Il pomeriggio del 13 aprile 1979 camminavo per Moena ricordando il passato per capire il presente.
Sul ponte che collega le due piazze centrali divise dall’Avisio transitavano ragazzi italiani e stranieri. Ricordai che Ifigenia, volendo significarmi di essere una donna evoluta e libera, mi aveva detto che l’estate precedente aveva amoreggiato a Riccione appunto con degli stranieri quando il marito non c’era. Pensai che l’estate seguente avrebbe ripetuto, rinnovato e rinverdito quel baccanale corrotto. Questa volta l’eterno marito di tipo dostoevskiano sarei stato io pensai. Sulla fronte mi sarebbe spuntato “il bel noto ornamento”[1] che avrebbe spinto la mia testa a una sorta di beccheggio: su e giù per scacciare i brutti pensieri.
Poi però mi correggevo: “ma quale marito? Chi la sposa quella? Nemmeno se mi puntano una pistola alla tempia. Se non vuole più stare con me, vada pure con chi ne ha voglia. Anche con un battaglione di negri, come diceva comicamente Fulvio, maestro e amico. Pronunciava nègri come si fa a Parma.
“Condividere un’amante con un altro uomo può essere una fortuna, come afferma lo Zeno di Svevo: la responsabilità è minore, la noia pure”, mi consolavo avvalendomi del mio solito abito letterario.
Mi venne in mente un film dove un uomo brutto entrava in un bar con un donnone.
Questa dopo un po’ si metteva a parlare con un orientale. Il deforme che l’aveva accompagnata disse a un altro: “speriamo che si innamori del giapponese!”
“Perché speri questo?” fece quell’altro con aria stupita.
“Così finalmente si toglie dai piedi” rispose l’uomo invenusto.
“In effetti se una se ne va con un altro- pensavo- vuol dire che non sta volentieri con te e se rimanesse darebbe soltanto noia. Allora ponti d’oro
E dopo tutto non è male baciare chi se ne va. E’ il bacio più gustoso”.
Con tali pensieri mi davo delle ragioni e mi astenevo dall’odiare, cioè dal soffrire inutilmente. Temevo nuove umiliazioni dopo le tante ricevute fin da bambino ma cominciavo a capire che viene umiliato solo chi si lascia umiliare. A me non doveva accadere mai più.
Osservavo di nuovo i monti dalle sembianze umane espressive, piene di significato. Come a Pesaro ho sempre tratto conforto dall’innumerevole sorriso della distesa marina soleggiata; a Bologna dalle colline mentre le percorro in bicicletta all’insù e all’ingiù con pedalate eroiche e pure erotiche siccome nella natura madre cerco sempre forme femminili; a Debrecen dalle querce profetiche della grande foresta che promettevano senza mentire i grandi amori assegnati a me dal destino, così a Moena mi sollevo parlando a montagne antropomorfe o meglio ginecomorfe, ed esse per loro umanità mi rispondono, mi fanno coraggio. Mi aiutano a superare ogni volta le difficoltà della vita, a diventare sempre meno insicuro e infelice.
Mi diedi a osservare il Piz Meda.
Questo monte, situato a sinistra delle prime rampe che menano al passo san Pellegrino, non è molto alto, arriva appena ai 2000 metri e consta di un grande bosco sopra il quale spicca una parete rocciosa simile a un volto umano sereno e dignitoso.
Tra il bosco e la rupe liscia, dove ho sempre ravvisato una faccia di donna buona, si stende una conca invisibile a chi guarda dal fondo valle dove scorre l’Avisio; per vederla bisogna salire sul Pizzo stesso o su un monte vicino. Quando ero bambino avrei tanto voluto osservare quella misteriosa incavatura come se ci avessi potuto trovare l’anima, o il cuore, o la vagina della montagna. La parte posteriore visibile scendendo dal passo era amena, oso dire callipigia non senza autoironia.
Una volta, ricordo, dissi alla zia, nutrice e madre vicaria in quel di Moena: “Giulia, il Piz Meda ha una faccia simpatica. Mi piacerebbe vedere la conca che le sta sotto: forse lì c’è un piccolo lago che raccoglie le lacrime o riflette i sorrisi di quel viso”.
Ma la zia era stata maestra fascista in diversi paesi europei con soddisfazione e trovò inopportuna, impertinente, inquietante la mia osservazione. Anche a Budapest era stata inviata a insegnare.
“Bambino-disse- non hai più l’età per fare discorsi tanto sciocchi. Vai a ripassare la tavola pitagorica piuttosto, che ti farà tanto bene”.
“Perché sciocchi?” provai a ribattere.
“Sciocchi sì: non sono punto intelligenti né spiritosi bensì sciapi e privi di logica”.
Andai in camera dispiaciuto pensando che avrei fatto vedere alla zia che valevo qualcosa smentendola e dandole del resto grandi soddisfazioni perché lei, donna sposata ma senza figli, puntava molto su di me, sul mio essere bravo a scuola. Lei stessa è stata una brava maestra dai 17 ai 65 anni. Ho preso molto da lei, perfino i capelli rimasti neri fino ai Settanta anni e oltre. Neri come corvi eravamo anche da vecchi. Abbiamo derivato tale anomalia dal ghenos etrusco dei Martelli di Borgo Sansepolcro.
Nelle elementari Carducci di Pesaro ero già molto bravo in italiano. La zia Giulia insegnava a Roma nel quartiere Monte Sacro ma si teneva informata sulla mia “carriera scolastica” già allora, e dopo tutto mi ammirava. Temeva però che potessi traviarmi seguendo il volo delle mie chimere irregolari e illogiche. Le chimere mie non sapevano niente di sillogismi in effetti.
Fu contenta quando nel 1987 andai a fare il commissario di greco e latino nel liceo classico Orazio nel suo quartiere.
Date queste attese sul mio conto, trovava che le mie fantasie puerili non si confacessero a quanto lei si aspettava. Per fortuna in terza elementare avevo un maestro, Gasperi, che invece le apprezzava e faceva girare i miei temi in tutte le classi del Carducci.
La professoressa di Lettere delle medie, Giulia Gattoni, ha continuato a dire per anni che non aveva mai trovato un bambino sensibile e intelligente come me tra i suoi allievi.
Sicché davo retta questi educatori che mi incoraggiava a essere me stesso.
Alla zia volevo bene ma non volevo farmi fuorviare da lei che del resto mi avrebbe aiutato a vivere dignitosamente quando lo stipendio non me lo avrebbe consentito. Negli ultimi anni di vita diceva anche lei che ero la persona più intelligente che avesse mai conosciuto.
La casa di Moena però non volle assegnarmela: disse che ci avrei portato chissà quante donne e il prete sarebbe venuto a bussare alla porta. Risposi che l’avrei buttato giù dalle scale. Infatti da sciocchino ero diventato birbante e lazzarone. Nemmeno la casa di Roma mi ha lasciato. Mi domandò se mi dispiacesse se la segnava a mia sorella. Che cosa potevo rispondere se non: “fai come ritieni giusto, a me hai segnato l’oliveto di Montegridolfo”. Le sono grato di tutto comunque.
Quel 13 aprile dunque le cose mi andavano già meglio di quando ero considerato giannetto sciocchino: diverse donne mi avevano amato riamate, però il problema di fondo: quello di amarne una senza paura, senza sospetto, non l’avevo risolto. Non l’ho mai risolto. Avrei potuto amare una figlia mia, lei sì, come ho amato tutte le mie consanguinèe, ma non ho avuto il coraggio di metterla al mondo e le amanti giovani quasi adottate come figlie, dopo avermi accolto con il cuore proteso, presto o tardi si sono dileguate. Una alla volta via via.
Giustamente per sé e ancora più giustamente per me.
“ degnamente Febo di fatto e degnamente tu” dico ancora a me stesso ripetendo un verso dell’Edipo re di Sofocle: “ ejpaxivw~ ga;r Foi`bo~, ajxivw~ de; suv” (133). Che cosa c’entra? Domanderai tu lettore. Posso dirti che mi piace e che vivendo ho imparato a fare e dire quanto mi garba soprattutto se non danneggio nessuno. Chi è strettamente logico sostiene che con tali esplosioni di irrazionalità e originalità ostacolo me stesso. Rispondo che l’irrazionale, il personale non è eliminabile e chi cerca di reprimerlo fa danni più grossi. Come Penteo nelle Baccanti per esempio.
Bologna 21 dicembre 2024 ore 16, 59 giovanni ghiselli
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