Il XXXVIII libro racconta la guerra tra gli Achei e i Romani e la Terza guerra punica con la distruzione di Cartagine.
I Greci giungono alla catastrofe per colpa loro, attraverso calamità più dolorose di quelle di Cartagine. In passato i Greci subirono diverse disgrazie, come il passaggio di Serse in Europa, rischioso soprattutto per gli Ateniesi, o Egospotami, o Leuttra deleteria per gli Spartani. Ma nulla c'è di vergognoso ("aijscrovn", XXXVIII 2, 9) in tutti questi avvenimenti che furono appunto disgrazie ("sumptwvmata"), non disastri ("ajtuchvmata", 2, 10). Tali cadute infatti furono accompagnate dalla compassione da parte di altri etale e[leo~ costituisce una ricompensa non da poco per coloro che sono ingiustamente colpiti dalla sorte ("oJ ga;r para; tw'n ejkto;" e[leo" ouj mikro;n ejpivceirovn ejsti toi'" ajdivkw" ajklhrou'sin", 3, 2).
Seguono alcune dichiarazioni di metodo. Innanzitutto viene manifestata l'intenzione di dire la verità a costo di provocare dispiaceri e risentimenti. Del resto nessuna persona dal retto giudizio riterrebbe amico sincero("fivlon...gnhvsion") uno che sia timido ed abbia paura di parlare con franchezza ("to;n dediovta kai; fobouvmenon tou;" meta; parrhsiva" lovgou"", XXXVIII 4, 3); inoltre non si deve assolutamente considerare scrittore di storia politica chi valuta qualcos' altro più della verità ("suggrafeva de; koinw'n pravxewn oujd j o{lw" ajpodektevon to;n a[llo ti peri; pleivono" poiouvmenon th'" ajlhqeiva"", 4, 5).
Lo storico deve rispettare tanto più la verità quanto più numeroso è il pubblico cui si rivolge e quanto più lontana nel tempo è destinata ad arrivare la sua opera. La narrazione deve restare libera da ogni falsità poiché non è suo compito dilettare momentaneamente gli orecchi dei lettori ma educarne profondamente lo spirito affinché non ricadano più spesso negli stessi errori ("cavrin tou' mh; tai'" ajkoai'" tevrpesqai kata; to; paro;n tou;" ajnagignwvskonta", ajlla; tai'" yucai'" diorqou'sqai pro;" to; mh; pleonavki" ejn toi'" aujtoi'" diasfavllesqai", XXXVIII, 4, 8).
E' questo un insegnamento specificamente tucididèo (cfr. I, 22), e, da quando Tucidide legiferò (" jO d j ou\n Qoukidivdh"...ejnomoqevthse"), come afferma Luciano[1], la legge della verità divenne ineludibile per i suoi seguaci: nell'ultimo capitolo del suo opuscolo Luciano aggiunge che bisogna scrivere la storia con verità ("su;n tw'/ ajlhqei'") e con il pensiero rivolto piuttosto alla speranza futura che con adulazione mirando a compiacere quelli elogiati al momento presente ("pro;" to; hJdu; toi'" nu'n ejpainoumevnoi"", 63).
Del resto lo scrupolo della verità a tutti i costi e la volontà di educare i posteri non si trova solo nei seguaci di Tucidide: Dante parlando con Cacciaguida esprime gli stessi dubbi e propositi che abbiamo letto in questi storiografi:"e s'io al vero son timido amico,/temo di perder viver tra coloro/che questo tempo chiameranno antico"[2].
Polibio procede esponendo ancora il proprio metodo e replicando in anticipo a un'eventuale critica di incompletezza e frammentarietà. Gli si potrebbe obiettare infatti che la sua narrazione passa da Cartagine, alla Grecia, alla Siria e così via. Gli studiosi, si dice, vogliono una narrazione ininterrotta e desiderano conoscere la conclusione degli argomenti iniziati("zhtei'n de; tou;" filomaqou'nta" to; sunece;" kai; to; tevlo" iJmeivrein ajkou'sai th'" proqevsew"", XXXVIII, 5, 3).
Questo pensare alla malevolenza attribuita da Callimaco, nel proemio degli Aitia ai suoi detrattori i Telchini ignoranti che della Musa non nacquero amici ("Telci'ne"...nhvide" oi} Mouvsh" oujk ejgevnonto fivloi", vv. 1-2) i quali lo accusano perché non ha composto un poema unico e continuato ("eJ;n a[eisma dihnekev"", v. 3). Callimaco risponde che la Musa deve essere sottile ("leptalevhn", v. 24).
Polibio invece si difende chiamando in causa la stessa natura che varia le sensazioni per i diversi sensi. Questi a loro volta si allietano della varietà: all'udito non piace ascoltare sempre lo stesso tono, al gusto assaporare gli stessi cibi pur se raffinati, e così la vista non è capace di tenere l'attenzione fissa su un solo oggetto . Ma soprattutto la mente ha bisogno di cambiare gli oggetti della propria attenzione e del proprio studio.
Segue il racconto di un episodio della III Guerra Punica, poi la Guerra Achea contro i Romani con la catastrofe dei Greci a causa della follia dei loro capi e dei propri errori. Del resto, come dice il proverbio- kata; th;n paroimivan-, le teste vuote fanno calcoli a vuoto ("kena; kenoi; logivzontai", XXXVIIIm 16, 11).
L'unica fortuna per la nazione achea fu la sua rapida sconfitta a Leucopetra, sull'istmo di Corinto, nel 146, da parte del console Mummio che poi saccheggiò la città dai due mari. Così accadde come se una sorte intraprendente ed ingegnosa avesse opposto resistenza alla folle insensatezza dei governanti achei ("dokei' moi kaqaperanei; tuvch ti" ajnterei'sai panou'rgo" kai; tecnikh; pro;" th;n a[noian kai; manivan tw'n hJgoumevnwn",18, 8) i quali caddero presto, sicché i Romani non dovettero impiegare tutta la loro forza contro i nemici. La sconfitta dei Greci insomma fu un caso di "provvida sventura". Infatti ognuno ripeteva il proverbio: se non fossimo arrivati alla catastrofe così in fretta, non ci saremmo mai salvati ("eij mh; tacevw" ajpwlovmeqa, oujk a]n ejswvqhmen", 18 12). Segue il racconto della presa di Cartagine, avvenuta nella primavera del 146 a. C. Il comandante cartaginese Asdrubale si getta supplice ai piedi di Scipione dandogli l'opportunità di notare la mutevolezza della Fortuna e di sconsigliare a tutti i mortali di parlare e agire con superbia. Asdrubale viene rimproverato dalla moglie la cui fierezza risalta davanti alla viltà di lui.
Volendo essere più maligni, e forse anche più realisti si può pensare che il disprezzo di quella moglie deriva dal fatto che" le donne non perdonano l'insuccesso"[3], come rileva Kostantin de Il gabbiano di Cechov prima di spararsi.
Durante la distruzione di Cartagine Scipione si fece pensoso ed espresse a Polibio il presentimento della rovina di Roma. Quindi l'autore si effonde in un altro elogio del vincitore che nel momento del successo massimo fu in grado di riflettere sul possibile ribaltamento delle circostanze e sulla instabilità della fortuna. Segue (tramandato da Appiano, uno storico del II secolo d. C.) il notissimo episodio del pianto di Scipione che citò due versi dell'Iliade [4] con la previsione della caduta di Troia. A Polibio che gliene domandò il significato, dicono che il vincitore senza schermirsi pronunciò chiaramente il nome della sua patria("fasi;n ouj fulaxavmenon ojnomavsai th;n patrivda safw'"", 22, 3) per la quale temeva quando rifletteva sul destino delle cose umane .
Il XXXIX libro, narra l'orribile saccheggio di Corinto. Strabone riferisce ( VIII, 6, 28) che Polibio stesso racconta di avere visto i soldati romani giocare a dadi sui dipinti gettati a terra.
Torna a proposito a questo punto una riflessione di Eumolpo del Satyricon :"noli ergo mirari, si pictura defecit, cum omnibus dis hominibusque formosior videatur massa auri, quam quicquid Apelles Phidiasque, Graeculi delirantes fecerunt "(88), non meravigliarti dunque se la pittura è venuta meno, dal momento che a tutti gli dèi e gli uomini sembra più bello un mucchio d'oro che qualunque capolavoro crearono Apelle e Fidia, Grechetti deliranti.
Polibio difende Filopemene dalle accuse dei detrattori ricordando la lealtà dello stratego i servigi resi ai Romani quando spinse la lega Achea ad appoggiarli nelle guerre contro Filippo V e Antioco III. Sicché lo storico ottenne dalla commissione dei Dieci senatori romani che i ritratti di Filopemene, e quelli di altri capi Achei, venissero rimessi al loro posto nel Peloponneso, e il popolo, provando ammirazione per il comportamento di Polibio in questa circostanza, gli fece erigere una statua di marmo "ejn oi|" ajgasqe;n to; plh'qo" aujtou' th;n proaivresin e{sthsen aujtou' liqivnhn eijkovna", XXXIX 3, 11).
In fondo è una statua che l'autore erige a se stesso e al suo partito. Quindi lo storico collaborazionista si adoperò perché i Greci accettassero la trasformazione della Grecia in provincia (145 a. C.). Elleni e Romani gli furono riconoscenti e ogni città fece di tutto per conferirgli i più alti onori sia da vivo sia da morto. Anche di questi onori si può dire che il primo ad attribuirseli è lo stesso Polibio il quale anzi aggiunge di averli meritati poiché senza la sua opera avrebbe trionfato la confusione, mentre tale vittoria sul caos va ritenuta la più splendida impresa compiuta da lui.
Segue un elogio di L. Mummio che, come proconsole, fece riparare il luogo dei giochi istmici, ossia il santuario di Posidone a 12 Km. dalla città, e adornò i templi di Olimpia e Delfi ricevendo grandi onori come uomo pio, moderato, onesto e mite.
Mi ricorda in qualche maniera "il re buono", Umberto I, che fece decorare il generale Bava Beccaris il quale aveva ordinato un'ecatombe di mendicanti raccolti attorno a un convento di Milano nel maggio del 1898.
Polibio però ha l'accortezza di tentare una giustificazione delle stragi di Mummio, come quella dei cavalieri di Calcide: nei casi in cui sembrava avere trasgredito il suo dovere, non l'aveva fatto di sua iniziativa ma perché vi era stato spinto dagli amici che aveva vicino("ejmoi; me;n oujk ejfaivneto di j eJauto;n tou'to pepoihkevnai, dia; de; tou;" parakeimevnou" fivlou"" 6 4).
Siamo arrivati agli ultimi frammenti: uno menziona Tolomeo VI Filometore, morto in battaglia nel 145 a. C.
Un altro è parte dell'Epilogo.
Polibio ricorda che, compiuta la missione, tornò a casa, giustamente ricompensato della sua devozione verso Roma. L'autore prega gli dèi che gli consentano di mantenere le sue disposizioni vedendo come la Fortuna sia pronta a invidiare gli uomini (" qewrou'nte" th;n tuvchn wJ" e[stin ajgaqh; fqonh'sai toi'" ajnqrwvpoi"" XXXIX 8, 2) e dispieghi tutta la sua forza soprattutto quando uno crede di avere raggiunto il massimo della felicità e del successo nella vita. Ma questo l'avevo già anticipato.
Segue la rievocazione del sommario iniziale: si era proposto di cominciare dal punto d'arrivo delle Storie di Timeo (264 a. C.), poi dopo una panoramica delle vicende d'Italia, Sicilia e Libia (le regioni prese in considerazione da Timeo), a partire dal comando di Annibale, dall'ascesa di Filippo V al trono di Macedonia, dall'esilio di Cleomene spartano, dall'ascesa al trono di Antioco in Siria e Tolomeo Filopatore in Egitto, ossia dal 220, di narrare le vicende del mondo intero, distribuendole per anni e mettendole fianco a fianco, ossia confrontandole con metodo comparativo, fino alla presa di Cartagine, al sacco di Corinto e alla sistemazione della Grecia. Il risultato più utile e splendido per gli studiosi sarebbe stato quello di conoscere come e con quale tipo di costituzione i Romani siano riusciti a ridurre sotto il proprio dominio quasi tutta la terra abitata. Ebbene l'obiettivo è stato completamente raggiunto ("touvtwn dh; pavntwn hjmi'n ejpitetelesmevnwn", 8, 8) da Polibio cui e non restano che gli indici da fare.
Il XL libro di cui non è giunto alcun frammento conteneva appunto questi indici.
Tutti quelli che si occupano della lingua di Polibio si trovano d'accordo nel dire che è quella delle cancellerie ellenistiche. Ho già citato un giudizio in questo senso e aggiungo che gli altri a mia conoscenza non se ne discostano.
Lo stile che l'autore stesso considera connotato da una certa secchezza (IX, 1, 2) non esclude comunque le figure, e gli strumenti della tecnica oratoria con le allitterazioni, gli iperbati, le comparazioni, le metafore, e così via, né le citazioni, le allusioni, le menzioni dei poeti, in particolare Euripide e Omero, come ho indicato nel commento. Ma per sapere e capire di più, passiamo a leggere il testo. Vedremo subito che l'elogio della storia del Proemio è retoricamente elaborato secondo uno schema mutuato dall'oratoria di Lisia e Demostene.
Bologna 2 febbraio 2022 ore 19, 41 giovanni ghiselli
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