Domenica primo luglio le zie mi aspettavano a Pesaro, Ifigenia a Misano, una trentina di chilometri prima.
Partìi da Bologna assai presto per l’impazienza di vedere non tanto le due aspre vegliarde mie benefattrici del resto, quanto la giovane amante e collega. Sapevo che a tutte e tre mancava la mia presenza ed ero sicuro di essere accolto bene. Le zie erano contente del mio ritorno a Pesaro: mi avevano aiutato come fossi stato il figlio che non avevano avuto, un nipote e pupillo di cui erano compiaciute perché simile a loro nel prendere la scuola molto sul serio; Ifigenia mi gradiva quale maestro che le indicava un metodo per procedere sulla via della vita. Questo credevo e forse c’era qualcosa di vero, ma c’era dell’altro.
Mi ero svegliato presto: la novità della situazione, degli ambienti dove avremmo recitato per diversi giorni le nostre scene mi infondeva emozioni diverse e indefinite. Non mi erano del tutto chiari i sentimenti delle tre donne nei miei confronti, né i miei verso di loro. Le zie erano benefiche ma volevano condizionarmi, limitare la mia libertà; Ifigenia voleva essere amata e pure utilizzarmi: usque ad sanguinem, temevo. Non era del tutto gratuita come Elena che voleva solo essere amata e amarmi per un mese in tutto. Non voleva prendere e darmi altro che amore fatto del resto anche di parole ornate e intelligenti.
Questa mulier augusta è stata ed è sempre rimasta per me la donna e la condizione ideale.
Partìi da Bologna che erano solo le sette ma il cielo era già allietato dalla luce e dai voli.
L’appartamento preso in affitto da Ifigenia era al piano terreno: la piccola porta d’ingresso e le anguste finestre erano oscurate da una scala a due rampe addossate alla facciata verde della casetta: il sole nel mese di luglio, nei primi giorni di luglio, si affacciava con stento nei locali interni soltanto dalle dieci alle due del pomeriggio.
Gli odiatori della luce, dato che le loro opere sono malvagie, penseranno che quel buio era una fortuna d’estate; io invece vi lessi un triste annunzio di prossimi danni e ne fui rattristato. Il mio amore poteva appunto intristirsi in quell’ombra. Pensai che non l’avremmo fatto lì dentro.
Il fatto è che quella donna non mi convinceva.
Ifigenia mi invitò a entrare nella camera dove si stese su un letto. Prese in mano un bambolotto, lo accarezzò e disse: questo non è Cicciobello bensì il supplente che ha sostituito la tua presenza in questi giorni. Ma ora tu sei qui grazie a Dio”. Dette queste parole, lanciò lontano il pupazzo e alzò un trillo di gioia, poi mi baciò. Mi strinse le spalle, appoggiò una mano mia sul petto suo per farmi sentire il palpitare affrettato del cuore, come del resto faceva ritualmente ogni volta che ci incontravamo dopo una separazione anche breve.
Poi disse che il desiderio pungente come un assillo di vedermi arrivare non l’aveva lasciata dormire tutta la notte. Quindu aggiunse che quel bambolotto era stato la sua unica consolazione in mia assenza.
Mi scrutava per vedere se mi lasciavo prendere dalla sua rete.
“Una rete (a[rku~) è la compagna di letto (hJ xuvneuno~)” mi venne in mebnte[1].
La osservavo anche io e riflettevo, e ricordavo, e confrontavo come faccio quando leggo i testi e li studio. Notavo che le sue fessure oculari erano poco espressive: nascondevano qualcosa dietro le parole insignificanti. Ricordavo le fessure tartare delle finlandesi e rimpiangevo il loro parlare onesto. Vero è pure che c’era una perfetta simmetria nelle braccia, gambe, natiche e seni di Ifigenia. Anche troppa. Mi venne in mente che nemmeno le colonne dei templi greci presentano una regolarità assoluta, una concinnitas perfetta. Volevo andare via di lì e probabilmente anche lei. La commedia era finita ed era stata un fiasco. A nessuno dei due era venuta voglia di fare l’amore. Un segno brutto assai.
Camminammo verso la riva marina mentre il sole salendo nel cielo faceva retrocedere tutte le ombre riempiendo di luce e calore ogni strada. Pensai che del resto anche l’Olimpo ha le radici nel buio dell’Ade. Quando fummo arrivati sulla spiaggia, la distesa marina che rifletteva quel fulgore abbagliante mi sembrò un grande scudo disteso dalle Nereidi per proteggersi dai raggi canicolari mentre danzano imprimendo sul fondo sabbioso le bellissime orme dei loro agili piedi.
“Devo partire: “ a Pesaro mi aspettano le zie per il desinare del tocco. Hanno cucinato per me. La mia vita adesso è la loro luce”.
Usai il toscanismo di casa per significarle che con quelle donne avevo comunque molto in comune e mi stavano a cuore.
Finalmente Ifigenia disse parole sensate: “non permettere che diano giudizi sul mio conto”
“Nemmeno sul mio ”, risposi, “ma consigli possono darmene”
Bologna 25 dicembre 2024 ore 17, 12 giovanni ghiselli
p. s
il Natale della luce è puntuale: il cielo è ancora luminoso. Sto già fruendo di una borsa di studio di 5 minuti. E’ solo un preludio ma anche questi non sono pochi.
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