Tucidide (I, 22, 2). La Medea di Euripide (v. 1064). Canfora. La parola retoricamente e politicamente organizzata. I personaggi della tragedia parlano non solo retoricamente ma anche politicamente. La condizione dell’impolitico per i Greci dell’età classica è innaturale e viziosa (Kierkegaard e Tucidide).
Racconto mimetico, diegetico e misto (Platone, Repubblica).
Insomma il ragazzo deve trovare il riscontro degli studi classici in rebus ipsis.
Si può chiarire il valore pratico, oltre che estetico, della parola attraverso l'espressione di Tucidide ta; e[rga tw'n pracqevntwn (I, 22, 2), le azioni, tra i fatti. L'altra componente dei fatti sono le parole dette dai capi della guerra: sul modo di reperirle e riferirle Tucidide fa una dichiarazione nella prima parte di un capitolo metodologico (I, 22, 1).
Facciamo un altro esempio di parola che equivale ai fatti: la Medea di Euripide, dopo avere manifestato il suo proposito di uccidere i propri nemici, e pure i propri figli, quando ancora nulla ha compiuto, ma ha già deciso tutto e lo ha chiarito con le parole, conclude con questo trimetro giambico:“pavntw" pevpraktai tau'ta koujk ejkfeuxetai” (v. 1064), comunque questa è cosa fatta e non ci sarà scampo.E’ il “detto fatto”.
"La mentalità greca arcaica-scrive Canfora- pone sullo stesso piano la parola e l'azione. Tale modo di concepire la parola come "fatto" è vivo anche nella tradizione storiografica, che rivela, anche in questo, la propria matrice epica. Vi è un assai noto passo di Tucidide, dove lo storico, nel descrivere il proprio lavoro e la materia trattata, adopera un'espressione quasi intraducibile: ta; e[rga tw'n pracqevntwn (I 22 2). Si dovrebbe tradurre "i fatti dei fatti", che in italiano non dà senso (...) Lì vi è invece una distinzione: la categoria generale degli "eventi" (ta; pracqevnta) comprende sia le "azioni" (e[rga) che le "parole" (lovgoi), delle quali si è appena detto nel periodo precedente (...) La parola infatti-scriverà secoli dopo Diodoro- la parola retoricamente organizzata, è l'elemento che distingue gli inciviliti dai selvatici, i Greci dai barbari"[1].
“Questa formula denota la concezione fattuale del parlare, che nell’epica è già un retaggio remoto”[2].
La parola “retoricamente organizzata” non esclude la sua dimensione politica.
Aristotele nella Poetica sostiene che il pensiero (diavnoia) mette in grado di dire quanto è possibile e appropriato (ta; ejnovnta kai; ta; aJrmovttonta, 1450b, 5), e questo poi è il compito della politica e della retorica riguardo ai discorsi: infatti gli antichi rappresentavano personaggi che parlavano politicamente, i moderni invece retoricamente (1450b, 7-8).
Direi che i personaggi della tragedia parlano tutti sia politicamente, sia retoricamente. Infatti per l'uomo greco che viveva nella povli" democratica la condizione dell’impolitico è innaturale :"benché si muovesse liberamente, l' individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello Stato, nella famiglia, nel fato "[3].
Tucidide, il creatore della storia politica, l’autore che ha dato alla storiografia quella svolta pragmatica la quale "è valsa ad affermare l'identificazione tra storia e politica"[4], fa dire a Pericle:"movnoi ga;r tovn te mhde;n tw'nde metevconta oujk ajpravgmona, ajll j ajcrei'on nomivzomen" (Storie, II 40, 2), siamo i soli a considerare non pacifico, ma inutile chi non partecipa alla vita politica.
Il dramma in effetti contiene più personaggi che parlano: è, spiega Socrate, la specie di poesia e mitologia che toglie le parole del poeta, le didascalie intercalate ai discorsi diretti, lasciando solo le alterne battute (ta; ajmoibai'a) e dunque si esprime dia; mimhvsew~, per imitazione (Repubblica, 394 b-c).
Se non appaiono i personaggi parlanti abbiamo una narrazione semplice senza mimesi (a[neu mimhvsew~ aJplh' dihvghsi~ ), che si trova soprattutto nei ditirambi, specifica Platone attraverso Socrate, poi c’è la forma mista che è l’epica.
Bologna 26 dicembre 2024 ore 17, 38 giovanni ghiselli
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