Mercoledì 8 agosto fu una giornata variopinta: ricca di casi diversi tra loro, senza però lettera alcuna da Ifigenia. In compenso conobbi Isabella, la più egregia tra le ragazze napoletane arrivate a Debrecen dopo l’esame di maturità. Aveva lo stile della persona bene educata che parla con rispetto e ascolta con attenzione dando maggiore importanza a quanto sente dire che alle proprie parole, poi rilancia gli argomenti ascoltati con partecipazione.
Quando, per esempio, mi chiese cosa facessi a Debrecen oltre studiare, e le dissi, tra l’altro, che almeno una volta al giorno correvo i 5000 metri allo stadio, mi domandò se volevo essere cronometrato con precisione da lei.
Non fraintendermi lettore malizioso: questa ragazzina non aveva alcuna mira erotica nei confronti miei né io nei suoi: forse cercava semplicemente uno stimolo per fare ginnastica anche lei, grassottella qual era, e voleva piacere di più al suo Diego rimasto a Napoli che correva lui pure. L’avrei conosciuto l’anno successivo e l’avrei sfidato in quella stessa pista di Debrecen. Racconterò questo agone che vinsi contro tanti ragazzi italiani e stranieri pur da ragazzo anziano quale ero diventato, largamente il decano del gruppo dei contendenti.
Parlavo volentieri con questa fanciulla siccome avvertivo in lei qualità di educazione e di spirito che a Ifigenia difettavano. Sicché quella mattina provai meno dolore del solito per l’attesa fallita della posta promessa.
La sofferenza dell’espresso mancato venne in buona parte anestetizzata dalla presenza della nuova giovanissima amica. Non ero ancora sicuro però che il male mio fosse operabile, cioè che Ifigenia potesse essermi estirpata dall’ anima senza che io ne morissi. Stavo assai meglio comunque, grazie alla cara Isabella, e andai nella così detta “terrazza” dell’Aranybika a bere una birra e osservare il passaggio di femmine, infanti e viri di tutte le età.
Quella terrasz era di fatto un recinto ligneo che circondava sedie con tavolini metallici, bianchi, bucherellati e si trovava sul marciapiede di fianco all’ingresso del grande hotel della città.
Osservavo con simpatia le persone che passavano. Soprattutto le giovani donne che sorridevano benevolmente alla vita. Alcune anche a me riempiendomi di contentezza. Ora lo fanno più raramente ma capita ancora. Quando l’evento meraviglioso accade ringrazio tutti gli dèi.
Quel giorno lontana volevo obliare il mostro che non mi scriveva, Scilla o Cariddi o Ecate, o “quella Erittón cruda/che richiamava l’ombre a’ corpi sui”[1].
Dopo una ventina di minuti andai all’Hungaria, il primo locale dove ero entrato appena giunto a Debrecen, tanti anni prima, nel 1966, sul far della notte, spaurito, sprovveduto e sperduto in quel paese di cui nulla sapevo e non conoscevo lo stranissimo idioma, agglutinante mi avevano detto..
Là dentro avevo trovato tanta gente immersa nel fumo e nel chiasso dell’ora di cena.
Nel 1979 ci entrai di nuovo e sedetti. Mi tornò davanti agli occhi il mio aspetto spaventato di allora: la paura di perdermi, di non trovare un ruolo in quel paese e nella mia vita desolata. Uno spavento che esasperavo per potere capirlo a fondo e , quindi, esorcizzarlo. Per lo stesso motivo tredici anni più tardi mi lasciavo tormentare da una donna di bella presenza, una giovane equivoca e dal valore non comprovato dagli atti suoi che talora anzi addirittura smentivano il bell’aspetto. Volevo capire, arrivare a comprendere quello di cui più avanti sarei stato sicuro: che non ricevere quella lettera e soffrirne era meglio che riceverla ed esserne contento perché continuare ad amare quella donna portava pena . Vincere peius erat, citando Lucano[2]. Sarebbe stato il trionfo della disfatta mia, della mia morte. Un trionfo che i miei nemici avrebbero celebrato un baccanale corrotto.
Seduto nella sala dell’Hungaria osservavo tutto con attenzione perché affiorassero i ricordi. Volevo fare i raffronti tra quella sera del 1979 e l’archetipo dell’approdo a Debrecen nel luglio 1966 . Comparativismo tra gli anni vissuti. Anche questi sono porosi e si possono comparare, come le opere letterarie.
Svolgevo all’indietro questo filo dal gomitolo della mia vita mortale. C’erano le stesse tende bianche e gialle non molto pulite di allora, le colonne corinzie, i pilastri, gli stucchi e il medesimo aedo invecchiato con il repertorio immutato. Non era cambiato quasi niente. Verso le due entrò un gruppo chiassoso di turisti, slavi, forse cechi. Come tredici anni prima, avevo paura. Temevo un’altra volta di rimanere escluso dalla bellezza, dalla gioia di vivere.
“ Ifigenia se ne sta andando-pensavo-. Comunque in questi ultimi mesi mi ha fatto crescere. Il potenziamento da lei ricavato mi servirà a trovarne altre migliori. Il destino non mi vedrà prostrato ai piedi di una che non tiene fede alle promesse. Non diverrò mai il suo famulus. Costei non sarà più la mia domina, già non è nemmeno un’amica e presto non sarà neppure un’amante: sta cercando un uomo più famoso e facoltoso di me per contrastare il declino della venustà con il lusso comprato- mercato cultu- che un professore di ginnasio, assai trito e parco per giunta, non può permetterle”.
Dopo un piatto di carne senza patate né pane, mi alzai e mi incamminai verso il collegio. Avevo deciso di percorrere quei quattro chilometri a piedi: non dovevo prendere nemmeno un grammo poiché la prossima femmina umana meritava ogni mia attenzione e la prima premura doveva essere quella di presentarmi a lei nella forma migliore. I 5000 metri quotidiani e il desinare frugale contribuivano a questo. Più i quattro chilometri che dovevo percorrere a piedi in quel pomeriggio da fauno stremato. Frugale comunque. Mi venne in mente che il primo significato del latino frugi è “onesto”. Fare esercizio, un’ascesi pagana, e mangiare con moderazione limitandosi al necessario è una forma di onestà verso se stesso. E chi non lo è con se stesso, tanto meno lo sarà con gli altri. Mi sovvenne che quando ero arrivato obeso a Debrecen odiavo la mia persona e detestavo ogni vita. Ero carente di identità e vuoto di ogni bene. Per questo mangiavo con ingordigia suina. Dunque un bel progresso l’avevo fatto da allora grazie alle amanti che avevano rafforzato la mia volontà, accresciuto il mio amor proprio, potenziato la mia identità e scemato la mia insicurezza. Le due Elene e le altre due Grazie finlandesi soprattutto.
Anche la forosetta gallica e le germaniche Cornelia e Silvia.
“Quando viene a trovarmi in casa-pensavo-Ifigenia mette disordine. Fa cadere di tutto: libri, quaderni, cioccolata, caffè, vino, formaggio, prosciutto. Di questi cibi va pazza e fa incetta.
Né si china a raccogliere alcuna cosa. Non pulisce quanto ha sporcato, non asciuga quanto ha bagnato. Se riuscisse a trasferirsi da me, mi ridurrebbe a suo servo. Ancora è bella, ma se non pone limiti alla sua ingordigia, tra pochi anni, già sui trenta, sarà una lardellona appena appetibile, poi, arrivata ai fatali quaranta del lardo e basta.
Deve essere sottile la Musa, prescrive Callimaco, dunque la mia non potrà essere lei.
In ogni caso non è una persona generosa: lo sta ribadendo con questa sollecitudine nello scrivere e spedirmi una lettera della quale le ho detto chiaramente di avere bisogno: pensa cosa succederebbe se tu, disgraziato, avessi necessità di un farmaco o di qualunque altra assistenza!”.
La riempivo di vizi e difetti anche inventati o almeno ingranditi per smontarne l’icona e liberarmi dal culto di lei divenuto empio. Volevo diventarne profano, profanarlo dentro di me.
Quando arrivai in collegio e non trovai posta, pensai: “Che miserabile, che infame! Eppure se mi scrivesse mi renderebbe felice. Guarda come ti sei ridotto! Sei diventato lo zimbello di quella Circe malvagia. Ma porco non diventerò.”
Quindi salìi in camera per prendere I Guermantes e trarre qualche consolazione dalla sprezzatura che Proust attribuisce ai nobili: la neglegentia, l’ajmevleia celebrata dai miei classici. Dovevo imparare da loro la noncuranza di chi mi voleva tanto male da cercare di trasformarmi in un maiale: Ifigenia: “ hJ suw`n morfwvtria[3]”.
Bologna 31 dicembe 2024 ore 10, 08 giovanni ghiselli
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