Dedicato a tutti gli atopoi: le persone fuori dai luoghi coimuni
Andai a bere il terzo caffè, la mia droga
“L’alcol è peggio-pensai- prima ti eccita, poi ti stordisce e ti fa invecchiare. Rende equivoca la lussuria e tante altre cose”.
Finita la pausa, tornai a rimuginare su Ifigenia, equivoca-equivocatrice pure lei. Anche se mi ingannava, e chissà cosa diavolo voleva da me poiché regali non gliene facevo, dato che esibivo e vantavo la mia povertà da francescano e da comunista aristocratico, io non dovevo perdere lo stile, il ritmo e l’aspetto acquistati con anni di sacrifici: avevo raggiunto una discreta cultura, un aspetto più che decente, avevo carisma con i ragazzi e potevo educarli al bello e al bene. Dovevo accrescere le mie forze e le capacità educative.
Lo studio e l’educazione erano i compiti della mia vita. L’amore era la borsa di studio più vera. Cominciavo a capirlo. Erano i fini. Gli eventi erano i mezzi. Potevo perfino utilizzare le emozioni cattive per potenziare la mia forza di educatore. Questa anzi doveva arrivare a sublimarsi nell’arte, nelle forme eterne della bellezza, elevarsi fino all’educazione di un popolo intero. Ifigenia mi faceva crescere non solo e non tanto con la gioia, ma anche, e in quel momento soprattutto, con il dolore. Me lo sarei lasciato infliggere finché ne avessi trovato il significato. Allora sopra le lacrime avrei sorriso per l’intelligenza della pena e ne avrei tratto sapidi frutti . Mi stavo avvicinando al centro, al compito della mia vita.
Intanto ero arrivato nel centro di Debrecen. Entrai nel Museo. Era dal 1966 che non ci avevo messo più piede.
Quello era la fase della feccia nel bicchiere della mia vita. L’avevo bevuta tutta, poi l’avevo vomitata “coactissima egestione” e avevo cominciato a estrarre intelligenza dal dolore non nascondendolo a me stesso né agli altri. Lo superai comprendendo che se non lo smaltivo tutto mi avrebbe impedito di compiere quanto costituiva la ragione della mia esistenza terrena. Infine avevo capito che è stolto chi vive per soffrire che depravata è la voluptas del dolore. Quella mattina lontana avevo notato, per la ridicula iunctura del nome, una statuetta intitolata Debreceni Venus, Venere di Debrecen, non bella per giunta. Come dire lo Zeus di Agrate, uno Zeus brianzolo. La mia Venere di Debrecen sarebbe stata Elena e tale era rimasta. Poi si era aggiunta la Venere di Bologna ma questa era assai meno buona e pure meno bella.
Da allora, l’estate del 1966, erano passati tredici anni nei quali gli autori e le amanti avevano risvegliato il mio senso del bello. Questa volta notai e osservai i quadri di Munkácsy che mostrano alcuni aspetti significativi dell’Ungheria: il pittore ne aveva evidenziato i caratteri peculiari: il fascino malinconico di quella terra e il romanticismo zingaresco della sua gente che conserva caratteristiche asiatiche come i finnici loro parenti linguistici. Altri dipinti mostrano donne sole, oppure con cani e bambini. Osservando questi, scattò il nesso con la donna che mi stava mentendo. Pensai che sarebbe rimasta sola lei pure, siccome voleva usare gli uomini e finiva che veniva usata poiché mirava a gente più forte e ancora meno buona di lei, poveretta.
Uscii nella luce del sole un poco rasserenato poiché continuavo a capire. Girai a lungo, finché venne l’ora di cena. Tornai in collegio, entrai nella mensa sonora delle voci contente dei giovani che a coppie o a piccoli gruppi prendevano accordi per passare in compagnia la bella notte estiva. All’epoca i ragazzi e le ragazze si guardavano in faccia e si parlavano. Ora fissano orrendi aggeggi pigiando dei tasti con mani frenetiche. Generazioni spietate. Molti di loro non sanno più osservare, riflettere, nemmeno parlare. Avrei dovuto mangiare, ma il cibo pur buono non mi attirava. Prima dovevo capire come affrontare i problemi cioè superare gli ostacoli. Mi ero seduto a un tavolo di studenti vietnamiti. Avevo simpatia per quel popolo. Ricordai quando cantavamo “il Vietnam è comunista, giù le mani dal Vietnam”. Avrei voluto parlare con loro, ma non capivano l’inglese. Mi alzai e andai a sdraiarmi nel prato fra i due collegi: era luminoso di luna. Alcuni giovani cantavano con garbo e con allegria. Uno suonava la chitarra. Osservarli, ascoltarli e guardare il cielo mi aiutava.
Quei ragazzi cantavano in coro al lume della luna alta nel cielo e luminosa sul prato, sentendosi uniti: mi facevano tornare in mente il meglio della mia vita, dalle due Elene, a Kaisa, a Päivi. Le avevo perse o smarrite ma c’erano state. Grandi doni avevo avuto, grandissimi: borse di studio generose, copiose. Dovevo essere grato.
“Tredici anni sono passati da quando arrivai qui ragazzo infelice-pensavo-. La mia faccia si è segnata di rughe, i capelli si sono un po’ diradati, non incanutiti però, diverse speranze svanite, ma solo perché non erano ragionevolmente fondate.
Ora saranno questi nuovi giovani ad avere illusioni ed è bene così. Debrecen è sempre un luogo pieno di mito e poesia, un posto dove si studia, si parla, si canta, si fa l’amore. Tutto il meglio della vita”. Ricordai che uno studente di Parma anni prima mi aveva detto : “la stranezza di questo luogo è che qui la gente non si odia, anzi in questi collegi le persone sono curiose le une delle altre, benevolmente”.
“Che stranezza, che stranezza santa-pensai. Questo è il vero significato della nostra università estiva”.
Guardavo le ragazze, i ragazzi, e continuavo a pensare.
Quei giovani contenti, festivi, e pure educati, suscitavano la mia simpatia, oramai quasi paterna. Sentivo anche una certa malinconia siccome non ero più capace di provare le scosse emotive che mi avevano dato negli anni passati le tre finlandesi di cui ho raccontato le storie: la forza dei miei sensi amorosi era tutta impiegata nel tentativo di risolvere gli enigmi di quella sfinge lontana che mi occupava l’anima intera: le sue parole ambigue, i suoi ostinati silenzi mi impedivano di interessarmi ad altre persone.
Mi costringeva a fissare gli ostacoli che mi metteva tra i piedi. Ora lo comprendo.
Pensavo che Ifigenia equivalesse alla Necessità che ha la forza suprema, l’Ananche sulla quale neppure Zeus può averla vinta. Senza quella donna in quel tempo mi sarei trovato nel vuoto di pensieri concreti, di desideri forti, di impegni reali. Così allora pensavo. Gli amori mensili con le straniere, o con le italiane in vacanza, non mi bastavano più. Nemmeno la luce della luna che faceva brillare i capelli odorosi delle ragazze, rischiarava le alte chiome delle querce antiche e illuminava i rami contorti degli alberi strani mi commuoveva, né mi occupava la mente quanto il pensiero di Ifigenia che mi invadeva l’anima. Se lei mi avesse spedito tre righe, povero me, mi avrebbe reso felice più di una vittoria olimpica o di un trofeo letterario. Non ero ancora abbastanza pratico della vita per avere capito che se volevo essere privo di turbamenti non dovevo fare dipendere il mio benessere dal favore di un’ altra persona, chiunque, qualunque ella fosse. Ora lo so. Sentivo solo che in ogni maniera, spogliandosi davanti a me, e pure non scrivendomi né facendosi trovare in casa, quella donna mi emozionava e disannoiava. Perciò mi sforzai di pensare che non mi stesse tradendo, che presto, la mattina seguente, avrei ricevuto la posta agognata. Del resto, anche se mentiva, tradiva, non mi scriveva, nell’anno di grazia 1979, era lei, solo lei, la persona che poteva farmi procedere, metodicamente, sulla mia via[1]. Se non fosse stato così, non ne avrei sofferto la mancanza in quella maniera. Pensavo inoltre, e questo realisticamente, che Ifigenia, pure se, come molto probabile, non mi amava, non mi avrebbe lasciato, siccome nel suo opportunismo capiva che il mio bisogno di lei era anche una necessità di darle una mano della quale la giovane supplente aveva a sua volta bisogno. E ne faceva gran conto. Con tali pensieri cercavo di aggiustare tutto. Mi vennero in mente i momenti migliori dei mesi belli passati insieme, quando la gioia incrementava e potenziava le vite nostre, reciprocamente. Non dovevo rinnegare tanta grazia ricevuta da quella creatura e da Dio, chiunque Egli fosse, per una lettera che ritardava. Non volevo, e non potevo drizzare la prua della mia vita contro l’onda del fato.
“Sii nobile- mi dissi alla fine di tanto rimuginare- ama il demone tuo. Tu sei il tuo destino. E lei ne fa parte. Non puoi non amare il tuo fato se ami te stesso. A un certo punto non ci saranno più dubbi e allora sarà tutto finito, ma ora i giochi non sono chiusi per sempre. Tu hai ancora bisogno di lei e lei di te, altrimenti ti avrebbe già liquidato, come fece con il suo ex quando ti ha conosciuto”.
Intanto, mentre i giovani fusi per herbam , raggruppati per lingua e nazione, cantavano a turno le canzoni dei loro flolclori nazionali e l’amabile luna seminava una rugiada di perle sui capelli, sulle braccia, sui grembi e sulle gambe abbronzate delle fanciulle, belline, io avevo annientato ogni angoscia autorizzando il mio istinto con l’esperienza, con l’intelligenza e con il doloroso amore della vita, la mia e quella dell’universo.
Bologna 29 dicembre 2024 ore 17, 48. giovanni ghiselli
p. s.
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Questo mese è stato in parte tempo di vacanza con le scuole chiuse. Ma la mia scuola è rimasta aperta, tanto quella orale-la biblioteca Ginzburg- quanto questa scritta del blog e di facebook. Non mancheranno i diecimila discepoli mensili cui tengo. Non ho visibilità televisiva né giornalistica poiché sono troppo atopos, fuori dal luogo comune. Eppure so di compiere un’opera educativa efficace per le persone dotate di pensiero personale. Ne sono contento,
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