NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 21 dicembre 2024

Metodologia 39.

 

39. Tutta la Cultura (Pascal), come tutta la natura (Platone, Menone), è imparentata con se stessa. Dostoevskij: “tutto scorre e interferisce insieme”. Bisogna cogliere i nessi.

Morin[1] cita Pascal[2] a proposito del connettere:"Pascal aveva già formulato l'imperativo dell'interconnessione che si tratta oggi d'introdurre in tutto il nostro insegnamento, a cominciare dalle scuole elementari: "Dunque, poiché tutte le cose sono causate e causanti, aiutate e adiuvanti, mediate e immediate, e tutte sono legate da un vincolo naturale e insensibile che unisce le più lontane e le più disparate, ritengo che sia impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, così come è impossibile conoscere il tutto senza conoscere le parti"[3].

Molto prima di Pascal[4] Platone [5] aveva detto che tutta la natura è imparentata con se stessa (th'" fuvsew" aJpavsh" suggenou'" ou[sh", Menone, 81d).

 

Dostoevskij fa dire allo stariez Zossima che "il mondo è come l'oceano; tutto scorre e interferisce insieme, di modo che, se tu tocchi in un punto, il tuo contatto si ripercuote magari all'altro capo della terra. E sia pure una follia chiedere perdono agli uccelli; ma per gli uccelli, per i bambini, per ogni essere creato, se tu fossi, anche soltanto un poco, più leale di quanto non sei ora, la vita sarebbe certo migliore"[6]. Bisogna dunque cogliere i nessi.

 

39. 1. La connessione organica del Capo con la sua gente. Sofocle (Edipo re, Antigone, Filottete ). Omero (Odissea). Esiodo (Opere e giorni). Isocrate (Encomio di Elena). Cicerone (I Catilinaria). Polibio. Seneca ("fecimus coelum nocens, Oedipus, 36) e Shakespeare (Macbeth): la contaminazione arriva al cielo. Dante (“la mala condotta”). Erasmo (Elogio della follia). Nietzsche (Zarathustra). Il cattivo esempio delle donne importanti alle donne comuni biasimato da Fedra nell’Ippolito di Euripide. At pueri ludentes  'Rex eris ' aiunt/ 'si recte facies" [7]

Secondo questo principio dell'unità del tutto, e, in particolare, per quello della connessione organica tra il Capo e la sua gente, nel prologo dell'Edipo re di Sofocle viene descritta la sterilità della terra tebana sconciata e resa malata dai delitti di Edipo, vero mivasma della sua povli"  come si scoprirà (“sei tu l’empio che contamina questa terra, v. 353).

 Nell' Antigone Tiresia accusa Creonte di essere la sorgente inquinata del male della città:" kai; tau'ta th'" sh'" ejk freno;" nosei' poli"" (v. 1015) e la città è ammalata di questo per la tua disposizione mentale. Creonte infatti ha ereditato da Edipo non solo il ruolo regale ma anche la funzione di mivasma, homo piacularis  che contamina la città.

 

Sappiamo anche da Omero[8] e da Esiodo[9], che i costumi, virtù, vizi e perfino malattie del capo si riverberano sulla sua terra per una sorta di responsabilità collettiva.

Sofocle nel Filottete rappresenta Neottolemo adirato con Odisseo che si è impadronito delle armi di Achille, spettanti a lui, figlio di Deidamia e del Pelide. Il ragazzo lamenta di essere stato espropriato dei suoi beni  pro;~ tou' kakivstou kajk kakw'n  jOdusseuv~ (384), dal peggiore di tutti, nato da malvagi, Odisseo. Eppure il giovane biasima ancora più tou;~ ejn tevlei (v. 385), quelli che sono al potere, civile e militare: “povli~ ga;r e[sti pa'sa tw'n hJgoumevnwn-stratov~ te suvmpa~, oiJ d j ajkosmou'nte~ brotw'n-didaskavlwn lovgoisi givgnontai kakoiv” (386-388), la città infatti è tutta di coloro che la governano e l’esercito pure, e quelli tra i mortali che si comportano male, diventano malvagi per le parole di chi li ammaestra. Una concezione pedagogica del potere. 

 

 Isocrate nell' Encomio di Elena[10]  chiama i despoti che cercano di dominare i concittadini con la forza, non capi ma pesti delle città (oujk a[rconta" ajlla; noshvmata tw'n povlewn,  34).

 

Analogamente Cicerone nella prima Catilinaria intima al suo nemico mortale di uscire da Roma portando via la contaminazione da lui stesso costituita  (purga urbem , 1, 10); quindi ringrazia gli dèi e in particolare Giove Statore: “quod hanc tam taetram, tam horribilem tamque infestam rei publicae pestem totiens effugimus” (1, 11), poiché siamo sfuggiti tante volte a questa peste tanto ripugnante, tanto spaventosa e tanto minacciosa per lo Stato. 

 

Anche Polibio[11] fa dipendere il carattere della città da quello dei suoi capi: ai tempi di Aristide e Pericle, Atene era generosa e meritava lode; sotto il governo di Cleone[12] e Carete[13] era crudele e degna di biasimo: ne deriva che i costumi della povli" cambiano con il variare di quelli dei governanti ("w{ste kai; tw'n povlewn e[qh tai'" tw'n proestwvtwn diaforai'" summetapivptein", Storie, IX, 23,  8). 

 

Ricordo pure l'Oedipus senecano dove il protagonista si accusa dicendo "fecimus coelum nocens ( v.36), abbiamo reso colpevole il cielo.

Nel  Macbeth[14], un nobile scozzese, Lennox riferisce quanto si dice sia avvenuto nella notte dell’assassinio del re:"some say the earth was feverous, and did shake" (II, 3), la terra era febbricitante e ha tremato. 

 Quindi un altro nobile, Ross, fuori dal castello del delitto fa notare a un vecchio che il cielo, quasi sconvolto dal misfatto umano (as troubled with man's act), minaccia la sua scena sanguinosa, e il giorno è buio come la notte. Infatti, risponde l'old man:" 'Tis unnatural, Even like the deed that ' s done" (II, 4), è innaturale, come l'azione che è stata perpetrata. In questi ultimi due esempi la contaminazione “oltrepassa la luna”[15].

 

La città malata per antonomasia è Tebe: Dante chiama Pisa  "vituperio delle genti"[16] e "novella Tebe"[17] per la crudeltà della pena inflitta ai figli innocenti del conte Ugolino. “C’è da domandarsi se tutto il resto del mondo possegga una sola città che abbia una preistoria così ricca e fatale come quella di Tebe”[18].

 

Nell’Oedipus un sole incerto (Titan dubius, v. 1) nega il suo splendore e diffonde sull’empia Tebe un maestum iubar (v. 2), uno splendore cupo, e un lumen triste, una luce afflitta, con una flamma luctifica (v. 3) , una fiamma luttuosa. Il re  ha impestato la sua città. La luce che vivifica e rallegra è capovolta a fiaccola mortuaria .

Con l'uscita di Edipo da Tebe la vita languente si raddrizza, i colli si rialzano:"relevate colla! "(v. 1054), grida lo stesso cieco in procinto di allontanarsi. Il raddrizzamento della vita è il compito del re, un ufficio per il quale il contorto Edipo non era adatto.

Nel De clementia[19] Seneca ricorda a Nerone che è il principe a stabilire i buoni costumi per il suo Stato: “constituit bonos mores civitati princeps” (III, 20, 3).

La premessa è che la immensa multitudo dei cittadini illius spiritu regitur, illius ratione flectitur,  è retta dal suo spirito, viene piegata dalla ragione di lui, mentre si spezzerebbe per i propri sforzi se non venisse sostenuta dalla saggezza del reggitore (III, 1, 5). Nella cooperazione tra il principe e lo Stato, questo costituisce la forza del corpo del quale Cesare è il caput (III, 2, 3).  

 Dante ripropone questa idea che il benessere di un popolo dipenda dalla giustizia e pietà religiosa di chi lo guida,  e fa derivare la malvagità del mondo dal malgoverno:"Ben puoi veder che la mala condotta/è la cagion che il mondo ha fatto reo/e non natura che in voi sia corrotta"[20].

Erasmo da Rotterdam utilizza questo topos nell'Elogio della follia[21]: " aliorum vitia neque perinde sentiri neque tam late manare; principem eo loco esse, ut si quid vel leviter ab honesto deflexerit, gravis protĭnus ad quam plurimos homines vitae pestis serpat" (55), i vizi degli altri né si sentono allo stesso modo né si diffondono così ampiamente; il principe si trova in posizione tale che se in qualche maniera, perfino di poco, egli si scosta dalla rettitudine, subito una grave peste della vita si espande su un numero enorme di persone. 

 

 “Non vi è, nel destino tutto dell’uomo, sventura più dura di quando i potenti della terra non sono anche i primi uomini. Tutto diventa falso obliquo mostruoso, quando ciò avviene”[22].

 

Questo topos vale anche per il costume femminile: il cattivo esempio che le donne importanti danno a tutte le altre , viene biasimato da queste parole di Fedra nell'Ippolito di Euripide: " wJ~ o[loito pagkavkw~-h{ti~ pro;~ a[ndra~ h[rxat j aijscuvnein levch-prwvth quraivou~ (vv. 407-409), fosse morta malamente colei che per prima disonorò i letti di casa con uomini esterni.  Infatti, continua, questo male ha cominciato a propagarsi dalle case nobili: "ejk de; gennaivwn dovmwn" (v. 409). Quando le turpitudini (aijscrav) sono reputate belle dalle persone di alta condizione, certo sembreranno belle anche al volgo (vv. 411-412). 

Se si pone mente al latino rex si deve pensare alla parentela di questa parola con il verbo greco ojrevgw, "tendo, stendo". "La radice deriva dall'indoeuropeo *reg- che ha dato come esito in greco ojreg- (con protesi di oj- ) in latino reg-"[23] da cui rego, dirigo, regio, regione e rectus, diritto.  Quindi "in rex bisogna vedere non tanto il sovrano quanto colui che traccia la linea, la via da seguire, che incarna nello stesso tempo ciò che è retto"[24]. Anche i ragazzi sanno che il rex deve agire recte: infatti, quando giocano, dicono:  sarai re se farai bene:  "at pueri ludentes  'Rex eris ' aiunt/ 'si recte facies" [25].  Insomma il rex deve dirigere sulla retta via. Il re allora non può essere contorto. Nemmeno la virtù può esserlo: “et haec recta est, flexuram non recipit ” (Seneca, Ep. 71, 20), anche questa è diritta, non ammette piegatura.

Altrettanto la verità che è pure “non latenza”

Nell’Antigone il messo in procinto di raccontare la catastrofe di Antigone e di Emone, avverte la regina Euridice che non la blandirà con menzogne: “ojrqo;n aJlhvqei j  ajeiv” (v. 1195), la verità è sempre una cosa dritta.

Bologna 21 dicembre 2024 ore 19, 30

giovanni ghiselli

 

p. s.

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[1] La testa ben fatta, p. 20.

[2] 1623-1662.

[3] B. Pascal, Pensieri,  p. 143.

[4] 1623-1662

[5] 427-347 a. C.

[6]F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov , del 1880, p.402.

[7] Orazio, Epistulae  I, 1, 59-60.

[8] Un re buono, afferma lo stesso Ulisse nel XIX canto dell'Odissea. parlando con Penelope, porta il popolo alla prosperità:"Raggiunge l'ampio cielo la tua fama,/ come quella di un re irreprensibile che pio,/ regnando su molti uomini forti,/tenga alta la giustizia; allora la nera terra produce/ grano e orzo, gli alberi si appesantiscono di frutti,/figliano continuamente le greggi e il mare offre i pesci,/per il suo buon governo, insomma prosperano le genti sotto di lui" (vv. 108-114).

Il ribaltamento di questa situazione è il re negativo, cattivo e malato, che contamina la sua terra, rendendola sterile e sconciandola quale mivasma. Come si scopre essere il protagonista dell'Edipo re  che perciò si allontana da Tebe.

 

[9]  L'altro lato della stessa concezione secondo la quale il bene e il male di un solo uomo ridondano in favore e in danno di una città intero lo troviamo nel secondo archetipo della poesia greca, cioé in Esiodo (Opere, vv.240-244:"Pollavki kai; xuvmpasa povli" kakou' ajndro;" ajphuvra-oJv" ti" ajlitraivnh/ kai; ajtavsqala mhcanavatai.-Toi'sin d  j oujranovqen meg  j ejpevgage ph'ma Kronivwn-limo;n oJmou' kai; loimovn: ajpofqinuvqousi de; laoiv.-Oujde; gunai'ke" tivktousin, minuvqousi de; oi\koi", spesso anche un'intera città soffre per un uomo malvagio,/uno che si rende colpevole e architetta scelleratezze./Su di loro dal cielo il Cronide fa piombare grandi malanni,/fame e peste insieme,e le genti vanno in rovina,/le donne non fanno figli e le case diminuiscono". Infatti quando sbaglia solo Prometeo  tutti gli uomini pagano.

[10] Del 390 a. C.

[11] 200 ca-118 ca  a. C.

[12] Il famigerato demagogo bersagliato da Aristofane ed esecrato, probabilmente calunniato, da Tucidide. Fu il beniamino del popolo dopo la morte di Pericle, fino al 422 quando morì combattendo ad Anfipoli.

[13] Comandante della flotta ateniese ai tempi di Demostene

[14] 1605-1606.

[15] Cfr. Shakespeare, Coriolano, V, 1.

[16] Inferno, XXXIII, 79.

69 Inferno XXXIII, 89.

[18] . Jacob Burckhardt, Storia della civiltà greca (1902), vol II, p. 214.

[19] In tre libri, scritti nel 55 d. C. per  Nerone diciottenne, con l’intento, forse, di distoglierlo dall’ammazzare Britannico.

[20]Purgatorio  XVI, 103-105.

[21] Del 1510.

[22] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, IV, colloquio con i re, 1.

[23] G. Ugolini, Lexis, p. 346.

[24] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee , p. 295.

[25] Orazio, Epistulae  I, 1, 59-60.

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