Andavo verso Ora sull’autostrada del Brennero. Ero solo dentro la nera Volkswagen. Pensavo che due giorni dopo sarebbe stato il dì della Resurrezione di un giovane uomo ucciso in una croce, oppure di un ragazzo ferito a morte dal dente funesto di un cinghiale: apri dente ferali deleto, quod in adulto flore sectarum est indicium frugum [1].
Quel viaggio era un ritorno a un luogo della mia infanzia, ancora oggi ricco di mito e poesia nella mia mente.
Durante il tragitto pensavo a Ifigenia, a cosa volevo e potevo farmene. Desideravo continuare ad amoreggiare con lei ma niente, o poco di più. Almanaccavo e arzigogolavo a lungo anche perché lunga era la strada e piuttosto noiosa.
Concludevo: “amante sì, però moglie o fidanzata: no, mio Dio, no, no, no, per carità”.
Del resto nessuna donna volevo quale moglie. Pure Elena, la migliore di tutte, che avrei amato per sempre, mai l’avrei sposata.
Al massimo in punto di morte indubitabile e garantita. La mia o quella di lei. Con la clausula che se nessuno dei due fosse morto il matrimonio non sarebbe stato più valido. Ma Elena è tornata in Finlandia consentendomi di amarla per sempre.
Alla stessa automobile che stavo guidando avevo dato il nome della figlia di Zeus. Elena è un nome che tuttora mi predispone bene verso una femmina umana. Quando l’ebbi conosciuta, meravigliosamente, le dissi indicando la nera Volkswagen: “tu sei la mia prima donna da quando ho questa macchina: la chiamerò con il tuo nome, classico e nobile come sei tu”. La bella donna rispose soavemente che avrebbe chiamato gianni il suo primo figliolo.
Intanto pioveva. Verso le cinque di sera giunsi a Predazzo.
Il cielo era sempre oscurato da nuvole gonfie.
“Non smetterà mai, mai!” pensavo, come mi capita spesso quando sono perseguitato dalla pioggia e come ho sentito dire dal lunatico re di Baviera, nel film Ludwig di Visconti.
Il paese, ultimo della valle di Fiemme, mi accolse con il suono lugubre delle campane che annunciavano la morte del dio crocifisso, mentre le Pale di San Martino visibili dall’uscita nord del paese, tutte bagnate com’erano, sembravano donne vissute per anni lontane dal sole e rese pazze e pure malate di tisi dalle intemperie.
Se la pioggia avesse seguitato a tormentarmi, sarei diventato pazzo e tubercoloso anche io.
Poco più avanti la valle si strozza, quindi si riapre a Moena e cambia nome in valle di Fassa.
Moena quando è illuminata dal sole o dalla luna è un luogo tanto bello da suscitare meraviglia. Tale impressione poetica e prefilosofica provai la prima volta che vidi il paese e le rupi sovrastanti: il catenaccio e i monti pallidi. Come le scòrsi, era l’estate del 1948, gridai alle zie : “che macello di rocce!”. Una signora passando vicino a noi commentò: “che stellina questo bambino!” non avevo ancora compiuto quattro anni ma ne trassi coraggio. Le zie mi fecero dei complimenti.
Mi aveva fatto esclamare quelle parole il mio stupore di bimbo cresciuto sul mare, la mia meraviglia davanti a quelle enormi figure schierate prima di affrontarsi in uno scontro con altri giganti immani: meravigliosi e mostruosi.
Bologna 21 dicembre 2024 ore 10, 55 giovanni ghiselli
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