Nel quotidiano “la Repubblica” di oggi, nella pagina 19, leggo con grande dispiacere questo titolo:
Fuga dal classico
Iscritti al minimo
Tuttavia, e meno male,
Le università li cercano ancora
Con dispiacere sì, ma senza sorpresa perché il liceo classico era la scuola della prima classe e lo dico in senso culturale e spirituale, non nel senso socioeconomico, pure se lo era anche in questo.
Il rimedio sarebbe stato estendere questo bel liceo il più possibile, non riservarli ai fortunati pochi.
Senza sorpresa ripeto, siccome i politici e i vari dirigenti italiani denunciano con la loro crassa ignoranza la decadenza culturale degli Italiani che in numero sempre via via minore frequentano il liceo classico.
Nella medesima pagina del quotidiano che leggo ogni giorno, e critico spesso, un intervistatore domanda a Eva Cantaarella dove stia “l’utilità pratica del greco”. La grecista risponde “L’idea- sempre più diffusa e pervasiva- che si studi per utilità, per trovare un lavoro da fare da adulti è discutibile”
Segue un’altra domanda dello stesso tipo: “Insisto: che posso fare con il greco nella mia vita quotidiana”.
L’intervistata risponde che molte parole del nostro uso quotidiano sono greche. Ma non arriva alla conclusione: chi non conosce il greco e il latino non ha una chiara coscienza di quello che dice e sente dire nella sua lingua madre. Aggiungo che infatti moltissimi giovani e parecchi non più giovani non sanno parlare in maniera logica e corretta. Tanto meno in modo significativo, efficace e bello. Danno così scarsa importanza alle parole che bofonchiano in maniera inarticolata.
E non sono per niente d’accordo con quanti dicono che il greco e il latino saranno pur belli ma non servono a niente e a nessuno. Certo: non sono servi di nessuno ma servono a tutto, a ogni attività della vita. Ora citerò alcune parole della metodologia che ho elaborato in dieci anni (2000-2010) di lavoro nella SSIS dove insegnavo ai giovani laureati in greco come ottenere l’attenzione e l’interesse dei liceali insegnando questa materia nei licei classici appunto.
Questa era la premessa:
“Perché studiare il greco e il latino, potrebbe chiederci un giovane, a che cosa servono? Alcuni rispondono:" a niente; non sono servi di nessuno; per questo sono belli"[1]. Non è questa la nostra risposta. Se è vero che le culture classiche non si asserviscono alla volgarità delle mode, infatti non passano mai di moda, è pure certo che la loro forza è impiegabile in qualsiasi campo. La conoscenza del classico potenzia la natura peculiare dell'uomo che è animale linguistico. Il greco e il latino servono all'umanità: accrescono le capacità comunicative che sono la base di ogni studio e di ogni lavoro non esclusivamente meccanico.
Chi conosce il greco e il latino sa parlare la lingua italiana più e meglio di chi non li conosce[2]. Sa anche pensare più e meglio di chi non li conosce.
Parlare male, affermava Socrate nel Fedone , non solo è una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime[3].
Don Milani insegnava che "bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchire la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola".
Il sicuro possesso della parola è utile in tutti i campi, da quello liturgico a quello erotico : "Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas ", bello non era, ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria. Sono versi non per caso citati da Kierkegaard nel Diario del seduttore. Ebbene, non si può essere veramente bravi a usare la parola, utilizzabile sempre e per molti fini, tutti sperabilmente buoni, se non si conoscono le lingue e le civiltà classiche, ossia quelle dei primi della classe. Noi vorremmo che le conoscessero tutti attraverso una scuola che fosse nello stesso tempo popolare e di alta qualità”.
Un’ultima osservazione, in risposta a quanto dice Paolo Pedullà preside dl liceo Tasso di Roma: “Un’ora in più di matematica sarebbe indispensabile. L’approccio scientifico e la capacità di tradurre dal greco e dal latino danno una marcia in più” (sono le ultime parole dell’aricolo di Ilaria Venturi del quale ho trascritto il titolo in grassetto all’inizio di questo post).
Va bene anche la matematica purché i docenti siano capaci di far vedere le idèe oltre che i numeri. Lo stesso vale per il greco e il latino: indispensabili sono l’alfabeto, gli spiriti e gli accenti, la grammatica e la sintassi per leggere gli autori, e perfino la metrica che serve a memorizzare i testi, questi però vanno letti presto e la lingua va insegnata sui brani più significativi e i più belli degli autori più bravi.
Nei testi il docente deve illustrare le espressioni dell’autore non solo attraverso la grammatica o la glottologia ma anche mostrandone le idee, i loro nessi con la storia politica, con la storia dell’arte, con la musica, inotre le analogie e le differenze degli autori tra loro, e la persistenza dei classici antichi nei moderni, e la loro presenza nel modo di pensare, sentire, agire durante la nostra vita di persone civili e umane. Questo è stato ed è l’impegno più grande nella vita mia.
Bologna 8 febbraio 2023 ore 16, 52 giovanni ghiselli
p.s
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Mi conforta il fatto che tante persone seguono con entusiasmo le mie conferenze e i miei scritti resi belli e preziosi da diverse citazioni di autori classici antichi e moderni.
[1] “Erano-e l’insegnante lo faceva notare spesso-del tutto inutili apparentemente ai fini degli studi futuri e della vita, ma solo apparentemente. In realtà erano importantissimi, più importanti addirittura di certe materie principali, perché sviluppano la facoltà di ragionare e costituiscono la base di ogni pensiero chiaro, sobrio ed efficace” (H. Hesse, Sotto la ruota (del 1906), p. 24.
[2] Vittorio Alfieri nella sua Vita (composta tra il 1790 e il 1803) racconta di avere impiegato non poco tempo dell’inverno 1776-1777 traducendo dopo Orazio, Sallustio, un lavoro “più volte rifatto mutato e limato…certamente con molto mio lucro sì nell’intelligenza della lingua latina, che nella padronanza di maneggiar l’italiana” (IV, 3).
[3] Cfr. cap. 50.
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