Venerdì 13 luglio andammo la sera tardi sulla spiaggia che sembrava deserta.
Dal via Nazario Sauro e da viale Trieste di Pesaro, ancora animati, giungevano voci intermittenti di uomini, donne e bambini, luci sventagliate da fari di automobili in corsa, rumori catarrosi di motociclette, e dal moletto i suoni repellenti di un’orchestra disordinata e chiassosa.
La luna non si vedeva, il mare era buio.
Temevo che qualcuno venisse a darci fastidio o che ne provasse di noi per l’inverecondia meditata: in fondo la riva del mare è un luogo pubblico anche di notte.
Inoltre temevo la sabbia negli occhi, non metaforicamente bensì proprio fisicamente: avevo le lenti a contatto e con queste basta un granello di polvere a produrre sfregamento seguito da lacrime copiose e dolore intenso, nervoso. Ma Ifigenia insisteva con ostinazione per fare l’amore scomodo e indecente subito e lì, sulla sabbia. Non mi sembrava che fosse il luogo né il momento opportuno, però non volevo litigare, sicché la seguivo verso la riva dove mi trascinava implacabilmente.
Camminammo in mezzo ai resti della giornata balneare inciampando ogni tanto: a un tratto battei violentemente un ginocchio contro un ostacolo duro e mi lasciai cadere dolente e resurpino sull’umida rena.
Senza perdere tempo colei montò a cavalcioni sul mio ventre e cominciò ad agitarsi con nervosismo rabbioso, quasi volesse punirmi siccome avevo osato esitare: non era più la giovane, generosa collega che mi aveva offerto il suo amore in autunno e mi aveva deliziato parecchie volte: era un’erinni aggressiva, furente. Doveva credere che lì sulla sabbia, dove entrambi ci sentivamo a disagio, si decidesse una gara per il potere tra noi, un agone tutt’altro che olimpico, una competizione squallida tra due disgraziati in una gara di lotta .
La stavamo perdendo entrambi come succede in ogni conflitto violento.
Si muoveva dunque con furia sopra di me addolorato e sbigottito quando il suo volto frenetico venne illuminato da un faro. Allora tutta la testa prese un aspetto sinistro: gli occhi arrossati, le narici dilatate, le labbra arcuate, i capelli confusi e agitati come un nido di serpi nere, mi diedero l’impressione di essere sottoposto a un mostro della mitologia inferiore, una satanessa sbucata dal caos primordiale.
Ne ebbi terrore. Dopo qualche minuto di quell’esercizio anti erotico, si sentirono parlare delle persone che si stavano avvicinando. Volevo che la mia prevaricatrice si fermasse ma colei mi sovrastava, mi pesava sul ventre infelice, e non voleva smettere per nessuna ragione; anzi, a un tratto per farmi tacere mi diede uno schiaffo con una mano insabbiata e con l’altra mi compresse la bocca.
Qundi si mise a gridare: “perché indugi? Avanti, fa’ presto: tu mi fai perdere tempo!”
In tale frangente non potevo avere l’orgasmo, anzi dovevo pensare a situazioni diverse, soprattutto a un’amante diversa da lei, per non cadre nella disperazione.
I loquaci ambulanti erano giunti vicino e una donna disse: “ i cani sono meno spudorati di quei due:canaglia è un complimento per certa feccia!”
Aveva ragione: noi due stavamo infliggendo impudica violenza a quanti nella notte d’estate passeggiavano sulla riva del mare per respirare l’aria salmastra e magari osservare le stelle, forse anche pregare, non per vedere lo spettacolo osceno dato da un uomo e una donna in disaccordo sessuale e totale. Intanto la pessima orchestra del moletto diffondeva rumori che mi sembravano annunci di prossimi danni.
Il gruppo dei passeggiatori passò oltre, la musicaccia cessò e la spiaggia divenne silenziosa, deserta come d’inverno. Ifigenia era muta però si agitava come un gabbiano sollevando la rena che mi ricadeva addosso.
Per porre termine a quella tortura arrivando al coito preteso con prepotenza, cercai di anestetizzarmi da tutto il dolore che mi cadeva addosso, volsi la testa in modo da non vedere più quel rictus furioso che mi sovrastava da vicino e, guardando molto più in alto, riuscii a osservare per qualche secondo le stelle. Così finalmente giunsi al compimento di quel concubitus orrendo.
L’amore stava finendo e queste convulsioni erano tentativi di rettifica tanto malfatti che affrettavano l’exitus guastando anche la memoria di quanto c’era stato di buono e di bello tra noi.
Bologna 26 dicembre 2024 ore 18, 50 giovanni ghiselli
p. s.
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