionario della specie quanti  si sposano poi fanno sesso senza amore, solo per riprodursi.

 

Criminali e  crimini di Stato

 “Non vi è, nel destino tutto dell’uomo, sventura più dura di quando i potenti della terra non sono anche i primi uomini. Tutto diventa falso obliquo, mostruoso, quando ciò avviene”[7].

Nell’ Edipo re di Sofocle, l’indagine voluta dal protagonista lo porta alla constatazione che il mivasma avvelenatore è lui stesso, l’assassino del padre, il marito della propria madre. Ma  secondo Sofocle  Edipo è soprattutto il presuntuoso che crede di capire tutto e il bestemmiatore della voce divina degli oracoli

Diversamente dall'Edipo  di Sofocle che nel prologo della tragedia si addossa il dolore del suo popolo ma non riconosce ancora le proprie colpe, quello di Seneca, fin dai primi versi, si sente colpevole di tutto:"Fecimus coelum nocens" (v. 36),  io ho reso nocivo il cielo[8]. Un'eco di questa autodenuncia si trova nell'Amleto quando il re assassino del fratello dice:"Oh, my offence is rank, it smells to heaven" (3, 3), oh il mio delitto è marcio, e manda fetore fino al cielo. Poco dopo Amleto, parlando con la madre, paragona lo zio a una spiga ammuffita che infetta l'aria (3, 4).

Nell' Antigone, Tiresia accusa Creonte di essere la sorgente inquinata del male della città:" kai; tau'ta th'" sh'" ejk freno;" nosei' poli"" (v. 1015) e la città è ammalata di questo per la tua disposizione mentale. Creonte infatti ha ereditato da Edipo non solo il ruolo regale ma anche la funzione di mivasma, homo piacularis  che contamina la città.

Ogni crimine del resto ricade sulla comunità: “In Omero l’assassino deve fuggire dalla propria patria; non di una colpa morale egli si è macchiato bensì di una religiosa: egli rappresenta un pericolo per la comunità cui appartiene[9].


La ragion di Stato talora “autorizza” i crimini dei capi di Stato.

“Si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri. Esso è gelido anche quando mente; e questa menzogna gli striscia fuor di bocca: “Io, lo Stato, sono il popolo”. E’ una menzogna! Creatori furono coloro che crearono i popoli e sopra essi affissero una fede e un amore: così facendo servirono la vita”[10].

Per quanto riguarda la “ragion di Stato” può pensare al sacrificio di Ifigenia, raccontato da Eschilo, Euripide e Lucrezio.

Nell’Agamennone di Eschilo, il padre hJgemw;n oJ prevsbu~ (v. 185), il comandante anziano delle navi achee, per risparmiare il tempo che andava sciupato nell’attesa che si placassero i venti kakovscoloi (193), forieri di ozio cattivo, naw'n kai; peismavtwn ajfeidei'~ (195), sperperatori di navi e cordami, non osò diventare lipovnau~ (212), disertore della flotta e invece e[tla quth;r genevsqai qugatrov~ (224-225), osò divenire sacrificatore della figlia, la primogenita Ifigenia, che venne sollevata sull’altare divkan cimaivra~ (232), come una capra, imbavagliata per giunta affinché non potesse proferire maledizioni contro la casa.

Nell’Ifigenia in Aulide di Euripide, Agamennone, ancora incerto se sacrificare la figlia, dice a un vecchio servitore che lo invidia per la sua  vita non famosa, oscura (ajgnwv~ ajklehv~, v. 18). Il vecchio ribatte che è bella la vita dei potenti. E Agamennone replica che quello del potere e degli onori  è “to; kalo;n sfalerovn, un bello vacillante (v. 21).

Si può pensare alla vita e alla morte di Gheddafi.

Lucrezio racconta con accenti di pietà la morte di Ifigenia condotta a morire casta inceste nubendi tempore in ipso (De rerum natura, I, 98), oscenamente casta, proprio nel tempo del matrimonio. Il poeta latino ascrive il delitto alla religio, la superstizione che coonesta i crimini peggiori: “Tantum religio potuit suadere malorum ", a crimini tanto grandi poté indurre la religio.  Questo è forse il verso più famoso (I, 1OI) del De rerum natura .  

Questo è un sacrificio umano che ha fatto epoca

 

 Anche Dante biasima Agamennone per il sacrificio della figlia: “ e così stolto-ritrovar puoi il gran duca de’Greci-onde pianse Ifigenia il suo bel volto”. La premessa generale è “Non prendan li mortali il voto a ciancia” Paradiso, V. v. 64 e 68- 70.

Polibio e altri autori quali Crizia o Euripide che sia nel dramma satiresco Sisifo , e Curzio Rufo invece raccomandano ai legislatori l’uso della superstizione per soggiogare le masse ignoranti

Excursus sulla superstizione

Nel VI libro Polibio parla anche della religione dei Romani e dice che la concezione degli dèi gli sembra la maggior differenza in meglio che lo Stato romano possieda:"Megivsthn dev moi dokei' diafora;n e[cein to; JRwmaivwn polivteuma pro;" bevltion ejn th'/ peri; qew'n dialhvyei"(VI, 56, 6). Si tratta di una deisidaimoniva (56, 7), di superstizione, che, se altrove può essere oggetto di biasimo, a Roma tiene insieme lo Stato.

Presso i Romani questa parte della cultura viene esaltata ( " ejktetragwv/dhtai", 8) e introdotta nella vita pubblica e privata tanto da non lasciarne una maggiore. A Polibio sembra che ciò sia stato fatto "tou' plhvqou" cavrin"(9), per la massa. Se infatti fosse possibile mettere insieme uno Stato di uomini saggi, probabilmente una soluzione del genere non sarebbe necessaria, ma poiché ogni massa è leggera ("  ejlafrovn") piena di desideri sregolati ("plh're" ejpiqumiw'n paranovmwn"), di impulsi irrazionali e passioni violente, non resta che trattenerle con oscuri terrori e con tale apparato da tragedia ("leivpetai toi'" ajdhvloi" fovboi" kai; th'/ toiauvth/ tragw/diva/ ta; plhvqh sunevcein", VI, 56, 11).

Questa è la ragione per cui gli antichi ("oiJ palaioiv", 12) hanno introdotto nelle plebi le nozioni riguardo agli dèi e le credenze sull'oltretomba. Male fanno i contemporanei ("oiJ nu'n") a bandirle in maniera scriteriata e irrazionale ("eijkh'/ kai; ajlovgw"").

 

Per confermare  queste parole greche del tempo della repubblica romana ne cito alcune latine di Curzio Rufo, della prima età imperiale :" Nulla res multitudinem efficacius regit quam superstitio: alioqui impotens, saeva, mutabilis, ubi vana religione capta est, melius vatibus quam ducibus suis parte "(Historiae Alexandri Magni , IV, 1O), nessuna cosa meglio della superstizione governa la moltitudine: altrimenti sfrenata, crudele, volubile, quando è afferrata da una vana religione, obbedisce più facilmente agli indovini che ai suoi capi.   

 

C'è dunque un metodo  nella follia della superstizione se considerata dalla prospettiva di chi la diffonde.

E' la ragione già svelata nel Sisifo  attribuito a Crizia.

Questo dramma satiresco  contiene la teoria razionalistica dell'utilità politica della religione la quale è un'invenzione geniale e valida a frenare i male intenzionati con la paura dei castighi:"mi sembra che prima un uomo accorto e saggio di mente, inventò per i mortali il terrore (devo") degli dei, affinché per i malvagi ci fosse uno spauracchio ("ti dei'ma") anche se fanno o parlano o pensano qualche cosa furtivamente("lavqra/")[11].

 

Un argomento che viene ripreso da Machiavelli . L'XI capitolo del I libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio  verte sulla religione dei Romani: tra questi il re Numa "trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa del tutto necessaria a volere mantenere una civiltà e la constituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare...E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, ad animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni a fare vergognare i rei. Talché se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata o a Romolo o a Numa credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché dove è religione facilmente si possono introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione con difficultà si può introdurre quella...E veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio, perché altrimenti non sarebbero accettate".

Quindi Machiavelli tra i legislatori che "ricorrono a Dio" ne nomina due  che conosciamo bene: Licurgo e Solone. Infine tira le somme:"Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città, perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse. Perché dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della religione".

Per quanto riguarda la considerazione del timore quale fondamento di un ordinato vivere civile, possiamo indicare un archetipo, o comunque un autore più antico di quelli considerati sopra, in Eschilo che nelle Eumenidi  fa dire al coro:"  "a volte il terrore è bene/e quale ispettore delle  anime/ deve restarvi a fare la guardia".(vv. 517-519). E, più avanti:"Io consiglio ai cittadini che hanno cura della città/di rispettare uno stato senza anarchia né dispotismo/e di non scacciare del tutto il timore fuori dalla città./Infatti quale mortale è giusto se non ha nessuna paura?"(vv. 696-699).

Pensate alla favola non bella della partenogenesi di Maria sempre vergine quanta infamia sul rapporto sessuale tra eterosessuali ha gettato per decine di secoli. Oggi magari ci credono in pochi.

Cristo salvò la vita all’adultera e perdonò la peccatrice: “dico tibi: remissa sunt peccata eius multa quondam dilexit multum; cui autem minus dimittitur minus diligit.  Dixit autem ad illam. “Remissa sunt peccata tua” - N. T. Luca, 7, 47- 48). Parole sante. Vengano dette anche a me.

Tolstoj ci scherza sopra con intelligenza:" I libertini, queste Maddalene di sesso maschile, hanno un segreto senso della propria innocenza, né più né meno come le Maddalene femminili, e basato sulla medesima speranza di perdono:"Tutto le sarà perdonato, perché ha molto amato; e a lui tutto sarà perdonato, perché si è molto divertito"[12]. Quests peccatrix-ajmartwlov~ non era Maria Maddalena ma va bene lo stesso.

 

Bologna 18 febbraio 2023 ore 9, 50 giovanni ghiselli

Il catalogo è questo.

Sempre1325041

 

 

 

 



[1] Aurora, libro primo, 14,

[2] La mantica.

[3] Guidorizzi, Euripide, Baccanti, p. 9.

[4] Aurora, libro primo, 14.

[5] Giustino, 2, 7; Plutarco, Vita di Solone, 8, 1, sg.

[6] Di là dal bene e dal male, Noi dotti, 211

[7] Così parlò Zarathustra,, Colloquoi con i re, 1

[8] In La tragedia spagnola ( 1592) di Thomas Kyd  il nobile portoghese Alexandro, con pessimismo meno assoluto, dice:"Il cielo è la mia speranza: quanto alla terra, essa è troppo infetta per darmi speranza di cosa alcuna della sua matrice" (III, 1).

[9] Frammenti postumi, settembre 1876. (52)

[10] Netzsche, Così parlò Zarathustra, parte prima,  Del nuovo idolo.

 [11] Sono parole di un frammento  (25 D. K.) del dramma satiresco, una quarantina di versi tramandati da Sesto Empirico, filosofo scettico della seconda metà del II secolo d. C.

[12]Guerra e pace ,  libro II, parteV, 10. p. 855.

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