Il 4 aprile si temeva la pioggia. Ifigenia mi aveva insegnato una credenza popolare secondo cui, se piove quel giorno, le nuvole acquose seguitano a gocciare per sei settimane di fila: praticamente il sole sparisce con il calore e i colori che dona alla terra. Passammo quella giornata fatidica osservando le nubi: da scuola tra le lezioni ai nostri scolari, poi tra i libri e gli amplessi ne scrutavamo l’ampiezza, lo spessore, il colore, i movimenti inquieti e inquietanti.
Di giorno andò abbastanza bene: le nuvole rimasero bianche e sottili, e non si congiunsero a formare ammassi scuri, forieri di pioggia; anzi verso il tramonto, oramai dopo le 19, la maggior parte del cielo, sereno, pieno di voli faceva già antivedere l’estate. Noi due iterammo l’amore più volte del solito per festeggiare il pericolo già quasi scampato. Ma appena il primo fra tutti gli dei si fu eclissato, a un tratto da ovest si vide avanzare una grossa nuvola nera imporporata del resto dal sole che declinava già spostato verso la grande pianura del nord. In breve la nuvola divenne tetra, minacciosa e tosto si estese togliendo chiarezza al cielo e ai nostri volti. Se fosse piovuto, e l’orribile auspicio di un mese e mezzo di pioggia aveva una validità almeno statistica, sarebbero andate in malora tante delle nostre escursioni ciclistiche, delle rincorse sui prati, degli amplessi sull’erba schiacciata dalle natiche sode della mia slendida amica callipigia quanto Afrodite.
Ifigenia al momento del congedo disse: “giura che fino a mezzanotte e un minuto non pioverà”
“Lo giuro”
Volle che ripetessi lo scongiuro con maggior convinzione
“Giuro che impiegherò tutta la forza della mia testa per tenere a distanza quella deprecata nuvola nera”.
Ifigenia sorrise fiduciosa scoprendo un dente, un canino che conferiva al suo volto di femmina bruna, un’aria infantile, vorace e un poco ferina.
L’accompagnai a casa sua poi tornai nella mia sempre tenendo la mente tesa contro la nuvola minacciosa che si estendeva nel cielo e pure dentro di me. Rivolgevo deprecazioni contro la pioggia, il fango, l’assenza della santa faccia di luce per sei settimane
Verso le 21 stavo uscendo per distrarmi quando telefonò Ifigenia
“Pronto sono io”
Un esordio telefonico che mi infastidisce, un segno di egoismo e narcisismo.
Risposi: “Io chi? Lascia perdere: ho capito chi sei. Io sono gianni e sto uscendo. Hai qualcosa di importante da dirmi?”
“Mio marito ha telefonato minacciando un delitto di onore, anzi due”
“Chi vorrebbe ammazzare?”
“Me e te”.
“Che cosa hai risposto?”
“Che noi due, tu e io, ci amiamo e siamo una forza”
“Hai fatto bene. Domani ne parliamo, ma ora devo uscire. Mi aspetta un collega in centro”.
Mi avevano disturbato le parole lanciate e lasciate nell’incertezza- in ambiguo verba iaculata-, forse addirittura inventate per mettermi in agitazione, per farsi pensare, per darsi importanza. Mezzucci miserabili. Pensai del resto che se erano vere non deponevano a favore dell’intelligenza e del buon gusto di una donna che aveva sposato un uomo del genere il quale riponeva il proprio onore sulla fedeltà della moglie che se n’era andata.
“Un marito decente- pensavo e penso- se viene lasciato da una che non lo ama, dovrebbe festeggiare l’evento risolutivo, non inseguirla, incalzarla, minacciarla o pregarla. Costoro sono dei mentecatti, “omacci” che vanno tenuti alla larga.
Doveva pensarci lei. Che questa storia fosse vera o inventata, non volevo parlarne. “Sai quanto erano meglio le finniche!” mi dissi ancora una volta.
Dal 1974 era diventato un ritornello via via durante tutte le successive storie.
Le mie tre grazie nemmeno si sognavano certe commedie. I loro mariti- dicevano le finlandesi- scrivevano lettere buone per incartare gli sgombri, senza aggiungere altro.
Mi limitai a domandare : “Cambia qualcosa tra noi?”
“No, gianni”-trillò- Non credo. Penso anzi che, casomai, cambierà in meglio: avremo più tempo per stare insieme!”
Aveva capito che la sua scena tragica e minacciosa quanto la nuvola nera mi aveva disgustato ed era passata alla farsa dell’ottimismo.
“Sai che pacchia!” pensai e la salutai.
Ero schifato. Andai a guardare il mio viso in uno specchio e mentre allungavo il collo come un’oca per avvicinarmi alla mia immaginre dissi: “conserva il tuo volto di uomo, non lasciarti imbestiare da tali starnazzi!”
La mente però si era afflosciata. Non potevo più tendere l’arco ormai slentato contro la nuvola acquosa. Mi accostai alla finestra e invece di alzare gli occhi al cielo, li abbassai sulla strada. Cadevano già alcune rade ma grosse gocce di pioggia.
Mi dissi: “Massì, piova pure: tanto la primavera sarà fradicia in ogni caso”.
Bologna 21 dicembre 2024 ore 8, 57.
p. s.
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