Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
in vento et rapida scribere oportet aqua.
(Catullo, 70, 3-4)
Probabilmente le storie del ferroviere e del medico erano due calcolate commedie recitate per darsi importanza e occupare i miei pensieri. Infatti se avesse progettato di fare sesso con questo o con quello, non mi avrebbe messo in allarme; del resto se avesse rispettato i miei sentimenti trattandoli con la dovuta delicatezza non mi avrebbe raccontato di avere dato la sua disponibilità a farsi corteggiare in modo così sfacciato.
Ero oramai quasi sicuro che non poteva funzionare tra noi.
Volli comunque parlarle in modo diretto, fino a provocarla perché si scoprisse.
Dissi: “Ifigenia, se costui o qualsiasi altro uomo è importante per te, dimmelo con tutta chiarezza: io posso continuare a percorre la mia strada, secondo il metodo mio, da solo. Se hai delle curiosità erotiche, cavatele: io non voglio incepparti o impicciarti. Se vuoi fare altre esperienze, falle pure con chi ti pare bello e giusto, però non pretendere che io viceversa rimanga devoto alla tua persona. Voglio un rapporto di reciprocità con te. Se vuoi essere la mia compagna impegnativa, impegnati a tua volta a non farmi quanto io non faccio a te. Se invece preferisci riprenderti la libertà, o licenza che sia, fallo senza tante circonlocuzioni, astuzie e mezze misure, poi dimmelo con tutta chiarezza e lasciami andare a Debrecen senza il dilemma angosciante se devo mantenere la fede promessa, forse in maniera malcauta, o se invece faccio bene a romperla e togliermi il pensiero. Poi, una volta tornato in Italia, troverò un’altra compagna magari meno giovane e bella di te, ma tale che non mi crei certi problemi di cui sicuramente non ho bisogno. Non posso più tollerare un rapporto tra noi che non sia di rispetto reciproco.
Ti chiedo di rispondermi con tutta chiarezza”.
Ora so che erano parole inutili con tale persona. Sarebbe stato meglio tacere e andare a Debrecen a farmi i fatti miei.
Ifigenia sperava che la gelosia mi avrebbe reso più pazzo di Otello e prono ai suoi piedi per giunta, sicché assunse l’espressione dello stupore davanti a un imprevisto assurdo e disse: “Che cosa hai pensato tesoro? Io con gli uomini parlo e finisce lì. Non avere paura Gianni; come te ce ne sono davvero pochi, anzi tu sei l’unico che possa davvero piacermi e io voglio stare con te. Tu non devi avere dubbi sul mio amore e la mia fedeltà. Fidati”.
Mi lasciai abbindolare ancora una volta. Anche perché lo volevo. Del resto era destino che la nostra storia continuasse. Infatti se fosse finita quel 21 di luglio, un paio di anni prima del tuono definitivo tipo quello udito da Edipo a Colono o Hans Castorp su La montagna incantata, sarei andato a Debrecen a consolarmi, bevendo birra nel casinetto del tennis, correndo nello stadio prospiciente e facendo del sesso nella camera 4 del secondo collegio come nel decennio passato, e forse non avrei scritto questo romanzo ricco di casi né avrei capito tante cose, né le avrei fatte capire a voi che mi leggete.
Volevo sentirla parlare ancora del nostro futuro. Inutilmente poiché il futuro è sempre conseguente ai pensieri e alle azioni che lo precedono, non certo alle parole che sono spesso scritte nell’acqua, soprattutto quelle tra gli amanti, come avverte Catullo cui aggiungo Plauto: “Res potiores verbo” ( Aulularia, 693)
Bologna 27 dicembre 1924 ore 10, 45 giovanni ghiselli
p. s.
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