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martedì 30 giugno 2020

Consigli per l'esame di maturità. Parte 33. Il mito. Monoteismo e politeismo

Il MITO 2
Seconda parte
Monoteismo e Politeismo

 Molto lontano da questa variabilità di uno dei tanti dèi cangianti è il prescrittivo, monoteistico, talora persino guerrafondaio: “Non avrai altro Dio all’infuori di me”. Ha detto bene Massimo Cacciari in un intervento televisivo[1]: la democrazia è strutturalmente politeistica.

“Ed è ugualmente indubitabile che la seguente espressione “democrazia cristiana”, nonché non essere una ripetizione, è addirittura una contraddizione di termini, se, semanticamente, ossia se verificato geograficamente e storicamente qui in Italia, “cristiano” ha valore di “cattolico”, con tutto il suo strascico dogmatico e gesuitico, che ognuno conosce, salvo colui che vive appunto nell’accettazione abitudinaria del dogma”[2].

Freud afferma che la religione monoteistica fu portata agli Ebrei da Mosé, un Egiziano seguace della religione voluta da Amenofi IV, che era “salito al trono intorno al 1375 a. C.”[3] e adorava “il sole (Atòn) non come oggetto materiale ma come simbolo di un essere divino la cui energia si manifestava appunto nei raggi”[4] solari. Il faraone eretico si cambiò il nome in Ekhanatòn cancellando la presenza del dio Amòn dalla propria persona e da tutte le iscrizioni.
“Si trattava di un rigoroso monoteismo, il primo tentativo del genere nella storia mondiale, per quanto ne possiamo sapere; e con la fede in un unico dio nacque inevitabilmente l’intolleranza religiosa[5], sconosciuta all’antichità prima di allora e per molto tempo dopo. Ma il regno di Amenofi durò solo diciassette anni; subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1358, la nuova religione fu spazzata via, e la memoria del re eretico proscritta (…) Vorrei adesso arrischiare una conclusione: se Mosè fu Egizio e se egli trasmise agli Ebrei la propria religione, questa fu la religione di Ekhanatòn, la religione di Atòn”[6].
Freud cerca di avallare questa tesi con vari indizi : entrambe le religioni “sono forme di rigido monoteismo”; inoltre “l’assenza nella religione ebraica di una dottrina concernente l’aldilà e la vita ultraterrena, che pure, sarebbe stata compatibile col più rigoroso monoteismo” corrisponde al rifiuto di tale presenza anche nella religione di Ekhnatòn che “aveva bisogno di combattere la religione popolare nella quale il dio dei morti Osiride aveva forse una parte maggiore di quella di ogni altro dio del mondo superiore”. Terzo indizio: Mosè introdusse presso gli Ebrei “la consuetudine della circoncisione”. Ebbene: “Erodoto, il “padre della storia”, ci informa che la consuetudine della circoncisione era da lungo tempo familiare in Egitto”[7].
Dunque Mosè “non era ebreo ma egizio, e allora la religione mosaica fu probabilmente una religione egizia” [8].

Aggiungo l’interpretazione di Steiner. Gli Ebrei sono visti come gli inventori e i propagatori di ideali troppo duri e scomodi per i popoli dell’Europa occidentale, insomma per noi. Il primo vulnus inferto all’Europa pagana fu quello del monoteismo.
Steiner cita Nietzsche: “ Nel politeismo consisteva la libertà dello spirito umano, la sua poliedricità creativa. La dottrina di una singola divinità (…) è “il più mostruoso di tutti gli errori umani” (“die ungeheuerlichste aller menschlichen Verirrungen”)”[9].
Aggiungo che anche il sistema economico unico seguito alla caduta del muro di Berlino non ha portato benessere all’umanità.
Sappiamo che Nietzsche non si limitò a questo. Egli vide negli Ebrei un popolo sacerdotale, il “popolo della più latente sete di vendetta sacerdotale”. E ancora: “Con gli Ebrei si inizia la rivolta degli schiavi nella morale”.

C’è una ostilità culturale piuttosto che razziale - biologica, fa notare T. Mann: “Quando Socrate e Platone cominciarono a parlare di verità e di giustizia egli dice una volta ‘non furono più greci, ma ebrei, o che so altro’. Orbene, gli ebrei, grazie alla loro moralità, si sono dimostrati buoni e tenaci figli della vita. Con la loro fede in un Dio giusto, essi sono sopravvissuti ai millenni, mentre il piccolo, dissoluto popolo greco di esteti e di artisti è presto scomparso dalla scena della storia. Ma Nietzsche, pur lontano da ogni odio razziale antisemitico, vede nel giudaismo la culla del cristianesimo e in questo, a ragione ma con aborrimento, il germe della democrazia, della rivoluzione francese e delle odiate “idee moderne” che la sua parola squillante marchia con il nome di ‘morale del gregge’ (…) ciò che egli disprezza e maledice in queste idee è ‘utilitarismo e l’eudemonismo, il loro far della pace e della felicità terrena i beni più desiderabili ed alti, mentre l’uomo nobile, tragico, eroico, calpesta questi valori molli e volgari”[10].

Steiner mette anche in rilievo il fatto che Freud cercò di scagionare gli Ebrei dalla “colpa” del monoteismo : “In una delle sue ultime opere, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Freud attribuì questo “errore” a un principe e veggente egiziano del casato disperso degli Ikhnaton. Molti si sono chiesti perché abbia cercato di togliere dalle spalle del suo popolo quel supremo fardello di gloria (…) Quando, durante i primi anni di regime nazista, Freud cercava di scaricare su spalle egiziane la responsabilità dell’ “invenzione” di Dio, stava facendo, pur forse senza averne piena coscienza, una disperata mossa propiziatoria, sacrificale. Stava tentando di strappare il parafulmine dalle mani degli ebrei. Troppo tardi. La lebbra della scelta di Dio - ma chi aveva scelto chi? - era troppo visibile su di loro”[11].
Ma sentiamo ancora Steiner: “Uccidendo gli ebrei, la cultura occidentale avrebbe sradicato quelli che avevano “inventato” Dio (…) L’Olocausto è un riflesso, ancor più completo in quanto lungamente inibito, della coscienza sensoriale naturale, degli istintivi bisogni politeistici e animistici”[12].
Al rigido monoteismo di Mosè si è poi aggiunto il cristianesimo che nella sua fase nascente proponeva ideali e prescriveva regole sostanzialmente impraticabili dai più, deboli e tutt’altro che buoni. Vero è che poi il cristianesimo, e il cattolicesimo in particolare, ha recuperato non pochi aspetti del politeismo e di quel grande apparato di potere che fu l’impero romano. “Le chiese cristiane sono sempre state, tranne rarissime eccezioni, un ibrido di ideali monoteistici e di pratiche politeistiche (…) Il Dio unico e inimmaginabile - a rigore, “inconcepibile” - del Decalogo non ha nulla a che fare con il pantheon triplice delle chiese, ampiamente tradotto in immagini”[13].
Ma i Vangeli rimangono, e questi raccomandano la povertà e l’amore del nemico. In quale modo possono accettare questo gli uomini, fragili e corrotti come per lo più sono ? Gli imitatori di Cristo, quale Francesco di Assisi, sono sempre stati pochi.
La maggior parte dei sedicenti cristiani sono tartufi, falsi devoti i quali vivono una vita che è l’antitesi di quella predicata da Cristo. Si pensi a tanti dei nostri politici che si professano cristiani.
Ultimo schiaffo all’Europa occidentale: l’ideale marxista. “ Il terzo confronto tra l’esigente utopia e i ritmi ordinari della vita occidentale coincide con l’avvento del socialismo messianico. Anche quando si proclama ateo, il socialismo di Marx, di Trockij, di Ernst Bloch discende direttamente dall’escatologia messianica. Nulla è più religioso, nulla si avvicina al sacro furore di giustizia dei profeti, più della visione socialista che contempla la distruzione della Gomorra borghese e la creazione per l’uomo di una città nuova e pura (…) Monoteismo del Sinai, cristianesimo primitivo, socialismo messianico: sono i tre momenti supremi in cui la cultura occidentale viene posta di fronte a quello che Ibsen chiamava “pretese dell’ideale”(…) Tre volte la sua eco si diffuse, e ogni volta dallo stesso centro storico. (Alcuni politologi calcolano che la percentuale degli ebrei coinvolti nello sviluppo ideologico del socialismo messianico e del comunismo si aggiri sull’80 per cento). Tre volte il giudaismo lanciò un appello alla perfezione e cercò di imporlo al corso normale della vita occidentale. Una profonda avversione si radicò nel subconscio sociale, presero forma rancori omicidi (…) Il gemocidio (…) fu un tentativo di livellare il futuro o, più precisamente, di rendere la storia commisurata alla naturale barbarie, al torpore intellettuale e agli istinti materiali dell’uomo non evoluto” [14]. Ebbene, per fortuna, il genocidio, quello fisico dei nazisti e quello culturale di tempi più recenti, non ha annientato del tutto gli uomini evoluti, colti e morali che capiscono l’altezza degli ideali proposti dagli Ebrei e ammirano la spiritualità ebraica. Vivere nel peccato della barbarie significa vivere contro lo spirito. Gli antisemiti sono ottusi refrattari alla ricettività nei confronti dello spirito, umano e divino. La religiosità e l’umanesimo degli Ebrei sono aspetti dell’intelligenza: l’ intelligenza dell’uomo e l’intelligenza di Dio.

Nel trattato Della tirannide (del 1777) Vittorio Alfieri distingue la religione cristiana dalla pagana, rilevando l’incompatibilità della prima con la libertà: “La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli dèi, e col fare del cielo quasi una repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato[15], e ad altri usi e privilegi della corte celeste, dovea essere, e fu infatti, assai favorevole al vivere libero (…) La cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero (…) Ed in fatti, nella pagana antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara tutti comandavano ai diversi popoli e l’amor della patria e la libertà. Ma la religion cristiana, nata in popolo non libero, non guerriero, non illuminato e già intieramente soggiogato dai sacerdoti, non comanda se non la cieca obbedienza; non nomina né pure mai la libertà; ed il tiranno (o sacerdote o laico sia egli) interamente assimila a Dio” (I, 8).
A dirla tutta anche Virgilio che con il cristianesimo non c’entra raccomanda e comanda la cieca obbedienza con le figure di Enea e di Aristeo. Ma su questo un’altra volta.

Anche nell’Idiota di Dostoevskij si legge una stroncatura del cattolicesimo. Sentiamo il protagonista lanciato in un’invettiva: “Anzitutto, non è una fede cristiana! (...) Il cattolicesimo romano crede che, senza una potenza imperiale, la fede cristiana non possa sussistere nel mondo, e grida al tempo stesso: Non possumus! Secondo me, il cattolicesimo romano non è nemmeno una religione, ma è la continuazione dell’impero romano, e tutto in esso è sottoposto a questa idea, cominciando dalla fede. Il papa vi ha conquistato il trono terrestre ed ha alzato la spada. Da quei tempi, ogni cosa prosegue in tal modo, solo che alle spade hanno aggiunto la menzogna, la furberia, l’infingimento, il fanatismo, la superstizione, la scelleratezza, trastullandosi coi più sacri, più sinceri, più ardenti sentimenti, i migliori sentimenti del popolo. Ogni cosa è stata venduta da Roma per denaro, per il vile potere temporale”[16].

giovanni ghiselli


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[1] Del gennaio 2006.
[2] P. P. Pasolini, Democrazia senza attributi? (gennaio 1948) In Pasolini saggi sulla politica e sulla società, p. 58. In un articolo successivo (I due proletariati, in “Il mattino del popolo” del 12 maggio 1948 Pasolini menziona un “discorsetto di De Gasperi” del 21 aprile, 1948, “imporporato vagamente ma minacciosamente dal fuoco degli autodafè” (Op. cit., p. 70).
[3] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, , secondo saggio (del 1937) p. 349. Il terzo saggio è del 1938. E’ l’ultimo libro di Freud, insieme con il Compendio di psicoanalisi , anche questo uscito nel 1938, del resto incompiuto. 
[4] S. Freud, Op. cit., p. 350.
[5] Leopardi nello Zibaldone (3833 - 3834) afferma invece che il culto del sole rende più umano e più civile chi lo pratica :"Quando gli Europei scoprirono il Perù e i suoi contorni, dovunque trovarono alcuna parte o segno di civilizzazione e dirozzamento, quivi trovarono il culto del sole; dovunque il culto del sole, quivi i costumi men fieri e men duri che altrove; dovunque non trovarono il culto del sole, quivi (ed erano pur provincie, valli, ed anche borgate, confinanti non di rado o vicinissime alle sopraddette) una vasta, intiera ed orrenda e spietatissima barbarie ed immanità e fierezza di costumi e di vita. E generalmente i tempii del sole erano come il segno della civiltà, e i confini del culto del sole, i confini di essa (5 Nov. 1823.). Ndr.
[6] S. Freud, Op. cit., secondo saggio, p. 353.
[7] Nelle Storie leggiamo che “Colchi, Egiziani e Etiopi si circoncidono dal tempo più antico” (II, 104, 2). Ndr.
[8] S. Freud, Op. cit., p. 355
[9] G. Steiner Nel castello di Barbablù Note per la riedifinizione della cultura, p. 39.
[10] Nobiltà dello spirito.
[11] Gerorge Steiner, Nel castello di Barbablù, p. 41
[12] Op. cit., p. 41.
[13] Op. cit., p. 39.
[14] Steiner, Op. cit, pp. 43 sgg.
[15] Il predominio del fato non risparmia nessuno: il Prometeo di Eschilo, afferma consolandosi del suo martirio, che nemmeno Zeus "potrebbe in alcun modo sfuggire alla parte che gli ha dato il destino (th;n peprwmevnhn)"(Prometeo incatenato, v. 518). Ndr.
[16] L’Idiota, p. 687.

Consigli per l'esame di maturità. Parte 32. la mia scuola. Il mito

Mosaico di Dioniso, III sec. d.C.
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Il MITO 1
prima parte: Eracle e Dioniso

Il mitoHillman. Pluralità di significati di alcuni personaggi mitici. G. B. Conte. Saturno. Eracle e Dioniso.
Excursus su politeismo, monoteismo e democrazia. Cacciari. Pasolini: l’espressione “democrazia cristiana” è una contraddizione di termini. Freud: L’uomo Mosé e la religione monoteistica. Alfieri e Dostoevskij: critiche al cattolicesimo. George Steiner: Nel castello di Barbablù.
Vari significati del mito. Nietzsche. Miti di origine: di nuovo Hillman. Il mito di Er. Morin, Pasolini e il film Medea. Cesare Pavese.
Kundera: diversi miti antichi partono dalla compassione di qualcuno che salva un bambino abbandonato. Mosè, Edipo, Cipselo e altri casi di compassione. Il film Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick: “the noblest impulse of man, his compassion for another.
Difficile e molto tardiva è la distinzione tra mito e storia. Erodoto, Tito Livio, Curzio Rufo, Arriano. La storia nasce dalla poesia. Vico e Pavese.
S. Mazzarino a proposito del rapporto tra le Storie di Polibio e la tragedia storica romana (Clastidium di Nevio e Decius di Accio). Calvino suggerisce di prendere il mito alla lettera.

L'ambiguità si trova anche in certi personaggi del mito che hanno un'immagine bipolare: "Saturno è allo stesso tempo immagine archetipica del Vecchio Saggio (…)e anche del Vecchio Re, l'orco castrato e castrante"[1].
Il mito infatti può avere sottolineature diverse ed essere usato con significati vari, come una parola del vocabolario.

 Eracle, per esempio, si presta a essere utilizzato nella poesia con funzioni differenti a volta addirittura opposte. E' un'idea che viene precisata in un saggio in inglese di G. B. Conte[2]. Ne riferisco alcuni concetti, tradotti in italiano e con l’aggiunta di qualche nota. Il professore della Normale di Pisa rileva che ogni mito (con le sue varianti) possiede una pluralità di significati che si aggregano intorno a una funzione tematica fondamentale. Ma quando un poeta utilizza un mito o un carattere mitico, egli opera attraverso una selezione, riorientando la storia nella direzione del suo testo. Eracle è stato impiegato dai poeti come eroe civilizzatore, come maschio esuberante nelle faccende sessuali (fino al punto di diventare lo schiavo di Onfale[3]) ma è anche un un insaziabile mangiatore[4] e un intemperante bevitore di vino[5]; una figura tragica che impazzisce poi ammazza i figli e la moglie[6]; il mitico progenitore dei re spartani e così via. Lo studioso procede in quella che chiama enumeratio chaotica , poi chiede: vi sareste aspettato che il sofista Prodico (come Senofonte riferisce nei suoi Memorabili II. 1. 21 - 34) avrebbe un giorno inventato una favola[7] il cui protagonista era Eracle, ma questa volta come esempio di saggezza e autocontrollo, come paradigma di virtù morale?
Prodico evidentemente ha fatto una scelta tra i vari aspetti di Eracle.
Aggiungo qualche considerazione.
Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, Eracle non partecipa all’orgia bacchica e sessuale dell’isola di Lemno, e anzi richiama i compagni al dovere dell’impresa (I, 855 sgg.), ma poco più tardi (I, v. 1270 sgg) abbandona la spedizione per cercare il giovane Ila rapito da una ninfa: “Nell’opera di Apollonio Eracle impersona il codice di comportamento dell’epica arcaica: gli viene attribuito l’amore pederastico, tipico dell’etica aristocratica, che lo esclude da questo matrimonio collettivo”[8].

Alessandro Magno, che si considerava suo discendente[9], recitava tutte queste parti dell’eroe dorico.

Non manca un Eracle perfino incestuoso e pedofilo. Nella Storia dell'India Arriano racconta che l'eroe giunse in quel paese lontano e gli Indiani lo chiamano ghgeneva (8, 4), figlio della terra. Megastene[10] e gli stessi Indiani sostengono che il suo costume era simile a quello dell’Eracle tebano. Quindi gli nacquero molti figli maschi, da molte donne, e una sola figlia femmina: Pandea. Eracle liberò mari e terre da bestie malefiche e nel mare scoprì un nuovo tipo di ornamento femminile ossia to;n margarivthn dh; to;n qalavssion (8, 9), la perla marina. L'eroe le raccolse dall’intero Oceano per adornare sua figlia. Le donne nel regno della figlia di Eracle si sposano a sette anni. C’è una leggenda per spiegare questo: Eracle, essendogli la figlia nata tardi, e non trovando un uomo degno di tanto padre cui darla in sposa, si unì a lei che aveva sette anni ("aujto;n migh'nai th'/ paidiv eJptaevtei ejouvsh/", 9, 3), lasciando una discendenza di re indiani.
 Annibale venerava e imitava Eracle identificato con il dio punico Melqart: "Ciò che (…) credo di avere compreso io per primo è la natura di Eracle - Melqart, in realtà il più universale dei simboli (….) i suoi caratteri incarnano alcune istanze insopprimibili dell'animo umano (…) La sua polivalenza nasceva dal tratto essenziale comune alle diverse interpretazioni che vengono date di lui: sostanzialmente una forza giusta e riparatrice, in grado di punire i malvagi e di proiettare l'uomo verso un'immortalità da conquistarsi con l'esercizio costante della virtù (…) Il nume tutelare della spedizione in Italia fu dunque, di volta in volta, il Melqart che parlava al cuore dei Punici, o l'Eracle greco nelle sue diverse accezioni, l'Ogimos caro al mondo celtico, il Makeris africano o la corrispondente figura iberica. Comunque io lo proponessi, ogni membro della mia armata finiva per coglierne un'identità diversa, quella a lui più cara; e di questa figura, multiforme e unica a un tempo, io potei quindi costantemente servirmi come di una chiave, capace di aprirmi tutte le porte"[11].

Altri imitatori di Eracle saranno Marco Antonio e il suo bisnipote Nerone.

Possiamo quindi notare che il Dioniso infantile dell’Iliade (Diwvnuso" de; fobhqeiv", 6, 135), o quello ridicolo delle Rane di Aristofane[12], è spaventato e tremante, mentre quello delle Baccanti di Euripide è sicuro di sé, impositivo (v. 34), e feroce[13].
Già nell’Odissea del resto Dioniso viene menzionato come il dio che con le sue accuse spinse Artemide a uccidere Arianna in Dia[14], mentre Teseo la portava da Creta al sacro colle di Atene (XI, vv. 321 - 325). Qui anche la figlia di Minosse ha un ruolo diverso rispetto alla ragazza abbandonata dal perfido seduttore Teseo, quali li rappresenta Catullo nel carme 64. Da questi versi dell’Odissea sembra che sia stata Arianna ad abbandonare un l’amante, probabilmente Dioniso.

Arriano sostiene che c’è un Dioniso diverso da quello tebano, figlio di Semele; l’altro, nato da Zeus e da Core, è venerato dagli Ateniesi. L’inno bacchico dei misteri è cantato per questo Dioniso ateniese, non per quello tebano: “kai; oJ [Iakco~ oJ mustiko;~ touvtw/ tw`/ Dionuvsw/, oujci; tw`/ Qhbaivw/ ejpav/detai[15].

“Egli è venuto in forma umana a Tebe per portare amore (ma mica quello sentimentale e benedetto dalle convenzioni!), e invece porta il dissesto e la carneficina. Egli è l’irrazionalità che cangia, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dalla dolcezza all’orrore. Attraverso essa non c’è soluzione di continuità tra Dio e il Diavolo, tra il bene e il male (Dioniso si trasforma, appunto, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dal giovane pieno di grazia che era al suo primo apparire in un giovane amorale e criminale. Sia come apparizione “benigna” che come apparizione “maledetta”, la società, fondata sulla ragione e sul buon senso - che sono il contrario di Dioniso, cioè dell’irrazionalità - non lo comprende. Ma è la sua stessa incomprensione di questa irrazionalità che la porta irrazionalmente alla rovina (alla più orrenda carneficina mai descritta in un’opera d’arte. Sono gli I. M., per citare Elsa Morante, gli Infelici Molti, ossia la maggioranza, o la media, fondata sulla razionalità e sul buon senso, che non comprendono la grazia di Dioniso, la sua libertà, e, perciò, finiscono atrocemente nella strage: di cui peraltro la irrazionalità stessa è patrona. "Quanti Péntei, nella nostra società (…) I Pentéi italiani sono dei mediocri, dei meschini imbecilli, neanche degni di essere dilaniati dalle Menadi ”[16].



[1] J. Hillman, Puer aeternus, p. 80.
[2] Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in Poets And Critics Read Vergil, Yale University Press., p. 50 ss.
[3] Ricordata nelle Trachinie di Sofocle, dove Eracle è un donnaiolo e il marito assenteista e infedele della povera Deianira. Nell' Hercules Oetaeus, di dubbia attribuzione senecana, Deianira descrive il marito come un antico don Giovanni: egli avrebbe compiuto i suoi agoni acerrimi per conquistare le ragazze:"virginum thalamos petit " (v. 420) , cerca i letti delle vergini. A volte si accontenta delle spose:"nuptas ruinis quaerit" (v. 422), cerca le spose con i suoi macelli. Comunque:" causa bellandi est amor " (v. 425), la causa della guerra è l'amore. L'amore dopo tutto sarà la somma fatica di Ercole:"amorque summus fiet Alcidae labor" (v. 475). 
[4] Nella commedia Lino di Alessi (380 - 270 a. C., autore della commedia di mezzo, zio o maestro di Menandro) l’autore narra che il mitico citarista dava lezioni a Eracle e voleva spingerlo a leggere i poeti, ma lo scolaro, spinto dalla voracità, prese dalla biblioteca L’arte di cucinare di un certo Simo (fr. 140 K. –A.).
[5]Funzione assunta nell'Alcesti di Euripide.
[6]Nell'Eracle di Euripide.
[7]Quella di Eracle al bivio.
[8] Guido Paduano e Massimo Fusillo (a cura di) Apollonio Rodio Le Argonautiche, p. 185
[9] Plutarco racconta che è una tradizione cui tutti prestano fede quella secondo la quale Alessandro discendeva da Eracle attraverso Carano e Filippo, e da Eaco attraverso Neottolemo e Olimpiade (Vita, 2).
[10] Ambasciatore inviato in India dal re Seleuco I Nicatore (355 ca. 280 a. C.) presso il re Sandracotto, scrisse Indikà in quattro libri dei quali ci sono giunti frammenti per via indiretta.
[11] G. Brizzi, Annibale, p. 50
[12] Aristofane nelle Rane rappresenta Dioniso che, terrorizzato da Empusa, fugge tra le braccia del suo sacerdote (v. 297). Più avanti viene apostrofato dal servo Xantia in questo modo: w\ deilovtate qew'n su; kajnqrwvpwn (v. 486), oh tu, davvero il più vigliacco degli dèi e degli uomini! . Il dio se l'era voluta, cacandosi addosso dalla paura (v. 479).
[13] Consiglio a questo proposito il commento di Fulvio Molinari: EuripideBaccanti, Loffredo, 1998.
[14] Isola dell’Egeo.
[15] Arriano, Anabasi di Alessandro, 2, 16, 3.
[16] Sui burocrati ottusi: Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società,p p. 1142 - 1143

lunedì 29 giugno 2020

Consigli per l'esame di maturità. Parte 31. Ambiguità delle parole, degli oggetti, delle persone e delle opere

Auli Gellii Noctium Atticarum 1706

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Aulo Gellio sull’ambiguità delle parole. Il cultus (gradito o ingannevole) di Ovidio e quello (levis ac parabilis) di Alessandro Magno. Le cicatrici come decorazioni, come bocche mute o parlanti. Pirandello e l’impossibilità di intendersi attraverso le parole. L’ambiguità può riguardare una persona (Nerone), un oggetto, una situazione, e anche un intero dramma. Jan Kott: l’Alcesti di Euripide e il tappeto rosso dell’Agamennone di Eschilo. La Mastrocola: l’ambiguità è ricchezza di significati. Frasnedi. Morin e la polisemia del concetto: la parola “cultura” è un vero e proprio camaleonte concettuale.

Aulo Gellio[1] ci tramanda l'opinione di Crisippo[2], terzo scolarca della Stoà dopo Zenone e Cleante: "Chrysippus ait, omne verbum ambiguum natura esse, quoniam ex eodem duo vel plura accipi possunt"[3], Crisippo dice che ogni parola è ambigua per natura, poiché da una sola si possono trarre due o più significati.

Anche uno solo dei tanti significati di una parola può variare a seconda del contesto: cultus significa, tra l’altro, la cura della persona. Ebbene Ovidio nell’ Ars amatoria ne dà un'interpretazione positiva quando afferma che la sua età gli piace quia cultus adest[4], come abbiamo già ricordato[5], mentre nei Remedia amoris, con movimento lucreziano, mette in guardia gli spasimanti dalla fallacia dell’acconciatura:"auferimur cultu"[6], siamo sedotti dall'acconciatura la quale ci porta via la donna in sé (ipsa puella[7]), la donna come è veramente.
Scarsità di cultus del resto può essere una scelta seduttiva: Alessandro Magno, quando giunse a Tarso, la capitale della Cilicia, alla fine dell’estate del 333, volle fare un bagno nel fiume Cidno. Si ammalò gravemente poiché si era gettato, ancora accaldato, nell’acqua fredda. Ma aveva fretta di spogliarsi e pensava che oltretutto sarebbe stato onorevole mostrare ai suoi che si accontentava di una cura del corpo semplice e facilmente procurabile decōrum quoque futurum ratus, si ostendisset suis levi ac parabili cultu corporis se esse contentum[8]. In un’altra circostanza, prima della battaglia di Gaugamela (ottobre del 331 a. C.) Alessandro mise in mostra il “trucco”, o l’antitrucco, delle cicatrici, quali garanzia delle sue parole e altrettante decorazioni del corpo: “spondere pro se tot cicatrices[9], totĭdem corporis decŏra”, e, aggiunse, sono l’unico a non prendere parte del bottino.
Tale cultus incultus fa parte di quello stile della neglegentia (noncuranza di sé, sprezzatura) di cui tratteremo più avanti (59, 2).
  
L'ambiguità del linguaggio e l' impossibilità di intendersi viene teorizzata da Pirandello nei Sei personaggi: "Ma se è tutto qui il male! Nelle parole!…come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono andate dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro! Crediamo d'intenderci; non ci intendiamo mai!"[10].
Luogo simile si trova nell'ultimo romanzo dell'Agrigentino, Uno, nessuno e centomila [11]: "il guajo è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell'accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d'intenderci; non ci siamo intesi affatto" (p. 39).

L’ambiguità può riguardare una persona. Nerone.
Nerone si comportava da maschio eterosessuale con le amanti femmine, come la famigerata Sabina Poppea; probabilmente da maschio incestuoso e assassino con la madre, la non meno famigerata Agrippina; da omosessuale attivo con il giovinetto Sporo che sposò e pro uxore habuit, tenne come moglie; e da omosessuale passivo con il liberto Dorìforo, “cui etiam, sicut ipsi Sporus, ita ipse denupsit, voces quoque et eiulatus vim patientium virginum imitatus[12] , al quale, come a lui stesso Sporo, si era dato in moglie, imitando anche i versi e i lamenti delle vergini sottoposte a violenza. Questo liberto per giunta ha un secondo nome: Tacito e Cassio Dione lo chiamano Pitagora.
Il ribelle Vindice parlò ai Galli dubitando che Nerone fosse un uomo: uno che si era maritato con Sporo e ammogliato con Pitagora: “ oJ Spovron gegamhkwv~, oJ Puqagovra/ gegamhmevno~[13].
Budicca regina degli Iceni (Britanni del nord est) nel 61 d. C. si ribellò ai Romani e pregando la dea Andraste le chiese di aiutarla a sconfiggere quella gente governata da donne: prima da Messalina, poi da Agrippina e da Nerone che porta un nome da uomo ma in realtà è una donna (e{rgw/ de; gunhv ejsti): i segni di questa sua identità sessuale sono il fatto che canta, suona la cetra, e si imbelletta: “shmei'on dev, a[/dei kai; kiqarivzei kai; kallwpivzetai[14].
Dunque tale Domizia Neronia (Nerwni;~ hJ Domitiva, 62, 6, 5) non regni più sui Britanni che sono veri uomini e tengono tutto in comune, anche i bambini e le donne, né sulle Britanne che hanno lo stesso valore dei maschi, ma sugli effemminati Romani, gente che si lava con l’acqua calda, che si ciba di bevande preparate, che beve vino puro, che si cosparge di unguento profumato, che si corica mollemente, oltretutto con i ragazzini, che è schiava di un citaredo, per giunta malvagio.

Anche una situazione, o un intero dramma possono essere ambigui: “La puoi dire viva e che è morta anche”[15] .
L’ambiguità è il cardine di Alcesti: il tessuto linguistico e la struttura teatrale sono a essa soggetti; l’azione è ambigua e si rievocano ironicamente i miti che negano la resurrezione. Ma cosa significa ambiguità? Nel rapporto tra significante e significato, la superficie del segno - la sua “icona”, la sua “forma” - oppure il suo significato, la sua sostanza, possono essere ambigui…Ambiguo in maniera diversa - a livello di significato - è il tappeto rosso sul quale cammina Agamennone nell’Orestea. Questo tappeto è un vero tappeto, tessuto di lana di pecora e colorato con succo di porpora, ma nello stesso tempo è il segno del sangue che Agamennone ha fatto sgorgare e che dovrà ora versare a sua volta. Il percorso sul tappeto rosso è un sacrificio blasfemo che offende gli dèi, e diventa contemporaneamente una reale cerimonia sacrificale non appena il celebrante si trasforma in vittima. Il tappeto rosso di Agamennone è il più vivo e il più ambiguo dei segni teatrali”[16].
Clitennestra sollecita il marito reduce “a compiere l’atto sinistramente ominoso (cosa alla quale Agamennone si decide solo dopo un serrato dialogo con la donna)”[17].
Sul tappeto rosso torneremo più avanti trattando la polisemia degli oggetti.
“Ambiguo” è un aggettivo stupendo, che noi purtroppo usiamo sempre e solo in senso dispregiativo. In realtà ambiguo viene da ambo - e da agere, “ muovere entrambi”: significa quindi qualcosa che “muove” in sé almeno due significati, che non è univocamente comprensibile ovvero riconducibile a una cosa sola: che è quindi ricco, molto ricco!...la letteratura ti fa balenare sempre almeno un doppio significato: ti abitua all’ambiguità, che è ricchezza di significati ”[18]
Credo di avere riconosciuto un’eco del tappeto rosso nel film di Chaplin The great dictator (1940): Napoloni - Mussolini, in visita da Hynkel - Hitler, non è disposto a scendere dal treno se non gli distendono davanti un tappeto: “I never get out without a carpet”.

La polisemia delle parole può ostacolare la comunicazione, ma pure offrire opportunità didattiche preziose.
Sentiamo Fabrizio Frasnedi: "La dimensione infinita della significazione, l'impossibilità cioè, di catturare tutti gli echi e i rinvii che il dettato può suscitare, se da una parte costituisce la disperazione dei teorici, dall'altra è esperienza insostituibile e basilare per chi apprende, e si pone sul cammino di chi farà della lingua l'orizzonte della sua capacità interpretativa e creativa… le parole sono, insomma, terribilmente pesanti, poiché, come la punta di un iceberg, nascondono grappoli di ramificazioni, e ciascun ramo di ogni grappolo può portare molto lontano…Quando si costruiscono percorsi dentro la ramificata complessità dell'interpretazione, si compie un'altra scoperta fondamentale: quella della non automaticità della significazione. I lettori scopriranno con meraviglia che i loro viaggi, compiuti per dettare di senso il dettato linguistico del testo, non sono uguali. Le parole del testo erano uguali per tutti, eppure…Ecco una finestra fondamentale per poi, nella grammatica del significato"[19]. La collega Maria Silvana Celentano ha suggerito, citando alcune parole di Aristotele[20], che l'ambiguità può giungere fino all'enigma producendo comunque apprendimento.
“Vi è la polisemia di un concetto che, enunciato in un senso, è inteso in un altro. Così, la parola “cultura”, vero e proprio camaleonte concettuale, può significare tutto ciò che, non essendo innato, deve essere appreso o acquisito: può significare gli usi, i valori, le credenze di un’etnia o di una nazione; può significare tutto ciò che producono gli umani, la letteratura, l’arte, la filosofia”[21].

Pesaro 28 giugno 23,50
giovanni ghiselli


[1] 130 ca. - 180 ca
[2] 280 ca - 205ca a. C.
[3] Notti attiche, XI 12.
[4] Ars, III, 127
[5] In 13. 2.
[6] Remedia amoris, 343.
[7] Remedia amoris, v. 344.
[8] Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, III, 5, 2
[9] Cfr. il console Mario, il quale, nel Bellum Iugurthinum di Sallustio dice che non può ostentare i ritratti degli antenati, ma trofèi di guerra “praeterea cicatrices advorso corpore” (85) e in più le cicatrici sul petto.
Le ferite spesso parlano: non sempre sono " dumb mouths "(Shakespeare, Giulio Cesare , III, 2) , bocche mute, come quelle di Cesare assassinato. "Una ferita è anche una bocca. Una qualche parte di noi sta cercando di dire qualcosa. Se potessimo ascoltarla! Supponiamo che queste "intensità sconvolgenti siano una sorta di messaggio: sono "cicatrici", ferite, che segnano la nostra vita" ( J. Hillman, Il piacere di pensare , p. 66)
[10] Sei personaggi in cerca d'autore ( parte prima). Parla il personaggio del Padre. La commedia andò in scena la prima volta il 10 maggio 1921 al teatro Valle di Roma.
[11] Pubblicato a puntate sul settimanale "La fiera letteraria" nel 1926.
[12] Svetonio Vita di Nerone, 28.
[13] Cassio Dione, Storia romana, 63, 22, 4
[14] Cassio Dione, Storia Romana, 62, 6, 3.
[15] “kai; zw'san eijpei'n kai; qanou'san e[sti soi” (Euripide, Alcesti, v. 141).
[16] Jan Kott, Mangiare Dio, p. 142.
[17] V. Di Benedetto (introduzione a) Eschilo, Orestea, p. 26.
[18] P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, p. 102 e p. 103.
[19] F. Frasnedi, La lingua le pratiche la teoria p. 29 e p. 30.
[20] Il quale nella Retorica afferma che gli enigmi ben fatti sono piacevoli poiché si produce apprendimento e si esprime una metafora :"mavqhsi" ga;r, kai; levgetai metaforav"1412a.
[21] Morin, I sette saperi, p. 99.