9. 1. Il latino e il greco come corrente sanguigna della letteratura europea. Remo Bodei: gli assi di riferimento.
Per chiarire la necessità delle basi classiche, senza le quali c'è l'abisso del vuoto, posso citare un'altra "verità" di un saggio successivo[1] di T. S. Eliot: "Il latino e il greco[2] costituiscono la corrente sanguigna della letteratura europea: e come un solo, non già due distinti sistemi di circolazione; giacché è attraverso Roma che possiamo ritrovare la nostra parentela con la Grecia"[3].
E Leopardi: “Qualunque stile moderno ha proprietà, forza, semplicità, ha sempre sapore di antico, e non par moderno, e forse anche perciò si riprende, e volgarmente non piace” (Zibaldone, 1988).
Naturalmente il greco e il latino sono le fondamenta del lavoro comparativo inteso a dare ai giovani un'educazione nello stesso tempo classica ed europea. Il greco e il latino sono i nostri “assi di riferimento”: “Siamo sicuri che sia possibile pensare o scrivere una storia priva di assi di riferimento?...In fondo non siamo affatto tenuti a scegliere fra storie asettiche, depurate da ogni presupposto, e filosofie e utopie a disegno, quanto, semmai, a rendere esplicite le premesse nascoste e le conseguenze ipotizzabili di ogni narrazione con pretese di comprensione degli eventi, così da poterle sottoporre a un ragionevole esame critico e comparativo”[4].
10. Massimo Cacciari: opporre la topologia alla cronologia. I classici contro le mode. Classico è quanto non passa di moda. Márai: quelli che parlano per luoghi comuni hanno sempre ragione (La donna giusta). Bruno Vespa. Goethe e Leopardi. L’artista libera il mondo dai ceppi dei luoghi comuni volgari. La metafora contro il luogo comune. La metafora come bomba atomica mentale. Pregi del linguaggio. Aristotele, Leopardi e Thomas Mann.
Massimo Cacciari in un seminario tenuto a Bologna nel novembre del 2000 consigliava di opporre la topologia alla cronologia.
Successivamente il filosofo veneziano ha scritto:"Impossibile sistemare i classici secondo i rassicuranti metodi della cronologia. Soltanto una considerazione topologica rende loro "giustizia". Come il loro Nunc non è il nunc del modo , ma il Nunc stans , così il loro tempo non è quello della cronolatria storicistica, ma quello del "luogo", tutt'uno col "luogo". Il classico è insieme di topoi; i classici sono questi "luoghi". E' come se nel classico il tempo si facesse "luogo". Perciò i classici in-sistono. Perciò i classici fanno epoca "[5]. Classico, aggiunge Traina, è "uno scrittore che ha parlato per noi"[6].
In un intervento più recente[7] Cacciari ha ribadito che i classici si dispongono per topologie, non secondo cronologie. Gli autori Greci e Latini hanno fondato luoghi privilegiati. La funzione degli auctores sta nell'avere la forza polemica nei confronti dell'ora, e tale duvnami" devono trasmettere alla scuola affinché questa non sia una fabbrica impiegatizia[8] e i giovani che la frequentano non siano degli "occupati", ossia degli invasi dalle mode del momento, ma sappiano reagire criticamente a queste. Infatti se lo studio è soltanto una rincorsa del nunc, allora davvero il classico è il supervacuum.
Oggi aggiungo che la moda del momento è quella della vendetta. Mille israeliani orrendamente e criminalmente uccisi comporta il contrappasso 45 mila palestinesi massacrati molti dei quali bambini del tutto innocenti.
All’orribile massacro di una ragazza compiuto da un ragazzo criminale e demente segue la richiesta dell’ergastolo che è più orrendo della pena di morte. Il carcere deve punire, certo, ma anche rieducare.
Lo prescrive la Costituzione della Repubblica italiana: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (Aricolo 27, comma 3).
Ma Del mastro sottosegretario di Stato al Ministero di giustizia gioisce, va addirittura in estasi nel vedere le sofferenze inflitte ai prgionieri che non poche volte si tolgono la vita.
Credo che un assassino molto giovane, se pure efferato, possa venire rieducato da bravi educatori con una pena di 20 anni. Deve esserci una metabolhv, un mutamento radicale con pentimento che vanno verificati. Credo pure che l’ergastolo comminato a un ventenne sia una vendetta da lex talionis.
Roberto Pretagostini in un convegno tenuto a Torino-Ivrea[9] ha affermato che i pensieri formulati dall'autore classico vanno al di là del contingente.
La moda allora potrebbe costituire un test: è classico quanto non passa di moda.
La moda è infatti la sorella della morte. Nel dialogo di Leopardi, la Moda dice alla Morte: “io sono la moda, tua sorella”. E la Morte: “Mia sorella?” “Sì-risponde la Moda-: non ti ricordi che siamo nate dalla caducità?...e so che l’una e l’altra tiriamo parimenti a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù…la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi…”[10]. Si pensi ai tatuaggi, alla chirurgia estetica e ad altre schifezze del genere. Si pensi alla povera ragazza morta, fatta morire, per un ritocco del naso.
La cultura classica, della quale una buona scuola deve dotare i giovani, può dare la forza di opporsi alla macina quotidiana della pubblicità , alle chiacchiere dei tessitori di vento, agli spacciatori della droga dei luoghi comuni, quelli volgari e servili, ai personaggi[11] emblematici e rappresentativi di questa età "vaga di ciance, e di virtù nemica"[12].
Quelli che parlano per luoghi comuni “hanno sempre ragione. E forse il mondo è così inconcepibilmente ignobile e senza speranza proprio perché il luogo comune è infallibile, e solo il genio e l’artista hanno il coraggio di sbeffeggiarlo, di mettere in luce quanto in esso vi sia di morto, di contrario alla vita”.[13].
Si pensi a Bruno Vespa che poche ore dopo la strage della Banca dell’Agricoltura del dicembre 1969, disse a un telegiornale: “Valpreda dunque è un colpevole”. E fece carriera. Ed è ancora sulla ribalta. All’epoca chi diceva: “ a parte tutto, non credo che quel disgraziato ballerino sia stato in grado di organizzare un massacro del genere” era visto di malocchio quale pericoloso estremista e, se insegnava, rischiava sanzioni. Poi la storia ha sbugiardato Vespa, che tuttavia ha continuato a ripetere i luoghi comuni funzionali al potere e a fare carriera.
“Non c’è nulla che mi faccia perdere la calma come vedere venire avanti uno con un luogo comune insignificante, quando io parlo con il cuore in mano”[14].
“Il bruto è più tenace servo dell’assuefazione”[15].
“Questo scambiare modi di dire e realtà è, per quanto ho osservato, un caratteristico segno d’ignoranza e di infimo livello culturale”[16].
L’artista si oppone ai luoghi comuni della volgarità : “Ogni grande libro spira questo amore per i destini dei singoli individui che non si adattano alle forme che la collettività vuole loro imporre… per di più una poesia col suo mistero trafigge da parte a parte il senso del mondo, attaccato a migliaia di parole triviali, e ne fa un pallone che se ne vola via. Se questo, com’è costume, si chiama bellezza, allora la bellezza dovrebbe essere uno sconvolgimento mille volte più crudele e spietato di qualunque rivoluzione politica! [17]".
Sentiamo Pasolini: “Io cerco di creare un linguaggio che metta in crisi l’uomo medio, lo spettatore medio, nei suoi rapporti con il linguaggio dei mass media…nel momento stesso in cui odio le istituzioni (per esempio le istituzioni e l’ingiustizia italiana del 1969, i prodotti della televisione, della stampa, la letteratura convenzionale) e lotto contro di esse, provo un’immensa tenerezza per questa istituzione della lingua italiana in quanto koinè, per questa lingua italiana nel significato più esteso del termine, perché è proprio all’interno di questo quadro che mi viene concesso di innovare, ed è tramite questo codice che fraternizzo con gli altri; quel che più importa nell’istituzione è il codice che rende possibile la fraternità…il codice, e soprattutto il codice linguistico, è la forma esterna indispensabile a questa fraternità umana che provo sempre in me come qualche cosa che ho perduto”[18].
«È in questo senso che un poeta dice: «La realtà è un luogo comune dal quale sfuggiamo con la metafora». La metafora letteraria stabilisce una comunicazione analogica tra realtà assai lontane e differenti, dando intensità affettiva all’intelligibilità che produce. Generando onde analogiche, la metafora supera la discontinuità e l’isolamento delle cose»[19].
«Le due realtà, identificandosi nella metafora, cozzano l’una con l’altra, si annullano reciprocamente, si neutralizzano, si materializzano. La metafora diviene la bomba atomica mentale»[20].
Sentiamo Aristotele e Leopardi sui pregi del linguaggio.
Nella Retorica Aristotele dà questo suggerimento : «bisogna rendere peregrino il linguaggio (dei' poie'n xevnhn th;n diavlekton), poiché gli uomini sono ammiratori delle cose lontane» (III, 1404b).
La metafora del resto possiede in massimo grado chiarezza (to; safev~), piacevolezza (to; hJduv) e stranezza (to; xenikovn), e non è possibile prenderla da altri (Retorica, III, 1405a).
Nello Zibaldone di Leopardi leggiamo: «le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse» (1789). E, più avanti (4426): «il poetico, in un modo o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago».
Il canto corale, a più voci, entra in questa poetica del vago e dell’indefinito.
Il coro infatti è "parte di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme dell'antica poesia e bella letteratura. L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello e grande ha bisogno dell'indefinito, e questo indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la moltitudine" (2804).
Leopardi apprezza molto anche la brevità degli autori.“Quanto una lingua è più ricca e più vasta, tanto ha bisogno di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le conviene largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà brevità di espressione senza proprietà” (Zibaldone, 1822).
“Non era molto ciò che egli sapeva, ma un uomo intelligente sa con dieci parole dire meglio che uno sciocco con cento”[21].
Bologna 27 novembre 2024 ore 10, 52 giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Che cos'è un classico? , 1944.
[2] Io metterei prima il greco.
[3] In T. S. Eliot, Opere, p. 975.
[4] R. Bodei, La speranza dopo il tramonto delle speranze”, in “Il Mulino”, 333, 1991.
[5] M. Cacciari, Brevi inattuali sullo studio dei classici, in Di fronte ai classici , p. 27.
[6] Io e il latino in Di fronte ai classici , p. 263.
[7] Dell' ottobre 2002
[8] "Lo Stato", afferma Nietzsche, "vuole allevarsi quanto prima utili impiegati". Sull'avvenire delle nostre scuole (1872), p. 27.
[9] Essere e divenire del “classico”, Torino-Ivrea, 21-22-23 ottobre 2003. Gli atti di questo convegno sono stati pubblicati dalla Utet (Torino, 2006). Il mio intervento contiene la prima parte di questa metodologia e va da p. 241 a p. 254.
[10]Operette morali, Dialogo della Moda e della Morte.
[11] O meglio gentucola scaltra che i mass media talora trasformano in personaggi di rilievo, se non addirittura in idoli.
[12] G. Leopardi, Il pensiero dominante (del 1831), v. 61-
[13] S. Márai, La donna giusta, p. 189.
[14] J. W. Goethe, I dolori del giovane Werther, 12 agosto 1771.
[15] G. Leopardi, Zibaldone, 1762.
[16] T. Mann, Giuseppe il nutritore, p. 42.
[17] R. Musil, L’uomo senza qualità, p. 355.
[18] P- P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1433
[19] E. Morin, La testa ben fatta, p. 94.
[20] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 48.
[21] T. Mann, Il giovane Giuseppe, p. 176.
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