NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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domenica 31 maggio 2020

Empie streghe e maghi malvagi

Goya, Volo di streghe

Ho sentito empie streghe e malvagi maghi sedicenti cristiani accusare Bergoglio di essere l’Anticristo. Non senza aggiungere si dovrebbero preparare favrmaka kakav, incantesimi e riti appropriati per spedirlo all’inferno.
Io al contrario lo stimo quale vero vicario di Cristo e gli voglio bene.
Oggi ha detto: “le persone sono più importanti dell’economia.”
Parole umane.
Un paio di giorni fa invece un tal Capezzone, non nuovo a tali mascalzonate, ha detto in televisione che i morti arrivano per i danni subiti dall’economia. Per lui e altri della sua empia sètta le decine di migliaia di morti per virus non contano niente, anzi casomai hanno dato una piccola mano alla santa economia dato che non prenderanno più le pensioni.
Un’altra volta, quando Vauro ebbe ricordato i 20 milioni di Russi morti per respingere l’invasione nazista e sconfiggere Hitler, il sopraddetto ribatté che i sovietici avevano causato molti più morti.
In questa seconda occasione Capezzone ha aggiunto che non si deve dare alcun bonus per la bicicletta o altre insignificanti piccolezze, bensì miliardi di euro a industriali e commercianti. Leggo su “la Repubblica” di oggi, 31 maggio 2020, questo titolo: “Fascisti ed ex forconi in piazza. ‘ Il virus è un’invenzione’” (pagina 9).

Ricordo ai vari avvelenatori delle coscienze le parole con le quali la nutrice di Medea racconta come la nipote del Sole fosse solita preparare i veleni: "Mortifera carpit gramina ac serpentium/saniem exprĭmit miscetque et obscenas aves/maestique cor bubonis et raucae strigis/exsecta vivae viscera (…) Addit venenis verba non illis minus/metuenda. Sonuit ecce vesano gradu/canitque. Mundus vocibus primis tremit" (Seneca, Medea, vv. 731 - 734 e 737 - 740), sminuzza le erbe micidiali e spreme la bava dei serpenti e mescola anche uccelli di cattivo augurio e il cuore di un lugubre gufo e le viscere strappate da stridula strige ancora viva (…) Ai veleni aggiunge parole non meno tremende di quelle. Eccola che ha fatto risuonare il suo passo furioso e canta. Il mondo trema solo a udirne la voce.
E’ difficile leggere il resoconto dei preparativi di Medea senza riandare con la mente agli incantesimi del Macbeth.
Si tratta della prima scena del quarto atto della tragedia di Shakespeare. Le streghe mettono vari ingredienti in una caldaia bollente. Vediamone alcuni: filetto di una biscia di pantano (Fillet of a fenny snake), pelo di pipistrello e lingua di cane (wool of bat, and tongue of dog), zampa di lucertola e ala d’allocco (lizard’s leg, and howlet’s wing), fegato di giudeo bestemmiatore (liver of blaspheming jew), dita di un bambino strangolato al suo nascere, appena messo al mondo in una fossa da una sgualdrina (finger of birth - strangled babe - ditch - delivered by a drab), viscere di una tigre (a tiger’s chaudron), tutto da raffreddare con il sangue di un babbuino (with a baboon’s blood).
Le streghe del Macbeth come Medea sono seguaci di Ecate che si rivolge alle fatali donne, fatali sorelle (the weird womenthe weird sisters,) rimproverandole di non averla consultata, dato il suo ruolo: "And I, the mistress of your charms,/the close contriver of all harms,/was never called to bear my part,/or show the glory of our art?" (III, 5), e io, la signora dei vostri incantesimi, la segreta progettatrice di tutti i mali, non sono mai stata chiamata a fare la mia parte, o a mostrare la gloria dell'arte nostra? 

Dunque prego i miei lettori “e ripriego , che il priego valga mille” di non entrare in questa sètta e non dare retta a quanti sostengono che la vita umana vale meno del denaro, che le biciclette non devono sostituire le automobili e che i poveri, gli indeboliti, i vecchi vanno sacrificati sugli altari di questi numi della religio quae tantum potuit suadere malorum: l’economia, il mercato, il pil.
Dobbiamo ripristinare l’umanesimo inteso come amore dell’umanità e dare scacco matto al virus con la tattica vincente dei cunctatores: Quinto Fabio Massimo, Kutuzov e Zukov qui cunctando restituerunt rem.
giovanni ghiselli

sabato 30 maggio 2020

Sono contrario alla fretta e alla furia del “si riapre tutto”.

Scrivo una breve risposta a queste parole di origine governativa che leggo a pagina 11 del quotidiano “la Repubblica” di oggi, 30 maggio: “Il quadro sarà tenuto sotto controllo fino all’ultimo. ‘ Ma ventimila malati non possono tenere prigionieri dieci milioni di lombardi’ ”.
Rispondo che ventimila malati-un numero messo in vetrina con ampio sconto oltretutto- non devono avere la possibilità di esporre decine di milioni di Italiani al rischio di contrarre l’infezione. Se due altre settimane di attesa possono danneggiare seriamente il turismo e l’economia, una ricaduta- che Dio non  voglia- sarebbe una vera catastrofe per tutti noi.
  
giovanni ghiselli

venerdì 29 maggio 2020

La scuola mutilata

Ho fitta nella mente e mi accora ogni giorno di più la situazione della paideia cioè della cultura e della educazione dei nostri giovani.
 Qualche anno or sono già si diceva che era in corso un declino per cui l’università degli studi corrispondeva al liceo di una volta, e il liceo alla scuola media di un tempo. C’era del vero anche se le università e i licei non sono mai stati tutti dello stesso livello.
 Ora però corriamo il rischio di vedere gran parte della scuola italiana livellata alle elementari di un tempo, o addirittura all'asilo. La ministra Lucia Azzolina rappresenta esemplarmente questo cambiamento.
La volta scorsa che l’ho ricordata la assimilai a una graziosa ragazzina delle scuole medie, esagerando. Ora correggo l’iperbole ma confermo che questa bella signora mi dà l’idea di una supplente principiante. Qualche idiota mi accuserà di sessismo. Non c’entra niente. Trovo competente e capace la ministra Luciana Lamorgese. Come considero bravo il governatore del Veneto. Valuto le persone, non il genere e nemmeno l’etichetta data dal partito. Bonaccini e Zaia sono entrambi governatori validi.

Torno alla Caporetto della scuola citando il solito quotidiano: “Lezioni all’aperto, lavori di gruppo, ingressi scaglionati solo alle superiori. Il piano per settembre sul tavolo della ministra: mancano 80 mila prof” (“la Repubblica", 29 maggio 2020, pagina 6).
 Il titolo dell’articolo  è “Ore da 40 minuti e classi dimezzate. E’ la nuova scuola”.
Un mio breve commento: classi dimezzate può essere un bene, se non viene escluso nemmeno un allievo, mentre un’ora da 40 minuti, cioè mutilata di un terzo, è una vera castrazione didattica. Spero che a questa nuova Caporetto segua una reazione tipo quella del Piave. Io ci sarò, milite annoso, iam senior, sed cruda mihi viridisque senectus (confronta Eneide, VI, 304, e continua a leggere i classici).
giovanni ghiselli

giovedì 28 maggio 2020

L’allusione alla scomparsa dei vecchi

La repubblica”, 28 maggio 2020 (pagina 4): “l’intervista. Vittorio Colao 

‘Cento progetti per trasformare l’Italia in un paese per giovani’ ”.

Non la leggo. Il solo titolo mi disgusta per quanto è inopportuno e di pessimo gusto: fa venire in mente la mattanza dei vecchi perpetrata in questi ultimi mesi.
La ricorda lo stesso quotidiano in un titolo di prima pagina: “Rsa, la strage silenziosa e rimossa”.
Non solo rimossa ma rimasta impunita e ora financo allusa, tra le righe, da questo illustre manager il quale, come l’altro “grande” personaggio ricordato ieri nel post La rivoluzione digitale o digitalizzazione, auspica il digitale che per i vecchi superstiti è un dito in un occhio.

Io continuo a invecchiare imparando molte cose dagli autori di libri buoni dei quali ho piena la casa che è lo specchio della mia vita e della mia persona: Qui domum intraverit nos potius miretur quam supellectilem nostram (Seneca, ep. 5,  6)
giovanni ghiselli

Le "variae tigres". Di Francesco Scozzaro


Presentazione: l’autore di questo studio è Francesco Scozzaro studente dell’Università di Palermo che entrò in contatto con me quando era ancora un liceale nel classico Luigi Pirandello di Bivona.
E’ un giovane studioso molto bravo, come si può vedere da questo suo scritto.  Lo saluto e lo ringrazio.
giovanni ghiselli


Le variae tigres: l’anticipazione dell’horridus nel prologo della Phaedra senecana
di Francesco Scozzaro


Tra i prologhi delle tragedie senecane, quello della Phaedra è molto particolare e colpisce fin dall’inizio: Ippolito è nel suo mondo, in silvas, e ordina, da buon cacciatore, ai compagni, di perlustrare i luoghi dei boschi dell’Attica e trovare le prede da cacciare. Soltanto in questa atmosfera si sente sicuro, lontano dal furor, dall’aura populi, dal vulgus infidum, dall'invidia e dal fragilis favor, che regnano in moenibus.[1] Si affida soltanto a una dea, che ama fedelmente, la dea della caccia, Diana, montium domina…/silvarumque virentium/saltuumque reconditorum.[2] A lei tutte le fiere si sottomettono, i leoni di Getulia, le cerve cretesi, i danai veloci, i bisonti, gli uri selvatici e le tigri maculate (variae): così si apre l’aretalogia che Ippolito pronuncia ai versi 57 s.
A chiusura del prologo, Ippolito fa un’ennesima richiesta a Diana, di assisterlo durante la battuta di caccia (En, diva, fave!…/vocor in silvas./hac, hac pergam qua via longum/ compensat iter). Ha bisogno di lei, della sua protezione e desidera che questo avvenga celermente. Diana deve essere la sua alleata[3], solo allora potrà essere tutus. Ma sarà davvero come crede Ippolito o la sua è solo un’illusione nata dal furor che lo pervade[4]?
In realtà, l'atmosfera idillica che descrive Ippolito è solo apparente, e ogni elemento della natura nasconde in sé qualcosa di sinistro, fino a rivelarsi una vera e propria rete di caccia, nella quale rimarrà impigliato in validos nodos,[5] impossibili da rompere.
Vorrei focalizzare la mia attenzione su quei termini che contribuiscono a delineare il locus in cui si trova Ippolito, fuori dalle mura, come horridus, soprattutto soffermandomi sulla figura delle tigri variae, mettendo in evidenza come questo aggettivo assuma una connotazione negativa nella tragedia senecana.
Il primo verso della Phaedra si apre con l’ordine di Ippolito ai compagni di circondare le umbrosae silvae, ambiente pervaso da un’ombra infernale che caratterizza l’Ade, come è ben chiaro dalle parole di Teseo, che tornato sulla terra, afferma tandem profugi noctis aeternae plagam/vastoque manes carcere umbrantem polum, senza sapere che il vero inferno lo troverà proprio lì, tanto che più avanti sarà costretto a dire ereptos mihi/restitue manes.[6]
Nell’Oedipus ai versi 530 s. Creonte descrive il luogo in cui Tiresia e Manto si recano per avere un responso sulla verità riguardo all’uccisione di Laio, e qui medio stat ingens arbor atque umbra gravi/silvas minores urguet, sotto il quale albero ristagnano acque eternamente gelate e una palude piena di fango, un ambiente ombroso come le silvae di Ippolito, che ben evidenzia quale sia la caratteristica dell’umbra, esatto contrario dell’ombra degli ambienti idillici delle Ecloghe virgiliane, dove era elemento di serenità per i pastori e per le greggi stesse.[7]
Il primo coro dell’Agamemnon, soffermandosi sulla sorte di Agamennone, delinea un'atmosfera di turbamento che a un certo punto tocca persino gli elementi della natura stessa, in cui densasque nemus spargens umbras/annosa videt robora frangi: un bosco che cresce sempre di più portando un’ombra rovinosa. La stessa ombra rovinosa sembra presentarsi anche in Thyestes: nella descrizione del penetrale regni, in cui avrà luogo il nefas di Atreo, il nuntius parla così: fons stat sub umbra tristis et nigra piger/haeret palude, una fonte coperta da un’ombra che la rende triste e lenta (piger).
Altro aggettivo questo, che ritroviamo nel prologo della Phaedra, dove a essere piger è l’Ilisso che bagna la sabbia infeconda (steriles harenas), aggettivi tipici della descrizione di una natura morta, triste e pallida, e caratteristici dell’Ade, come è ben chiaro dalla descrizione che ne fa Teseo ai versi 698 s. in Herc. f.:

<<  Non prata viridi laeta facie germinant
      nec adulta leni fluctuat Zephyro seges;
      non ulla ramos silva pomiferos habet:
      sterili profundi vastitas squalet soli
      et foeda tellus torpet aeterno situ.
      [rerumque maestus finis et mundi ultima]
      immotus aer haeret et pigro sedet
      nox atra mundo…>>

Un’aria immobile e una notte nera che soccombe sul mondo piger, in cui ogni cosa è senza vita e la terra stessa giace abbandonata in un’eterna putredine: in questo scenario l’aggettivo piger si inserisce perfettamente e ci dà conferma di un’altra caratteristica negativa del locus tanto caro a Ippolito, sempre più oscuro, come appare ben chiaro  anche dal verso 10, in cui nemus altaItexitur alno. L’uso del verbo texo, che qui indica l’intrecciarsi dell’alto ontano che copre i boschi, anticipa quell’atmosfera notturna che Teseo invocherà nel momento in cui, preso da furor, maledirà il figlio: nunc atra ventis nubila impellentibus/subtexe noctem, sidera et caelum eripe. Teseo supplica il padre Nettuno chiedendogli di portare via le stelle, il cielo, e coprirlo di una nera notte: questo il significato di subtexo.
Ai versi 740 s. Medea, nell’omonima tragedia, sempre più infuriata, prega (comprecor) ancora una volta i ferales deos, il Chaos caecum e l’opacam domum Ditis, e ricordando i suoi poteri, attraverso i quali era stata capace di invertire il ritmo delle stagioni (Temporum flexi vices), invoca la Luna (Phoebe) promettendole che per lei intreccerà (texuntur) con mani piene di sangue le corone: il verbo texo è ancora una volta inserito nello scenario linguistico di una preghiera “al nero”.[8]
A conferma del significato negativo che sembra assumere nella tragedia senecana è utilizzato anche dall’umbra Thyestis nell’Agamemnon, quando racconta la sorte che toccherà al re dei re: ductor Agamemnon ducum/cuius secutae mille vexillum rates/Iliaca velis maria texerunt suis,/post decima Phoebi lustra devicto Ilio/ adest daturus coniugi iugulum suae. Le navi greche che hanno coperto e oscurato i mari Troiani, credendo di aver vinto, possono tornare in patria. Ma per Agamennone non è finita, anzi si trova nella stessa situazione di Troia, come afferma lui stesso in Troades,[9] e l’umbra Thyestis, da buon προλογίζων, lo preannuncia, delineando un’atmosfera di apparente sollievo che sfocierà in un esito totalmente negativo, ben reso dal participio futuro daturus. In questo contesto è conveniente l’uso di texo, come anticipazione dell’arrivo di una notte eterna che oscura tutto, quasi come una sorta di contrappasso: le navi greche hanno coperto i mari di Troia, la casa di Agamennone inonderà nel sangue e ne sarà coperta. Dunque il significato da attribuire al verbo texo nella tragedia senecana potrebbe essere proprio quello di coprire, oscurare e quindi eliminare, come testimonia un passo delle Naturales Quaestiones, in cui Seneca, parlando dei fenomeni atmosferici, in particolare di tuoni e fulmini, racconta che Cambise avrebbe inviato, presso il tempio del dio Ammone, il suo esercito, il quale venne ricoperto ed eliminato dalla sabbia, mossa dal vento ([...] quem harena austro mota et more nivis incidens texit, deinde obruit).[10]
Il prologo continua a essere ricco di aggettivi negativi che esprimono bene il senso del locus in cui Ippolito morirà, in cui le bestie cercano pascoli notturni (nocturna petunt pabula), le quali sembrano proprio svolgere un importante ruolo nell’anticipazione alla καταστροφή, data dal locus horridus; infatti ai versi 60 s. Ippolito, elencando gli animali che si sottometteranno alla dea della caccia, afferma tibi dant variae pectora tigres: l’aggettivo varius, attribuito a un animale, indica il tipo di pelle maculata o screziata, che caratterizza le tigri e in generale i felini feroci,[11] che simboleggiano la forza selvaggia della natura. Ma c’è di più: varius può essere utilizzato anche nel senso di incostante, variabile e multiformis,[12] a significare qualcosa che muta, e nel suo mutare causa il vacillare della bona mens e della valetudo, come un passo del Satyricon evidenzia bene. Durante la cena Trimalchionis nei capitoli 61 s. Nicerote racconta una fabula, soltanto dopo che i commensali si augurarono (sibi optarunt) bona mens e bona valetudo, destinate a crollare appunto, in particolare nel momento in cui, quando luna lucebat tamquam meridie, il miles che accompagnava Nicerote dopo essersi spogliato della sua identità (questo è il significato dell’espressione latina exuit se et omnia vestimenta sua secundum viam posuit) lupus factus est, destando una grandissima paura a Nicerote. Il miles diventa versipellis, che certamente è sinonimo di multiformis.
Cicerone in De finibus bonorum et malorum riflette sulla voluptas e a un certo punto si sofferma sul significato del termine varietas e afferma:

<< varietas Latinum verbum est, idque proprie quidem in disparibus coloribus dicitur: sed       transfertur in multa disparia; […] voluptas etiam varia dici potest, cum percipitur ex multis dissimilibus rebus efficientibus voluptatem.>>[13]

Il piacere può essere vario quando la sensazione di esso risulta da molti elementi diversi che producono piaceri diversi, ma la voluptas proprio per essere varia è breve e incostante; così si esprime il terzo coro del Thyestes: Nulla sors longa est: dolor ac voluptas/invicem cedunt; brevior voluptas.[14]
Proprio l’aggettivo varius viene usato varie volte da Seneca per indicare la fortuna incostante: Agamennone in Troades 260 s. consiglia ai potenti e a lui stesso, che sono al culmine della fortuna, di essere moderati e preoccuparsi dei varios casus.
Medea, nell’omonima tragedia, cercando di convincere Creonte a farla rimanere ancora per poco, si appella, attraverso una climax, alle vicende dei regni sempre in balia di una Fortuna varia, incerta e incostante, come si potrebbero definire le vicende di Medea stessa; proprio lei afferma ai versi 567 s., cercando la collaborazione della nutrice, tu fida nutrix, socia maeroris mei/variique casus, misera consilia adiuva. L’aggetivo varius qui ha proprio il significato di incertezza, un’incertezza che caratterizza il personaggio di Medea, che ai versi 937 s. si chiede perché stia dubitando e perché sia in preda alla fluctuatio, resa proprio con il termine variam (variamque nunc ira, nunc illuc amor/diducit?).
Una fluctuatio simile sembra quella di cui soffre Fedra e che la nutrice descrive con queste parole: nil idem dubiae placet,/artusque varie iactat incertus dolor.[15] L’avverbio varie indica la sofferenza di Fedra che sfocia nella dimensione fisica di una vera e propria νόσος, come sembra essere anche quella di Clitennestra in Agamemnon, in cui la sposa del re degli Achei è trasportata fluctibus variis.[16]
Un altro contesto, prettamente negativo, in cui l’aggettivo varius trova un posto ben preciso, è la descrizione che il nuntius della Phaedra fa del mostro, con il quale Ippolito si dovrà scontrare:

<< Quis habitus ille corporis vasti fuit!
     caerulea taurus colla sublimi gerens
     erexit altam fronte viridanti iubam;
     stant hispidae aures, orbibus varius color…>>

Un toro con un’imponente criniera, come doveva essere quella dei leoni di Getulia,[17] le orecchie ispide e diritte e il colore delle orbite cangiante, in latino varius, come variae erano le tigri, che Varrone paragona ai leoni.[18] Il mostro potrebbe proprio essere il risultato dei vari elementi della natura e sopratutto degli animali che si sarebbero sottomessi a Diana, ma questo adesso non può più accadere; Diana non potrà assistere Ippolito in questa ultima battuta di caccia. L’aggettivo varius qui, che connota gli occhi del mostro, si presenta come caratteristica preponderante: bastava guardarlo negli occhi per provarne tremor.
La varietas dunque sembra caratteristica connotante i mostri e lo dimostra bene l’aggettivo con cui Creonte nell’ Edipo re di Sofocle definisce la sfinge, e cioè ποικιλδς,[19] dal canto variopinto, dove la ποικιλία greca corrisponde alla varietas latina. Ma non sono solo i mostri a essere variopinti: nel Mimiambo 5 (Ζηλότυπος) Eronda presenta come protagonista femminile Bitinna, la quale, accusa il proprio schiavo- amante Gastrone di rivolgere le sue attenzioni ad unaltra donna, di nome Anfitea. Per questa grave imputazione Gastrone dovrà subire una punizione esemplare: mille frustate sulla schiena e mille sul ventre. La conseguenza sarà che Gastrone diventerà ποικίλον,[20]a conferma di come tale aggettivo venga utilizzato, anche in ambito ellenistico, in certi contesti, secondo una connotazione negativa.
Come ulteriore conferma sembra essere illuminante un verso del sesto libro della Pharsalia di Lucano: Sesto Pompeo si reca dalla strega Erictho per avere un responso sull’esito dello scontro, e la strega, racconta Lucano, discolor et vario furialis cultus amictu/induitur, vultusque aperitur crine remoto/ et coma vipereis substringitur horrida sertis.[21] Il mantello è variopinto furialis cultus, confacendosi perfettamente all’habitus di Erictho, a darci l’idea di una varietà di colori che sono solo apparenti e illusionistici, come i colori dell’arcobaleno che descrive Manto in Oedipus, definiti appunto varios.[22]
Anche i colori della reggia di Atreo in Thyeste, hanno la funzione di nascondere qualcosa di oscuro: le colonne che sostengono il soffitto sono variis maculis,[23] ma non appena avverrà il nefas, i colori mostreranno la loro vera facies impallidita.
Saranno proprio questi colori che faranno dire alla figlia di Tiresia horresco intuens. Questa varietà di colori dunque, che caratterizza le tigri del prologo pronunciato da Ippolito, e che sfocerà nel mostro, risulta essere un altro dei tanti aggettivi che delineano il locus horridus, in cui Ippolito rimarrà impigliato nella rete inestricabile da lui stesso tesa.

Francesco Scozzaro



[1] Cf. Sen. Phaedr. 483 s.
[2] Così Catullo c. 34, 9-11.
[3] Cf. Saffo c. 1, 28 in cui la poetessa chiede ad Afrodite di essere sua alleata, cercandone quasi un diretto contatto.
[4] Il fatto che Ippolito non è padrone di sé è chiaro dall’uso del verbo passivo al verso 81 (vocor in silvas). Riguardo alle caratteristiche del furor nella Phaedra cf. G. Mazzoli, Dinamiche del furor nella Fedra di seneca, Il chaos e le sue forme, Palermo 2016, pp. 279-294.
[5] Così Lucrezio in De rerum natura 4, 1148 invitandoci a cercare di non cadere nella rete d’amore. Ippolito non riesce a fuggire da un amore ossessionato per la caccia, e cadrà nella stessa rete con la quale catturava le prede. Lo stesso motivo della rete d’amore si ritrova in Ibico (fr. 287 P. - Dav.) in cui la rete è definita senza fine, inestricabile “περονα δκτυα”.
[6] Teseo preferirà proprio l’ombra dell’Ade: cf. Phaedr. 1139.
[7] Cf. Virg. Ec. 1, 4; 2, 8; l’ombra si presenta come elemento tipico di serenità e riposo anche in Saffo: cf. fr. 2, 6-7 in Saffo, Poesie, frammenti e testimonianze a cura di Camillo Neri e Federico Cinti.
[8] PETRONE, La Medea di Seneca tra paradigma retorico e tradizione letteraria, in Scritti a margine di letteratura e teatro antichi, Lo sperimentalismo di Seneca, a cura di Gianna Petrone, Palermo,1999.
[9] Cf. Sen. Ag. 264.
[10] Cf. Sen. QN. 2, 30, 2, 3.
[11] Cf. Virg. Georg. 3, 264.
[12] Ernout et Meillet, Dictionnaire Étymologique de la langue latine, Histoire de mots. Paris, Klincksieck, 2001.
[13] Cic. Fin. 2, 3, 10.
[14] Sen, Thy. 596-7.
[15] Sen. Phaedr. 366.
[16] Sen. Ag. 138.
[17] Cf. HN. 8, 41, 1.
[18] Varro, M. Terentius, LL 5, 100, 1.
[19] Cf. S. OT. 130
[20] Cf. Eronda, Mimiambo 5, 63-7.
[21] Lucan. Phars. 6, 654.
[22] Cf. Sen. Oed. 315.
[23] Sen. Thy. 647.

mercoledì 27 maggio 2020

La rivoluzione digitale o digitalizzazione

Trovo questi termini che vorrebbero indicare un progresso in una intervista rilasciata a Francesco Manacorda da Francesco Starace “alla guida dell’Enel dal 2014” (“la Repubblica” 27 maggio 2020, pagina 9 con tanto di fotografia del “numero 1 dell’Enel”).
Sentiamo alcune parole dell’illustre Starace : “La digitalizzazione della pubblica amministrazione è in corso da molto tempo ma adesso il cambiamento è arrivato davvero. Prendiamo il caso della scuola: professori e alunni non avevano studiato prima come fare le lezioni online, ma adesso dall’esperienza fatta possono nascere idee ed opportunità. Sarà sempre necessario fare sempre gli incontri con i docenti riunendosi tutti insieme a scuola?”.
 Una domanda carica di antiumanesimo assoluto. Viene raccomandata l’asocialità, l’individualismo e l’egoismo estremo.
Tra l’altro il termine digitalizzazione, almeno per quanto riguarda la scuola, fa pensare a una sorta di onanismo didattico. Credo che la crescita del “digitale” sia davvero uno sviluppo abnorme, senza alcun progresso come quello denunciato a suo tempo da Pasolini.
Si vuole umiliare sempre più e infine annientare la cultura umanistica con  la possibilità di pensare, di criticare, con la socialità, la simpatia tra gli umani e in definitiva l’amore.
Orwell mi ha messo in guardia già diversi anni or sono. Platone mi ha confermato nella convinzione che parlare male fa male all’anima.
Si rischia di arrivare alla Neolingua (Newspeak) conseguente alla distruzione delle parole (the destruction of words) e al rovesciamento dei significati di quelle ancora usate.
“WAR IS PEACE  
FREEDOM IS SLAVERY
IGNORANCE IS STRENGTH”  (Orwell, 1984, Part I, 1)
Sicché: digital revolution is wealth, is good school,  is happiness, is love secondo certi personaggi di oggi  ostili alla paideia, al logos, al pathos e al mythos. 
 La tecnica a parer mio deve rimanere al servizio della cultura, una volta che questa sia stata formata nelle menti di docenti e discenti da anni di studio di pensiero e dialettica interpersonale, con l'aiuto dei grandi autori-accrescitori.
Concludo citando queste parole scritte voluttuosamente dall’oppositore Winston in grandi, chiare lettere maiuscole
DOWN WITH BIG BROTHER  

giovanni ghiselli  

martedì 26 maggio 2020

I veleni sono tanti

Non c’è solo il corona virus: i veleni sono tanti.
Il più diffuso e pericoloso è l’ignoranza madre del conformismo, della soppressione dello spirito critico e della violenza.
La cosiddetta “guardia civica” , 60 mila volontari a disposizione dei Comuni per evitare assembramenti è un imbroglio.Che cosa vuol dire arruolare decina di migliaia di persone e tenerle impegnate senza alcun contraccambio?  Né salario, né alcun potere di regolare alcunché, né garanzie.
Tuttavia questo sfruttamento viene presentato come una fortuna dei prescelti electi ex optimis. Significa introdurre l’idea, per poi abituare la gente a pensare che sta passando l’era dei lavoratori sottopagati: presto non verranno remunerati in nessun modo e saranno comunque privilegiati se chi può ciò che vuole li sceglierà. Mi ricorda quando dicevano che la flessibilità, ossia la licenziabilità dei lavoratori, ossia degli operai,  avrebbe migliorato il loro tenore di vita.
Creare una discrepanza tra il significante, il suono della parola, e il suo significato che si divarica dalla cosa e dal fatto reale è un imbroglio già denunciato, che io sappia, da Tucidide, poi da Sallustio, da Seneca, da Lucano, da Shakespeare, e di recente da Orwell. Ma non è il momento di tenere lezione. Qui e ora ricordo solo la chiara formulazione di Sallustio: "iam pridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in extremo sita est "  (Cat. 52, 11), già da tempo veramente abbiamo perduto la verità nel nominare le cose: poiché essere prodighi dei beni altrui si chiama liberalità, l'audacia nel male, coraggio, perciò la repubblica è ridotta allo stremo.
Dobbiamo tenere alta la guardia non solo nei confronti del corona virus. I veleni sono tanti.

Saluti
gianni

P.s. Un altro esempio  di transvalutazione lessicale: la locuzione smart working capovolge la realtà effettuale. Nessun lavoro praticato nella vicinanza  sociale, nello scambio delle idee, magari anche degli affetti, e nella solidarietà,  è pesante, lento e faticoso come quello che si fa ritirati e chiusi sempre in casa come anacoreti. Questo, che può essere una scappatoia durante le catastrofi, viene presentato con i modi tipici della falsità pubblicitaria per isolarci, gratificarci sempre meno e trattarci sempre peggio.
Mi manca molto il pubblico presente e vivo nelle mie conferenze

lunedì 25 maggio 2020

Il sindaco di Pesaro ha scritto un libro


Leggo su “la Repubblica” di oggi, 25 maggio 2020, che Matteo Ricci ha pubblicato un libro: Vincere l’Odio. Prima e dopo il Coronavirus (edito da All around). Liliana Segre ne ha scritto la prefazione. Il testo ha una forma di dialogo “con la filosofa Lucrezia Ercoli”. Forse il dialogo è di stampo platonico dato che c’è di mezzo una cosiddetta filosofa.
Io voto a Pesaro ma non ho mai votato per Ricci, tanto per chiarire che questo mio pezzo non è pubblicitario.
 Non ho letto il libro e non posso dirne male né bene. Voglio commentare però un paio di frasi presenti nell’intervista che il sindaco ha rilasciato a Giovanna Casadio del quotidiano menzionato sopra.
Ha detto dunque il primo cittadino di Pesaro: “Ci siamo scoperti vulnerabili e questo ha contribuito a smontare la propaganda dell’odio. Però ora abbiamo davanti una parola d’ordine: velocità”.
 La velocità non è sempre una buona cosa. La ragione di fondo per cui Ricci non mi piace è che le motociclette che passano sotto casa mia nel Viale della Vittoria non trovano nessun ostacolo a nessuna ora del giorno e della notte nel saettare anche ai 100 all’ora rombando con fragore assordante. Tutto il viale ne viene disturbato, svegliato, talora perfino spaventato.
"le madri/balzan ne' sonni esterrefatte, e tendono/nude le braccia su l'amato capo/del lor caro lattante" (Foscolo, Dei sepolcri, 109 - 112)
 Questo succede da anni, senza alcuna limitazione. Non credo che sfrecciare in quella maniera di giorno e di notte mettendo a repentaglio perfino la stessa vita di chi abita in quella strada centrale, o la frequenta, sia un segno di amore. Quando ceno con gli amici nel giardino che pure risponde alla parte del mare, durante le volate delle motociclette che a gara insieme per il libero viale fanno mille giri pur disturbando il mio tempo migliore, non sento quello che dicono i commensali. Il frastuono infernale si ode quindi fino alla marina duecento metri verso nord, e quinci alla piazza principale duecento metri a sud. 
L'aria del centro della cittadina rimane infusa di un veleno d'inferno.

Sentiamo alcune altre parole del sindaco. “Accanto a Segre poi, abbiamo condotto una battaglia culturale contro le vergognose parole dell’odio di cui lei pure è stata vittima, l’antisemitismo, il riemergere di neofascismi, il razzismo”. Questa battaglia è santa ma per essere efficace, per combattere l’odio e sconfiggerlo, bisogna eliminarne la matrice: l’ignoranza che genera questi mali.
A Ricci dunque suggerisco di leggere oltre a scrivere, se vuole ficcare lo sguardo davvero a fondo, fino alla radice del male
Concludo dunque con alcune dichiarazioni di amore umanistico tratte dai classici. Sono piuttosto note ma non sono sicuro che il nostro autore le conosca tutte.
l' Antigone di Sofocle dichiara il suo amore per l'umanità dicendo a Creonte: " ou[toi sunevcqein ajlla; sumfilei'n e[fun", (v. 523), io non sono nata per condividere l’odio ma l’amore.
Un’espressione di umanesimo ancora più efficace e sintetica è quella che il vecchio Sofocle attribuisce a Teseo nell'Edipo a Colono : "e[xoid j ajnh;r w[n"(v.567), so di essere un uomo. E' la coscienza della propria umanità senza la quale ogni atto violento è possibile. Il sapere di essere uomo che cosa comporta? Significa incontrare una creatura ridotta a un rudere come è Edipo vecchio, provarne pietà, incoraggiarla ponendo domande e ascoltandolo: "kaiv s j oijktivsa" - qevlw jperevsqai, duvsmor j Oijdivpou, tivna - povlew" ejpevsth" prostroph;n ejmou' t j e[cwn", vv. 556 - 558, e sentendo compassione, voglio domandarti, infelice Edipo, con quale preghiera per la città e per me ti sei fermato qui. Poi significa comprendere e aiutare con simpatia poiché siamo tutti effimeri, sottoposti al dolore e destinati alla morte. "Anche io - dice il re di Atene al mendicante cieco - sono stato allevato xevno" esule come te" (vv.562 - 563)."Dunque so di essere uomo e che del domani nulla appartiene più a me che a te"(vv. 567 - 568).
E' una dichiarazione di quella filanqrwpiva che si diffonderà in età
ellenistica e partorirà l'humanitas latina.
Una simile dichiarazione di umanesimo, quale interesse per l'uomo e disponibilità ad ascoltarlo, leggiamo nel più famoso verso di Terenzio: "Homo sum: humani nil a me alienum puto "[1].
 Enea viene salvato dalla compassione, quella di Didone che pure non è in alcun modo ricompensata dall’esule troiano.
La regina che ha fondato Cartagine prima di decadere a donna abbandonata esprime questo tw/' pavqei mavqo": "non ignara mali miseris succurrere disco", Eneide, I, 630, non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati.
Cicerone nel III libro del De Officiis dice che l'umanità è un unico corpo del quale i singoli individui sono le membra. Dobbiamo aiutare l'uomo perché ogni uomo è parte di noi stessi: "Etenim multo magis est secundum naturam excelsitas animi et magnitudo itemque comitas, iustitia, liberalitas quam voluptas, quam vita, quam divitiae, quae quidem contemnere et pro nihilo ducere comparantem cum utilitate communi magni animi et excelsi est. Detrahere autem de altero, sui commodi causa, magis est contra naturam quam mors, quam dolor, quam cetera generis eiusdem "(III, 24). Infatti è molto più secondo natura l'elevatezza e la grandezza d'animo, e parimenti la cortesia, la giustizia, la generosità, che il piacere, che la vita stessa e le ricchezze; quindi disprezzare questa roba e valutarla nulla paragonandola con l'utilità comune è proprio di un animo grande ed elevato. Sottrarre invece a un altro per il tornaconto proprio, è più contro natura che la morte, il dolore e altre cose del medesimo genere.
E più avanti (III, 25):" ex quo efficitur hominem naturae oboedientem homini nocere non posse ", da ciò deriva che l'uomo il quale obbedisce alla natura non può nuocere all'uomo.
Una splendida idea dell'humanitas del circolo scipionico che è stata e sarà ripresa nei secoli dei secoli : in Devotions upon Emergent Occasion di John Donne (1572 - 1631), per esempio, leggiamo:" Nessun uomo è un'isola conclusa in sé; ogni uomo è una parte del Continente, una parte del tutto. Se il mare spazza via una zolla, l'Europa ne è diminuita, come ne fosse stato spazzato via un promontorio (…) la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché io appartengo all'umanità, e quindi non mandare mai a chiedere per chi suona la campana ("for whom the bell tolls "[2] ); suona per te.
"La comprensione permette di considerare l'altro non solo come ego alter, un altro individuo soggetto, ma come alter ego, un altro me stesso con cui comunico, simpatizzo, sono in comunione. Il principio di comunicazione è dunque incluso nel principio d'identità e si manifesta nel principio di inclusione"[3].

Infine un uomo di potere il cui esempio può giovare al Matteo pesarese.
Marco Aurelio, imperatore (161 - 180 d. C.) e filosofo, scrive (A se stesso , II, 1): noi siamo nati per darci aiuto reciproco ("pro;" sunergivan"), come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l'agire uno a danno dell'altro è cosa contro natura ("to; ou\n ajntipravssein ajllhvloi" para; fuvsin").
Marco Aurelio quindi dice a se stesso: “ bada a non cesarizzarti: “ o{ra mh; ajpokaisarwqh'/" " ( A se stesso, VI, 30)

Insomma: ama il prossimo tuo perché è te stesso.

Saluti
giovanni ghiselli




[1]Heautontimorumenos ,77.
[2] E', notoriamente, il titolo di un romanzo di Hemingway, 1940
[3] E. Morin, La testa ben fatta, p. 132.