Tornai a casa verso l’una ma andai a letto senza sonno: non avevo trovato un messaggio della mia domina nella segreteria telefonica e temevo il peggio. “Se le mancassi mi cercherebbe” pensavo.
Credetti perfino che questa storia fosse già bell’e finita e fosse giunto il momento di raccontarla. Ma non era arrivato il tempus scribendi: non avevo ancora gioito, né sofferto, né letto, né pensato abbastanza a lungo per scrivere come si deve.
Il destino stesso me lo segnalò: dopo qualche minuto di previsioni funesta il telefono si mise a suonare. Era lei. Disse che mi stava cercando da un’ora. “Voglio vederti subito” precisò. “Anche io- risposi- dammi solo il tempo di fare la strada il più velocemente possibile”.
La domina me lo concesse: mi aspettava davanti alla bagnina Luana.
“Non romperti il collo però- aggiunse generosamente- ti aspetterò qui finché non sarai arrivato tutto intero”.
“Farò presto comunque, e arriverò sano e salvo il prima possibile: ho sofferto in questi giorni per il desiderio inappagato di te, e ora sono felice”.
Mi sciacquai, feci un caffè, indossai un costume, dei calzoncini e una maglietta, scesi nel garage, tirai fuori l’automobile, la decappottai e la lanciai sulla strada che porta a Ravenna.
Nella notte calda e profumata della bella estate al suo culmine respiravo a pieni polmoni. Ascoltavo la voce di Ifigenia che cantava in un coro l’Alleluja di Händel registrato in una cassetta. Mi sembrava che fossero gli angeli o gli astri a cantare, celebrando il trionfo dell’amore nostro. Il vento intanto mi dava carezze lascive. Arrivai alle due e venticinque.
Ifigenia in attesa, appena da lungi ebbe visto i fari della nera Volkswagen, congedò gli amici che la assistevano nell’attesa notturna. Voleva farsi trovare sola al momento del nostro incontro pieno di commozione. Quando mi vide scendere dall’automobile mi volò tra le braccia come un passerotto tra le ali materne. Prima di parlare, mi fece toccare il frequente e impetuoso palpitare del cuore che balzava rapido nel petto sotto il seno abbronzato. Allora capivo di essere stato pazzo a dubitare dell’amore di lei. Quel tempo sarebbe arrivato presto, prima dell’umido equinozio che offusca il sole, ancora non era maturo. Sicché ci abbracciammo e stringemmo a lungo e con forza, poi andammo a stenderci su due sdraie sotto le stelle che benedicevano il nostro amore. Pochi minuti dopo, al chiarore dell’alba, vedemmo aleggiare sull’acqua le belle sembianze della felicità non ancora sconciata dalle nostre debolezze e miserie. Sarebbe durata un’altra trentina di giorni seguiti da un mese di pena, poi da altre sette stagioni di noia e dolore.
Bologna 23 dicembre 2024 ore 20, 58 giovanni ghiselli
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