Don Lorenzo Milani, Isocrate (Nicocle), il Vangelo di Giovanni. Di nuovo il Nicocle di Isocrate. La traduzione: Leopardi, che ha tradotto Isocrate, riflette sulla traduzione perfetta. Cicerone sconsiglia quella letterale.
Dopo il magister dell'Ars Amatoria, e gli altri maestri più o meno pagani, sentiamo un prete, un prete cristiano sublime: Don Milani insegnava che "bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchirsi la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola"[1].
Viene in mente un accostamento, seppure un poco paradossale, con Isocrate, lo strapagato principe della retorica nell'Atene del IV secolo e l'educatore dei prìncipi: egli afferma che nelle altre facoltà che abbiamo non ci differenziamo per niente dagli animali, anzi ci troviamo ad essere inferiori a molti per la velocità, e la forza e per altre risorse. Quindi arriva alla celebrazione quasi religiosa della parola, senza la quale non ci sarebbe umanità né civiltà: " ejggenomevnou dj hJmi'n tou' peivqein ajllhvlou~ kai; dhlou'n pro;~ hJma'~ aujtou;~ peri; w|n a]n boulhqw'men, ouj movnon tou' qhriwdw'~ zh'n ajphllavghmen, ajlla; kai; sunelqovnte~ povlei~ w/jkivsamen kai; novmou~ ejqevmeqa kai; tevcna~ eu{romen, kai; scedo;n a{panta ta; di j hJmw'n memhcanhmevna lovgo" hJmi'n ejstin oJ sugkataskeuavsa" "( Nicocle[2], 6), ma siccome è connaturata in noi la capacità di persuaderci a vicenda e di rendere chiaro a noi stessi quello che vogliamo, non solo ci siamo allontanati dalla vita selvaggia, ma ci siamo riuniti, abbiamo fondato città, dato leggi e inventato arti, e quasi tutto quanto è stato costruito da noi è stata la parola a organizzarlo.
La parola dunque è creatrice e civilizzatrice.
Il prologo del Vangelo di Giovanni estende questa considerazione a termini cosmici " jEn ajrch'/ h\n oJ lovgo", kai; oJ lovgo~ h\n pro;" to;n qeovn, kai; qeo;" h\n oJ lovgo". ou|to" h\n ejn ajrch'/ pro;" to;n qeovn. pavnta di' aujtou' ejgevneto, kai; cwri;" aujtou' ejgevneto oujdevn. In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum et Deus erat Verbum. Hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est nihil (1, 1-3), in principio c'era la Parola e la Parola era con Dio e la Parola era Dio. Questa era in principio con Dio. Tutto fu fatto tramite lei e senza lei nulla fu fatto.
Quindi il verbo si fece carne:"kai; oJ lovgo" savrx ejgevneto" (14). Io collego questa affermazione, del tutto arbitrariamente, alla facundia persuasiva che attira gli ascoltatori, uomini e donne a vicenda, poiché è in corpo di donna che il verbo si fa carne.
Rprendiamo in mano Isocrate per sottolineare il valore anche etico del lovgo" inteso come parola e come pensiero: "to; ga;r levgein wJ" dei' tou' fronei'n eu\ mevgiston shmei'on poiouvmeqa, kai; lovgo" ajlhqh;" kai; novmimo" kai; divkaio" yuch'" ajgaqh'" kai; pisth'" ei[dwlovn ejstin" ( Nicocle, 7) il parlare come si deve lo consideriamo segno massimo del saper pensare, e un discorso veritiero, legittimo e giusto è l'immagine di un'anima buona e leale. Anche queste parole celebrative del logos, tornano, quali espressioni liturgiche, nell’Antidosis (255). Entrambe le orazioni giungono a una conclusione che indica nella potenza della parola l’unico mezzo per trasformare il pensiero in prassi: “eij de; dei' sullhvbdhn peri; th'~ dunavmew~ tauvth~ eijpei'n, oujde;n tw'n fronivmw~ prattomevnwn eurhvsomen ajlovgw~ gignovmenon, alla; kai; tw'n e[rgwn kai; tw'n dianohmavtwn aJpavntwn hJgemovna lovgon o[nta, kai; mavlista crwmevnou~ aujtw'/ tou;~ plei'ston nou'n e[conta~”, se si deve tirare le somme su questa potenza, troveremo che nulla di quanto è fatto con intelligenza viene fatto senza la parola, ma che anzi la parola è guida delle azioni e dei pensieri tutti, e che si avvalgono soprattutto di essa quelli che hanno la più grande capacità di pensiero[3].
"Sicché il Logos, nel suo doppio significato di parola e di pensiero, diventa per Isocrate il "symbolon", il contrassegno della paideusis"[4]. Non solo dell’educazione ma anche della duvnami~ dell’uomo.
Il ragazzo che ha studiato bene, con buoni insegnanti, possiede, prima di tutto, una facoltà di eloquio superiore a chi non ha fatto studi altrettanto buoni e ben guidati.
Leopardi ha tradotto, di Isocrate, il Nicocle, A Demonico, A Nicocle e l’Areopagitico. Vediamo come ha reso l’ultimo pensiero citato (Nicocle 9): “E a dire di questa facoltà in ristretto, nessuna opera che si faccia con ragione e senno, si fa senza intervento della favella, governatrice e regina di tutti gli atti e pensieri dell’uomo; e trovasi che chi più intendimento ha, più la suole usare”.
Leggiamo anche alcune considerazioni del Recanatese sulla traduzione perfetta: “La perfezion della traduzione consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia p. e. greco in italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile” (Zibaldone, 2134). La lingua italiana la quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica”, ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle forme straniere…Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere” (Zibaldone, 964 e 965).
“Amava moltissimo l’italiano perché era una lingua molteplice: come il greco, era un aggregato di molte lingue piuttosto che una lingua sola, e gli concedeva la libertà di tentare ogni stile. Se ebbe sempre molte riserve sulla metafisica, la morale e la cosmogonia di Platone, la sua ammirazione per il Fedro non aveva limiti. Trovava nello stesso testo “non dico tre stili, ma tre vere lingue”; la prima nel dialogo tra Socrate e Fedro, la seconda nelle due orazioni di Lisia e Socrate, la terza nell’orazione di Socrate “in lode dell’amore”[5].
Ma sentiamo Leopardi: “Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il Dialogo tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone, 2717)
Cicerone aveva affermato che nel tradurre non è opportuno attenersi alla lettera, ma si deve piuttosto interpretare l’originale: “Nec tamen exprimi verbum e verbo necesse erit, ut interpretes indiserti solent ” (De finibus bonorum et malorum III, 15), non sarà del resto necessario che si traduca parola per parola, come sono soliti i traduttori stentati. In un passo degli Academica, Cicerone afferma che i poeti arcaici, Ennio, Pacuvio, e Accio e molti altri piacciono “qui non verba, sed vim Graecorum expresserunt poetarum” (III, 10), poiché resero non le parole ma la forza dei poeti greci.
Il tradurre letteralmente (verbum e verbo exprimere ) non esclude il vertere , il ri-creare in una gara con il modello (aemulatio ).
Personalmente ritengo che si debbano rispettare tutte le scelte dell’autore, anche quelle che non ci garbano.
Bologna 28 dicembre 2024 ore 18, 08 giovanni ghiselli
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