Entrato nel paese dove abitavo bambino e fanciullo nei mesi di agosto degli anni Cinquanta, attraversai il ponte più a valle e andai a occupare la camera prenotata nell’Hotel La Campagnola dove avrei dormito, studiato i libri portati con me, e cenato la sera. Di giorno preferivo mangiare un panino in uno dei rifugi sui campi del Lusia dove andavo ad abbronzarmi e sciare.
Dopo avere sistemato la roba e gli sci nell’albergo situato sulla terza rampa della strada in salita che arriva al passo San Pellegrino, mi mossi per tornare al centro di Moena: volevo rivedere con calma il paese e riconoscere i luoghi frequentati in passato, magari anche qualche ragazzo di allora non tanto invecchiato da essere irriconoscibile o addirittura inguardabile: temevo di ravvisare la mia decadenza nella senilità precoce e vituperosa di qualche giovane malvissuto.
Aveva cessato di piovere e tra le nuvole già un po’ diradate stava trovando qualche breve pertugio la luce del sole ormai vicino del resto al dorso villoso del Sass da Ciamp: un monte alto meno di 2000 metri e perciò tutto boscoso tranne in una piccola estremità rocciosa rivolta verso Nord. Quando ero bambino e vedevo tante più cose con l’immaginazione che con gli occhi già miopi, se fissavo quel monte dal sottostante prato di Sorte, nella sua sagoma vedevo un cane tutto peloso tranne che nel naso teso a fiutare il vento; anzi quando ebbi preso un poco di confidenza con i monti di Moena, al Sass da Ciamp che verso le cinque e mezzo di pomeriggio in agosto mi nascondeva precocemente la santa faccia di luce che ho sempre adorato, chiedevo di accucciarsi per lasciarmi ancora vedere il volto radioso del mio miglior amico, la Mente dell’universo. Ma quel monte dall’aspetto canino non mi dava retta, e allora, per rivedere il sole dovevo correre verso il lato occidentale della valle, attraversare l’Avisio, quindi salire su per la strada di Someda da dove potevo assistere a un secondo tramonto pieno di benedizioni portate dagli ultimi sprazzi di luce.
Sulle cime più alte quella luce indugiava fin oltre le sette prendendo toni diversi fino a rosseggiare: allora immaginavo che l’amico divino, per il dispetto di andare a dormire troppo presto, scagliasse i lamponi dei boschi a spiaccicarsi contro le rocce del Catinaccio tingendole di sugo purpureo, simile al sangue.
Bologna 21 dicembre 2020 ore 11, 41 giovanni ghiselli, giannetto in quel tempo.
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