Il 14 luglio andammo a Roma dove restammo qualche giorno. Giorni pesanti. La parte organizzativa era tutta sulle mie spalle. Ifigenia mi ostacolava con lamentele e con pianti. Se voleva bere, diceva: “ gianni, ho sete” magari mentre ero in fila per comprare i necessari biglietti. Parassitaria era colei, non collaborativa.
Cosa potevo rispondere infilato com’ero nella coda davanti al bigliettaio?
“ Dunque vai a bere”. Quella allora metteva su il muso. Poi ribatteva rincarando la dose: “Ma io ho tanta sete!”.
Voleva mettere alla prova il proprio potere su di me.
“Vai subito a bere”, replicavo a mia volta.
In treno avevamo i posti prenotati ma Ifigenia voleva stare seduta sulle mie ginocchia e mettermi le mani sugli occhi per impedirmi di leggere, osservare altre persone, pensare. Se la scostavo, prendeva l’atteggiamento della vittima. Qualunque cosa cercassi di fare, se lei non ci entrava, si inseriva, mi interrompeva senza del resto avere nulla di interessante da dire. Sapeva solo rovesciarmi addosso una serie di moine ormai trite e stucchevoli. In generale provavo noia e stanchezza ma in certi momenti con abile mossa furtiva, segreta, la giovane donna riusciva a riattizzare il fuoco erotico ancora non spento del tutto.
Passammo un bel quarto d’ora dopo la stazione di Arezzo in un minuscolo bagno dove ci chiudemmo e facemmo l’amore appoggiati a una parete che traballava assecondando i nostri tripudi frenetici.
Giunti all’altezza di Sansepolcro mi genuflessi devotamente e indirizzai un bacio verso il cimitero dove riposavano già i carissimi miei nonni materni Margherita marchigiana e Carlo toscano.
Siamo un misto di Italia centrale. La nonna era pesarese con mamma di Recanati. Sua zia aveva sposato Rodolfo Antici, nipote di Adelaide la mamma di Giacomo.
Quando lo dissi all’amico Claudio mi toccò la schiena e domandò: allora, dove hai messo la gobba?”.
Risposi che non eravamo consanguinei: era solo una parentela acquisita.
Tuttavia l’ho presa fin da bambino come un segno del cielo.
Giunti a Roma, Stefano, il simpatico cugino paterno, ci prestò il suo appartamento. La sera non tardi ci sistemammo nell’alloggio generosamente offerto. Posati i bagagli, Ifigenia si allungò nel letto matrimoniale. Io entrai nel bagno e ne uscìi poco dopo con il giornale che avevo appena sfogliato e volevo leggere . Lo faccio ogni giorno: c’è qualcosa di male? Nella casa di Pesaro i giornali non entravano: dovevo primeggiare nel liceo classico utilizzando soltanto i manuali. Ho voluto rifarmi di questo.
Avevo indosso delle mutande bianche, leggere. Ifigenia mi aspettava seduta nuda nel letto e, come mi vide, si mise a piangere quasi fossi tornato tutto coperto di sangue.
“Stai poco bene?” le domandai. Rispose che quella casa la sconfortava.
Un altro vizio suo era quello di lamentarsi della sistemazione che trovavo quando si viaggiava insieme. Non c’era verso che gliene andasse bene una.
Alla pulizia io tengo, ma sono un povero figliolo e non posso permettermi il grandhotel pentastellato. Oltretutto non mi piace.
Più tardi mi confessò che aveva pianto vedendomi entrare nella stanza da letto con le mutande indossate, e il giornale in mano invece che nudo, bramoso e proteso verso la sua bellezza priva di ogni barriera . Era una fortuna per me la sua disponibilità ma non ero in grado di capirlo. Le ero sembrato il tipico marito vecchio, stanco e annoiato.
Più di una volta ho visto una bella donna stimolante diventare un fardello pesante, oppressivo. Oppure andarsene via dopo un mese o anche meno.
Per questo a 80 anni suonati passo il Natale e il Capodanno da solo.
Meglio da una parte: così non so di cenoni e altri sudici, patogeni, riti da basso impero del genere. Ho sempre fermo “il disiro” a quell’onesto Giovanni “che volle viver viver solo”.
Bologna 27 dicembre 2024 ore 9, 43 giovanni ghiselli
p. s.
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