La bionda mi salutò alzando la mano sinistra. Allora mi alzai e contraccambiai il saluto ma non la seguìi. La ragazza si mosse dalla parte del suo gruppo e si unì a loro: si dirigevano verso la fermata del tram per andare a bere e ascoltare musica in un locale del centro,
Non risposi dunque al richiamo della tedesca se non con un cenno di cortesia tra compagni di scuola, quindi non la raggiunsi e non la invitai a fare l’amore con me nell’automobile come s’era fatto sbrigativamente io e Nefertiti tre anni prima.
Così realizzavo la fantasticheria della notte remota successiva al dì nel quale avevo scritto diverse pagine della tesi di laurea.
A una possibile avventura con una straniera, a un altro peregrinus amor e concubitus vagus da aggiungere alla collezione, avevo preferito una ancora possibile relazione di maggiore durata e impegno con una donna italiana bruna bruna.
Poco più tardi salìi in camera: sempre la stessa degli anni passati quando scherzavo giovanilmente con gli amici e con le amanti: la numero 4 del III piano del II collegio. Sedetti nello studio che divideva le due parti.
Scrissi a Ifigenia facendole sapere che soffrivo la mancanza di lei e che lì a Debrecen, dove pur non mancavano le persone simpatiche e mi accompagnavano ricordi anche belli, costitutivi di parte non piccola della mia identità, mi sentivo dimezzato senza di lei, però grazie a tale dolore ero del tutto sicuro di amarla. Aggiunsi che quella sera non mi sarei unito ad alcuna brigata più o meno lieta, ma sarei rimasto solo per pensare a lei, la mia compagna ricca di mito e di poesia.
Non so quanto fossi convinto di queste parole: probabilmente non lo ero del tutto perché non ravvisai morfh; ejpevwn in quanto avevo scritto e tanto meno frevne~ ejsqlaiv[1]
Il giorno seguente, 25 luglio 1979, lo passai in solitudine fino alle 10 di sera. Dopo essere stato a lezione distrattamente, lessi e studiai la Storia dei Romani di Gaetano De Sanctis, poi All’ombra delle fanciulle in fiore di Proust, corsi i 5000 metri nello stadio due volte, pensai a Ifigenia, quindi le scrissi questi pensieri squilibrati:
“Ifigenia, tesoro, tu non sei qui, ma il ricordo del tuo sorriso abbronzato e festivo decora tutte le ore della mia giornata solitaria, studiosa e riflessiva. Ricordo il tuo splendido corpo che, svestito a festa, illuminava le stanze di casa mia, cupe altrimenti nella tetra atmosfera della nostra fosca e turrita Bologna dove lunghi sono gli inverni; ricordo le tue gonne che, quando mi correvi incontro, si sollevavano al vento di primavera profumandolo con l’odore santo della tua pelle; ricordo come il tuo corpo brunito, all’inizio di questa stagione, faceva gioire l’aria marina quando andavamo sul moscone, al largo della spiaggia di Pesaro per fare l’amore, e le farfalle ci danzavano intorno i loro valzer pieni di armonia e i gabbiani sopra di noi ci salutavano von le loro ovazioni sonore ovantes gutture gaviae. Io ti amo, Ifigenia, ti amo. Questi ricordi mi mantengono vivo, emozionato, attivo anche nella tua assenza pur dolorosa, e il tuo sorriso illumina, riempie di vita il mio cervello che altrimenti si stancherebbe nello studio della storia dell’imperialismo romano e nella lettura di Proust, sensibilissimo e raffinato ma talora privo di potenza verbale e di capacità sintetica. Un’orchidea di serra spesso carente di nerbo nonostante l’etimologia[2].
Ho con me la copia del volume L’ombra delle fanciulle in fiore che mi regalasti, e non manco mai di accarezzare, odorare, baciare la pagina sacra con le parole della tua dedica ricca di amore. Così il profumo di te, portato dal vento dell’ovest, mi ispira, mi spinge a correre lo stadio più di una volta al giorno con tutte le forze, a cronometro, e mentre spremo con gioia i liquidi del mio corpo agonista, mi sembra di avere un orgasmo con te.
La tua presenza in carne deliziosa e ossa modellate con arte, la tua parola intuitiva, poetica, amore, mi manca a tal punto che, quando l’effluvio odoroso di te, portato dal vento occidentale, si attenuerà, allora io, invece di andare dalla parte nord orientale, quella dei selvosi Carpazi, andrò verso la parte occidentale di Budapest e di Hortobágy, dov’è la grande pianura ricca di girasoli: là correrò, anelando, mentre i soffi dell’aria odorosa di te mi benediranno e mi renderanno beato con il tuo aroma tutto intero prima che questo sia stato filtrato dalle avide, invide foglie assorbenti della grande foresta di Debrecen. Allora continuerò a inebriarmi dell’essenza preziosa esalata dalla tua carne divina.
Ciao. Come vedi, ti penso
Tuo
gianni”.
Tali iperboli barocche generava la mia smania amorosa. Ora so che quella donna era molto più amabile in assenza che in presenza, più desiderabile quando si trovava molto lontano che quando stava da troppo vicino.
Un poeta ungherese, uno dei massimi del Novecento, ha scritto:
“Amo l’amore morente
Amo baciare chi se ne va” (Parente della Morte in Sangue e oro, 1907).
Bologna 27 dicembre 2024 ore 20, 37 giovanni ghiselli
p. s.
Sempre1656092
Oggi197
Ieri314
Questo mese9342
Il mese scorso11873
[1] Nell’XI canto dell’Odissea Alcinoo dice a Odisseo che ha morfh; ejpevwn, bellezza di parole kai; frevne~ ejsqlaiv e saggi pensieri e che il suo racconto è fatto con arte, come quello di un aedo (vv. 367-368).
[2] Cfr. greco o[rci~ , testicolo, quindi dall’aspetto- ei\do~- simile a quello dei testicoli.
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