Salito in camera rimuginavo: “Aspetta il mio espresso”, aveva telegrafato. Poi qualcuno le ha fatto cambiare roposito. Chissà quale rozzo bagnino l’ha stuzzicata , o quale borghesuccio l’ha manipolata dopo essersi spacciato da gran signore”.
“Faccia il tuo grande signore, gran signora pure te”, canticchiavo simulando noncuranza. Invero era il lugubre qrh`no", il canto funebre dell’amore morto male.
Poi tornavo a fare ipotesi più o meno balorde: “Oppure, perversa com’è, magari si è data da fare con il curiale cui sfacciatamente esibiva le mutande celesti tra le coscione sudate durante la gita sul lago di Garda, a Sirmione. Salve o venusta, le aveva detto il domine non so quanto turbato, ma forse era un sant’uomo e probabilmente più che a lei si rivolgeva alla venusta Sirmio”.
Tali erano gli arzigogoli del mio cervello arido e inconcludente mentre calzavo le scarpe di gomma, rosse e non poco fetide, le stesse che avrei prestato a Ifigenia due anni più tardi quando andammo sull’ombelico del mondo a pregare Apollo, il signore di Delfi, perché ci concedesse felices in cetera cursus, corsi ricchi di successi in quanto restava da fare a me e a lei. Allora i nostri corsi erano già volti in direzioni diverse. Eravamo contenti del discidium avvenuto. Si poteva fare ancora l’amore e non avere più il problema datato e stonato della fedeltà tra noi. Avevo finalmente capito che non potevo imporla chi non ne era capace. Quel 9 agosto invece mi allacciavo le scarpe puzzolenti per correre e liberarmi dalle tossine dell’odio. Feci un tempo mediocre: superiore ai venti minuti. La pena mi appesantiva l’anima e il corpo.
La gita nella puszta da solo.
Il giorno seguente, 10 agosto, andai a Hortobágy da solo. Partìi alle quattro del pomeriggio dopo avere atteso tutti i passaggi del postino. Invano. Come succedeva a Moena, in via Damiano Chiesa 11 dove passavo parte dell’estate negli anni Cinquanta sotto la tutela della zia Giulia, aspettando ogni giorno per diverse ore almeno una cartolina della mamma anche lei bella e bruna, pure lei ognora silente.
Pensavo che cantasse:
“oggi non ho scritto a Giannetto,
ieri non gli ho scritto,
nemmeno domani gli scriverò.
Lui deve attendere sempre:
ieri, oggi domani,
deve aspettarmi ognor!”. Cantavo questo a Moena non senza singhiozzare. A Debrecen 25 anni più tardi sentivo ancora l’eco di quei singhiozzi antichi.
Dai novantanni però la mamma ha contraccambiato il mio amore. Ora mi manca di nuovo.
Quel pomeriggio di fine estate dell’anno 1979 il cielo era tutto sereno: a mano a mano che il sole calava sulla grande pianura un po’ desolata lo supplicavo di farmi avere un segno da Ifigenia. Ma il dio non accennava ad ascoltarmi, a esaudirmi: avrei preso per buono financo un cenno pur quasi impercettibile della sua luce. L’avrei notato e ne avrei tratto auspici.
Allora mi venne in mente il pomeriggio radioso del luglio del 1974 quando andai là nella puszta con Päivi che credevo fosse il massimo scopo della mia eterna ricerca. Il punto d’arrivo: la meta dove tanto ricercar fu volto. C’erano Bruno, Silvano e due tedesche amiche loro. Eravamo sei giovani educati, contenti, in due automobili. Uno dei momenti più belli della mia vita mortale fu quando scesi dalla Volkswagen e andai a urinare in direzione del sole. Allora Dio mi ascoltò, Dio mi esaudì. E’ stata l’ultima volta che ho amato una donna senza nessuna riserva. E ho fatto male.
Nei cinque anni passati da allora il caro Bruno era già morto e gli altri quattro erano andati comunque lontano da me. Anche la nostra bambina era morta. Più tardi è morto pure Silvano.
Non avevo desinato quel giorno. Non ne avevo sentito il bisogno. Farlo non mandante fame, senza la richiesta della fame sarebbe stato un abominio, il crollo della mia identità, la ricaduta nella depressione infernale del 1966.
Mi fermai sul luogo dell’atto magico e propiziatorio di cinque anni prima. Ero già innamorato di Päivi e mi sentivo contraccambiato. Lo ero. Facemmo l’amore quella sera stessa, la sera del dì della festa dedicata alla conoscenza: in tutti i sensi. Meravigliosamente io conobbi quella ragazza rossa nel collegio numero due. Nella luce del sole vedevo riflessa la donna amata quantum amabitur nulla pensavo. In lei avevo visto la luce di cui avevo bisogno.
Ma torniamo alla solitudine del 1979. Rivolsi la parola all’amico morto ante diem e sempre rimpianto.
“Allora ci bastava poco per essere felici. E’ ve’ Bruno? Ci bastava una ragazza fine e bellina, almeno passabile, una per uno, se no si litigava. I nostri attriti di certi momenti dipendevano dal fatto che tanto a me quanto a te dava fastidio che l’altro, temuto magari a torto come rivale, piaceva alle donne lui pure, e ognuno di noi temeva di piacere di meno. Ma poi nell’età allegra di quegli anni con una ragazza a testa, una bottiglia di Egrikikavér, un bagno in piscina, una partita a tennis e due ghiribizzi eravamo contenti. Si era giovani molto e ci si accontentava. Ragazzi eravamo. Tu caro amico, sei rimasto giovane e bello fino alla tua dipartita. Quando ti penso, mi tornano in mente le gioie ancora ingenue dei nostri venti anni che si avvicinavano ai trenta però, e incombevano già tempi peggiori per tutti. Il 1974 fu forse il limes, o limen se preferisci, da giurisperito qual sei.
Tu non l’hai oltrepassato quel confine tra la nostra età dell’oro e le successive sempre più tristi. Non dico meglio per te, per carità, non lo dico, ma è vero che ti sei risparmiato tanti orrori, tante delusioni, tanti disincanti che rendono vecchi.
Del resto con il passare degli anni , mentre le forze scemano, crescono le pretese. Adesso ci vuole altro che la ragazza bellina e una bottiglia di vino per essere appagati. Io ho bisogno di onestà, pulizia, intelligenza, cultura. Ifigenia la mia donna, non tiene fede alle promesse. Bella è bella ma una voce mi dice: “un altro amante la tiene in pugno”. Poco, fa in piscina, ho contato i battiti cardiaci: quarantadue in un minuto. Ancora qualcuno in meno poi ti raggiungo dove sei ora: forse là, nella pianura Elisia ai confini del mondo dove è facilissima per i mortali la vita[1], dove ci ritroveremo e staremo bene come nel collegio di Debrecen quando eravamo nel fiore noi due. Ti ricorderò nel capolavoro che scriverò quando le Muse mi spingeranno a essere l’aedo di Debrecen. Fulvio me l’ha profetizzato e io aspetto l’ispirazione. Se arriverà, anche tu non omnis morieris[2]”.
Mi ero seduto sul paraurti posteriore della bianca Volkswagen. Pensai queste parole e le scrissi. Poi ripartii e arrivai a Hortobágy. Salìi sui gradini-sedili del teatro di legno situato davanti al fiume e al ponte famoso, quello a nove arcate: il kilenclyukú híd.
Luogo di ricordi e pure di attese di eventi futuri: l’anno seguente, sul palcoscenico di quel piccolo teatro, Ifigenia in scarpe da ginnastica, calzoncini bianchi attillati e maglia rossa, aderente, avrebbe alzato le braccia al cielo gridando : “
“O! for a Muse of fire, that would ascend
The brightest heaven of invention”[3] .
Voleva lasciare la scuola per recitare nei teatri i drammi dei grandi autori e io avrei voluto diventare il più grande di tutti.
Non sapevo che da conferenziere avrei recitato tante parti anche io.
Intanto Fulvio, l’amico caro e profetico la fotografava. Oggi nemmeno Fulvio c’è più qui sulla terra. E’ un amico celeste anche lui. Il più caro tra gli amici che stanno in cielo
Bologna 31 dicembre 2024 ore 15, 21 giovanni ghiselli
p. s.
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